Grandi mostre. 1 
Untitled, 2020 a Venezia

CERCANDO
ALTRE PAROLE

A Punta della Dogana una mostra corale sull’arte del nostro tempo, dove si intrecciano, dialogano e interagiscono i grandi temi della contemporaneità.


Ilaria Ferraris

«Stiamo cercando di trovare altre parole». Così in un’intervista/conversazione del 2019(1) Caroline Bourgeois, conservatrice della Pinault Collection, descriveva il processo creativo e curatoriale che la stava portando, insieme a Thomas Houseago, artista e curatore, e Muna El Fituri, artista, fotografa, regista e storica dell’arte, a immaginare la mostra Untitled, 2020. Tre sguardi sull’arte di oggi a Punta della Dogana. Altre parole, diverse rispetto a quelle già note, più che mai necessarie per descrivere una contemporaneità in ebollizione, sfuggente, a volte insidiosa, che propone di continuo nuove sfide interpretative, a livello individuale e collettivo. Una mostra “dialogata” che nasce da una solida amicizia, da lunghissime conversazioni ricorrenti negli anni, tanto da renderne la progettazione quasi «inevitabile»(2).

Il percorso espositivo si dispiega su diciotto sale, ognuna circoscritta a un tema (“ln piedi”, “Sesso”, “Gli inizi della pittura”, “Morte”, “Lutto”, “Elementare”, “Urlare”, “Sesso e Rock&Roll”, “Impegno, Roxys”, “Lo studio”, “L’amore è il messaggio”, “Lavoro”, “Ghiaccio”, “Americani”, “Utopia”, “Vita domestica maschile”, “Perdita”), e include opere perlopiù dal 1940 a oggi, provenienti dalla Pinault Collection e da collezioni pubbliche e private internazionali, di oltre sessanta artisti, alcuni anche giovanissimi e sconosciuti, con un’attenzione particolare agli artisti afroamericani e alle artiste, spesso sottorappresentati.

(1) Conversazione tra Helen Molesworth, Caroline Bourgeois, Muna El Fituri e Thomas Houseago, in Untitled, 2020, catalogo della mostra (Venezia, Punta della Dogana, 11 luglio - 13 dicembre 2020), Venezia 2020, p. 24.

(2) Ivi, p. 23.

I tre curatori hanno escluso i grandi nomi dell’arte moderna, troppo ovvi, proponendo, in questa mostra programmaticamente “senza titolo”, esperienze creative meno storicizzate. Si sono presi il rischio di indirizzare il pubblico verso un approccio più sensoriale, per un’esperienza di visita personale, quasi corporea. Hanno quindi evitato di confezionare una mostra “a tesi”, con una visione narrativa, storico-artistica, per privilegiare l’interazione tra le opere e preservarne la pluralità e la complessità. Questioni aperte, dialoghi cercati e individuati anche con l’allestimento.

Nei lavori delle diverse generazioni di artisti si intrecciano e si rincorrono le problematiche più attuali: dalle istanze ambientali a quelle sull’identità femminile e la parità di genere, alle proteste contro le discriminazioni razziali, fino alla crisi pandemica, ancora imprevedibile quando è stata progettata la mostra, eppure evocata, in modo quasi profetico, dall’atmosfera di minaccia apocalittica presente in opere nate in contesti del tutto differenti. Il compito di tirare le fila del discorso è affidato ad alcuni nomi-chiave, che ritornano nelle diverse sale, in particolare a Valie Export, pioniera della Performance Art in Germania negli anni Sessanta-Settanta, figura di spicco nella riflessione sui condizionamenti sociali e sul ruolo femminile nell’immaginario contemporaneo; e a Thomas Houseago, chiamato a partecipare, oltre che come curatore, anche come artista.


Teresa Burga, Sin Título (1967).

David Hockney, Ian and me II, III, IV, V, VI, VII (1983).

Rallentare come «atto politico, forse il solo atto politico», afferma Caroline Bourgeois


Al centro dell’edificio, nel Cubo progettato da Tadao Ando, si trova il fulcro ideale della mostra, la ricostruzione di uno studio d’artista (ideato a partire proprio dallo studio di Thomas Houseago), uno spazio conviviale, confortevole e protetto, dove il visitatore può sedersi, sfogliare un libro, sentire musica, vedere le immagini preparatorie della mostra, o semplicemente prendere tempo, rallentare («l’atto più politico, forse il solo atto politico», afferma Caroline Bourgeois)(3).
Nel percorso espositivo gli atti politici in realtà sono molti, a partire dalla prima sala, intitolata “In piedi”: «Stare in piedi significa prendere posizione, combattere per qualcosa»(4), spiega Bourgeois. Ma nello stesso tempo la posizione verticale permette di vedere le storture del mondo, rende vulnerabili. Le opere - sculture, ma anche foto e disegni - portano allo scoperto il dolore per il declino dell’era industriale (apre la mostra, quasi un manifesto, una foto sui dintorni di Leeds del 1979 del documentarista Peter Mitchell), la memoria della seconda guerra mondiale e la presa di coscienza del pericolo nucleare in opere dagli anni Quaranta (i disegni di Henry Moore sugli sfollati nella metropolitana di Londra nel 1940) agli anni Sessanta (come i volti senza lineamenti di Nancy Grossmann, il “bassorilievo” di Lee Bontecou), la bugia dell’infanzia ideale (con i monumentali Two Boys di Ray Charles), la verticalità negata della donna/ materasso di Teresa Burga.
L’incertezza e le nevrosi del nostro tempo abitano anche la sala dedicata al sesso, in particolare al sesso maschile, con opere che ne mettono in discussione, con ironia, una certa autoreferenzialità di matrice patriarcale, insieme ai riferimenti a un’immagine stereotipata della donna. Una sala dallo humour nero, «un’atroce dark room»(5) in cui il pene è l’indubbio protagonista: nei disegni di David Hockney, Lee Lozano, Otto Mühl, nelle sculture di Alina Szapocznikow, in alcuni pezzi archeologici. Non poteva mancare, a contrappunto, l’immagine-manifesto della celebre performance Genitalpanik di Valie Export.

Saar e Foulkes, due generazioni vicine ma due mondi culturali di riferimento completamente diversi


Il tema della morte raccoglie alcune opere di notevole impatto tra cui due immagini funerarie di Marlene Dumas, una radiografia di Meret Oppenheim, lo straniante Twenty-Seventeen di Luc Tuymans, The Birth of Horus di Henry Taylor a confronto con una bellissima Iris di Rodin, senza testa, esposta sul pavimento.
La sala “Elementare” si concentra sulle strutture architettoniche e sui materiali, come il ferro, l’acqua, l’aria; una riflessione sull’emergenza climatica che nasce nell’alternanza tra pieno, vuoto, levità, peso, con pezzi di grande eleganza formale di Rei Nato o Daniel Steegman Mangrané accostati alla possanza e alla materialità delle sculture di Eduardo Chillida o alle strutture/contenitori di Georg Herold.


Llyn Foulkes, Day Dreams (1991).

“Urlare”, tra i momenti clou del percorso, vede interagire la produzione di Betye Saar, artista afroamericana ormai ultranovantenne, tra i nomi di spicco nel panorama californiano eppure poco nota e poco esposta (recentemente protagonista di un’importante retrospettiva al MoMa di New York, ma pressoché sconosciuta in Europa), con il lavoro di Llyn Foulkes, ottantacinque anni, artista e musicista di Los Angeles, dall’espressività caustica, a volte macabra, radicata con intento sovversivo nell’immaginario disneyano e pop: due generazioni vicine ma due mondi culturali di riferimento completamente differenti, due modi diversi di vedere l’arte e la politica, spesso dissonanti, per un confronto fecondo e dirompente.

La questione dell’identità culturale afroamericana è ricorrente: spiccano la raggelata Woman on a Snowball (2018), di Lorna Simpson, che occupa da sola la sala al piano terra all’estremità di Punta della Dogana, e l’emozionante video- collage di Arthur Jafa Love is the Message the Message is Death (2016), che affronta anche il tema delle violenze a sfondo razziale.

Dopo il video Crossroads (1976) di Bruce Conner, con la bellezza terrificante e ipnotica delle immagini di un esperimento nucleare nell’atollo di Bikini, alla fine del percorso One candle (2004) di Nam June Paik lascia una riflessione poetica sulla necessità di un percorso spirituale anche all’interno della trasformazione tecnologica contemporanea. In fin dei conti, le nuove parole per descrivere il tumultuoso mondo in cui viviamo dobbiamo trovarle noi, e «nel momento in cui troviamo altre parole, non siamo più gli stessi di prima».


Di Betye Saar: in primo piano The Destiny of Latitude & Longitude (2010), sullo sfondo Flight of the Trickster (2012).

Lorna Simpson, Woman on a Snowball (2018).


Nam June Paik, One candle (2004).

Untitled, 2020.
Tre sguardi sull’arte di oggi

a cura di Caroline Bourgeois, Muna El Fituri,
Thomas Houseago
Venezia, Punta della Dogana
fino al 13 dicembre orario 10-19, chiuso martedì
catalogo Marsilio
www.palazzograssi.it

ART E DOSSIER N. 381
ART E DOSSIER N. 381
NOVEMBRE 2020
In questo numero: LUOGHI MAGICI: Il castello del Buonconsiglio a Trento. Le nuove gallerie del Museo scienza e tecnologia di Milano. Le beatitudini del Romanico. IN MOSTRA: Untitled, 2020 a Venezia. Accardi a Milano. Van Gogh a Padova. Tiepolo a Milano. Gentileschi a Cremona.Direttore: Philippe Daverio