Studi e riscoperte. 1
L’estetica del brutto tra Sette e Ottocento

come dio
li ha fatti

Lontana dalla bellezza ideale che aveva trovato in Canova la massima espressione, tra gli anni Settanta e Ottanta del Settecento la scultura propone una serie di ritratti di nobili della corte sabauda caratterizzati da un realismo disarmante. Un trend che nell’Ottocento darà mostra anche in pittura di prove imbarazzanti.

Fernando Mazzocca

L'estetica del “bello ideale”, vero cardine della tradizione classicista, confermata da Winckelmann e da Mengs, rappresenta la vocazione dominante del neoclassicismo. Anche nel ritratto - pensiamo allo stesso Mengs, a Batoni, Reynolds, Vigée-Lebrun, Lampi - prevale la tendenza a superare le imperfezioni del reale e a offrire un’immagine fisica della persona raffigurata più consona alle sue virtù, al suo rango o al suo ruolo nella società, in una perfetta corrispondenza tra valori estetici e morali. Gli esiti più definitivi, lungo questa ricerca dell’idealizzazione, sono stati quelli raggiunti da Canova che trasfigurava, abbellendoli, i tratti fisiognomici dei personaggi da lui modellati sino a evitare ogni contingenza, persino quella dell’abito che non può essere quello contemporaneo perché troppo prosaico ed estraneo al linguaggio della scultura, come confermava nella sua conversazione del 1810 con Napoleone che avrebbe preferito essere ritratto in divisa e non nudo come il dio Marte. «Io gli dissi», ricorderà, «che con i calzoni così alla francese, come Egli era vestito, nemmeno Domine Iddio potrebbe fare una bella cosa, che il linguaggio dello scultore era il nudo e il panneggiamento conveniente a quest’arte, che noi abbiamo come i poeti la nostra lingua, che se il poeta parlasse alla tragedia come si parla in strada, tutti sgriderebbero che così parimenti è la scultura, che il vestito presente è il parlare di strada inconvenientissimo per l’artista». Così preferì rappresentare i membri della famiglia Bonaparte come divinità, lo stesso imperatore come Marte pacificatore, la prediletta sorella Paolina come Venere vincitrice, l’imperatrice Maria Luisa come dea della Concordia e conferire ai suoi busti una bellezza, ispirata alla perfezione di quelli antichi, che non appartiene a questa terra. 

Che nella pittura si siano levate delle voci alternative a tale predominio dell’idealizzazione, come nel caso dello spietato realismo che ritroviamo in certi ritratti di David (per esempio quello del mercante irlandese Cooper Penrose, fermato in una vecchiaia priva di grazia) o di Goya (quelli dei reali spagnoli dove non veniva fatto nessuno sconto alla loro ereditaria bruttezza e alla odierna goffaggine), non è poi così sorprendente, se pensiamo a un’altra vocazione di quella che viene indicata come l’età dei Lumi e della Ragione, relativa alla sperimentazione, alla tecnologia e all’analisi scientifica della realtà. Ci colpisce invece che nella scultura, destinata a diventare l’arte guida del neoclassicismo e dominata dai canoni del “bello ideale”, si sia potuto abbandonare ogni decoro e oltrepassare ogni limite, per addentrarsi nei confini del brutto. Questa pericolosa china venne anticipata, tra gli anni Settanta e Ottanta del Settecento, da Franz Xaver Messerschmidt che, emarginato per la «sua confusione mentale» dall’Accademia di Vienna dove era stato professore, produsse una impressionante serie di teste di carattere, veri e propri ritratti dove i difetti e le fisionomie esasperate sino alla deformazione costituivano una messa in accusa dei vizi della società, come in certi volti caricaturali di Hogarth.


Giovanni Andrea Carnovali detto il Piccio, Ritratto della contessa Anastasia Spini (1845 circa), particolare, Bergamo, Accademia Carrara.


Francesco Orso, Busto di Vittoria di Savoia- Soissons (1775-1780 circa), particolare, Aglié (Torino), castello, Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Piemonte.

Ma gli esiti più sorprendenti li ritroviamo a Torino, alla bigotta corte sabauda. Nel corso degli anni Ottanta vi risulta attivo l’ancora misterioso ceroplasta Francesco Orso, riscoperto nel 1999 da Andrea Daninos che lo ha definito un «precursore di Madame Tussaud», anche perché poi si era trasferito a Parigi dove si mise a modellare, tra lo stupore generale, vicende e personaggi della rivoluzione. Dalla generale dispersione della sua produzione si sono salvati alcuni impressionanti ritratti della famiglia Savoia e in particolare, vero assoluto capolavoro dell’estetica del brutto e di un realismo ossessivo sino alla crudeltà, il Busto di Vittoria di Savoia- Soissons realizzato verso il 1775-1780. Che dire? Canova sarebbe inorridito di fronte a questa principessa abbigliata nel suo abito di tutti i giorni e con la cuffia in testa, resi in parte con stoffe reali e in parte modellati in cartapesta colorata. E poi niente veniva risparmiato all’imbarazzante erede del grande principe Eugenio, suo zio, rappresentata, almeno vent’anni dopo la morte, con lo stesso sguardo crudele con cui l’aveva descritta la sua damigella d’onore, la contessa Angelica Lodron: «La sua figura era deforme, molto bassa, veramente grassa, con dei piccoli occhi neri, un grande naso lungo, la bocca piccola e la fronte bassa, abbigliata come una vecchia Francese borghese, insieme a delle serve particolarmente barbute, con indosso un piccolo guardinfante rotondo e delle vesti messe insieme della foggia antica»(*)


Al re non vengono risparmiati il nasone e la bocca troppo larga, alla regina le rughe e le borse sotto gli occhi


Anche se non raggiungono la ferocia realistica del ritratto di questa nana obesa e fuorimoda, ci colpiscono per ogni assenza di idealizzazione e di regalità i due busti, sempre modellati da Orso, della coppia reale composta da Vittorio Amedeo III di Savoia e da Maria Antonia Ferdinanda di Borbone che, pur nei loro abiti di corte con tanto di ermellino, ci guardano con le loro fisionomie smunte e irregolari. Al re non vengono risparmiati il nasone e la bocca troppo larga, alla regina le rughe e le borse sotto gli occhi. La loro espressione, colta come in un momento di distrazione e di stanchezza, appare terribilmente ordinaria.


Di Francesco Orso: Busto di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone (1780-1785 circa), particolare;


Di Francesco Orso: Busto di Vittorio Amedeo III di Savoia (1780-1785 circa), particolare.

(*) «Sa figure étoit laide, très-petite, d’un grand embonpointe, de petits yeux noirs, un grand nez long, une petite bouche et un petit front, se mettant en vieille Françoise bourgeoise, avec des bonnes à quatre barbes, un petit panier rond et des habits très unis faits à l’antique».

I busti dei due coniugi Teresa e Francesco Aleramo Provana del Sabbione rappresentano gli esponenti di un’aristocrazia terragna soggiogata più dal cibo e dal buon vino che dall’esercizio intellettuale


Restando sempre in quegli anni entro i confini degli stati del re di Sardegna, ma passando da un’arte marginale come la ceroplastica alla scultura in marmo, vediamo come i due fratelli Ignazio e Filippo Collino, che si erano formati a Roma nella cerchia del cardinale Alessandro Albani, il mecenate di Winckelmann e di Mengs, potessero trasformarsi quando, dopo essersi cimentati nelle figurazioni mitologiche e allegoriche, si dedicarono al ritratto. I busti dei due coniugi Teresa e Francesco Aleramo Provana del Sabbione, datati 1785 e 1786, rappresentano in tutta la loro pinguedine e terribile fisicità gli esponenti di un’aristocrazia terragna soggiogata più dal cibo e dal buon vino che dall’esercizio intellettuale. Con un realismo, assolutamente alternativo alla idealizzazione da loro solitamente perseguita, i due scultori indugiano nel rappresentare, con una precisione che conferma la loro straordinaria abilità, ogni dettaglio dei volti, dai tratti non particolarmente nobili, ma ben pasciuti sotto le ingombranti parrucche incipriate. Non sfuggono il doppio mento, in lui una vera e propria pappagorgia da obeso, gli occhi un po’ bovini, i gonfiori, i difetti della pelle come il porro che spunta a lato del naso del decurione della città di Torino. Anche gli abiti, di cui non sfugge alcun particolare, sono rappresentati con una verità assoluta quasi da sembrare uno sfoggio, un po’ volgare, del loro censo.


Giovanni Andrea Carnovali detto il Piccio, Ritratto della contessa Anastasia Spini (1845 circa), Bergamo, Accademia Carrara.

Non ritroveremo più nella scultura, nei lunghi decenni dominati da Canova e dal fascino senza tempo delle sue “teste ideali”, il crudo realismo cui erano giunti Orso e i Collino. Bisognerà attendere, nella prima metà degli anni Quaranta del nuovo secolo, la comparsa in pittura di un terribile capolavoro come il misterioso Ritratto della contessa Anastasia Spini dove un pittore eccentrico come il Piccio ha rappresentato a figura intera, seduta nel suo salotto la vecchia bruttissima nobildonna bergamasca che, rimasta nubile, sembra fosse stata «interdetta per prodigalità e minorato giudizio». Ma forse questo sospetto non corrisponde al vero e si trattava invece di una donna coraggiosa che non ha avuto alcun ritegno a farsi ritrarre dal giovane artista, protetto dalla sua famiglia che usava chiamarlo affettuosamente “piccio”, il piccolo (termine che diventerà il suo nome d’arte), così com’era, senza nascondere quel suo naso smisurato in un volto ridotto a una grottesca maschera rugosa e per di più mentre tiene con la mano sinistra la tabacchiera e con la destra stringe tra le dita una presa di tabacco. Un’abitudine allora condivisa tra uomini e donne, ma che non sarebbe mai stata esibita da una dama che avesse tenuto alla propria femminilità. Ma la simpatica bruttona di casa Spini non doveva curarsi troppo delle convenienze. Bastava che il ritratto riuscisse magnifico dal punto di vista pittorico e questo fu garantito da quel ragazzo di genio, capace di dialogare con gli straordinari ritratti cinquecenteschi di Moroni allora ancora conservati dalla famiglia Spini. La vecchia contessa devota - il libro appoggiato sul tavolo alle sue spalle è una raccolta di preghiere - ha nella sua solitudine di zitella come compagno un misterioso uccello, solo da poco riconosciuto come la femmina di un passero solitario, l’animale che era stato appena immortalato nei versi dolorosi di Giacomo Leopardi.


Scultura di Ignazio e Filippo Collino conservate nella Venaria reale di Torino: Busto di Francesco Aleramo Provana del Sabbione (1786), particolare;


Scultura di Ignazio e Filippo Collino conservate nella Venaria reale di Torino: Busto di Teresa Provana del Sabbione (1785), particolare.

ART E DOSSIER N. 311
ART E DOSSIER N. 311
GIUGNO 2014
DIn questo numero: IL REALE IL FANTASTICO I bambini di Murillo, i ritratti di Moroni e i ''brutti'' sabaudi, le visioni di Dau al Set. IN MOSTRA: Italian Fashion, Soffici, Van Gogh, Michelangelo.Direttore: Philippe Daverio