La pagina nera

MONDOVÌ HA UN BEL TEATRO:
VI È PASSATO SU L’ARATRO?

Non c’è fine al peggio. Lo testimoniano in modo crudo le immagini del Teatro sociale di Mondovì, in provincia di Cuneo. Una magnifica struttura realizzata nel 1851, ormai irrecuperabile. L’unica, magra, consolazione è un progetto di consolidamento iniziato da poco più di un anno. Una tragedia annunciata almeno trent’anni fa.

di Fabio Isman

Questa è la storia di un teatro bellissimo e glorioso, che scompare: la sua fine è stata decretata da tempo. E dopo decenni di chiusura e abbandono, i lavori da poco iniziati servono solo a metterlo in sicurezza. Recuperarlo non è più possibile, perché restaurarlo costerebbe troppo; ed è stato ormai privato di parecchi ornamenti, dettagli e strutture che nel frattempo sono crollati. Secondo certuni, era il più grande, in Piemonte, nelle città non capoluogo: e ne resterà, purtroppo, solo il ricordo. Mondovì, in provincia di Cuneo, ventitremila abitanti, non ha potuto salvare uno dei più belli tra i gioielli che possiede.

Il Teatro sociale sorge nel 1851 nel rione Piazza, uno dei quattro storici della città, in cui avevano sede la curia vescovile, l’università, la cittadella e il palazzo del governatore; dal 2006 è collegato a quello che si chiama Breo anche con una funicolare. Una chiesa del rione Piazza (San Francesco Saverio) possiede magnifiche opere di Andrea Pozzo, il gesuita trentino famoso soprattutto per la falsa cupola di Sant’Ignazio a Roma: dipinta su un soffitto piatto, dà l’impressione di grande profondità.

Ma Mondovì vantava anche altre strutture simili a questo teatro, e proprio a Piazza. «Il primo nel 1756, opera dell’architetto Filippo Giovanni Battista Nicolis di Robilant, in una sala dove si giocava a trincotto, una sorta di pallacorda: era già a palchetti», spiega oggi un altro architetto, Lorenzo Mamino. «Quindi, è stata la volta di un altro luogo, rettangolare, nel Collegio dei gesuiti; poi, nell’ex Palazzo del governatore, al Circolo dei lettori, un salone che c’è ancora: alto otto metri e lungo una ventina, già con un loggione. Seguono nel 1832 un teatro a Breo, e infine quello Sociale nel 1851». Quest’ultimo lo edifica Giovanni Battista Gorresio, in “stile italiano”: a Milano, nel 1778, la Scala aveva fatto scuola.


Pavimenti sfondati, muri scrostati, soffitti schiantati, calcinacci dappertutto. Dopo centosettant’anni, solo un requiem


La voragine nel pavimento della platea.

È a ferro di cavallo, con tre ordini di palchi e il loggione, muniti di eleganti applicazioni in legno dorato; il grande sipario raffigurava Apollo e le muse. Il costruttore è compensato con «un’azione e mezza di sua proprietà» del consorzio sorto per costruirlo. Era nato nel 1844: ce ne sono ancora alcune cedole; l’anno in cui il teatro vede la luce, due fratelli, un «conte» e un «cavaliere», sborsano 1.190 lire per le loro rispettive quote. I soci fondatori erano cinquantatre. Il teatro, che ormai è diventato un luogo fantasma, ha ospitato a lungo opere liriche, commedie, conferenze, operette e comizi. Le scolaresche assistevano alle recite pomeridiane. Si dice che ne abbiano calcato il palco perfino Eleonora Duse ed Ermete Zacconi. All’inizio, vanta trecentocinquanta posti: diventano quattrocento con un restauro del 1933, preceduto, nel 1887, da un’altra ristrutturazione. Non fa grandi numeri, ma è una presenza costante: nel 1926 ospita undici serate di spettacoli; ventisette nel 1927; e, nel 1928, trentadue. Subisce però una triste trafila, comune ad altri suoi consimili confratelli: problemi di bilancio, difficoltà nella messa a norma; finché decade.


Il parapetto della balconata al piano nobile, parzialmente crollato.

Nel dopoguerra non diventa un cinema, ed è abbandonato. Una forte nevicata nel 1978 ne compromette il tetto. E, da allora, è soltanto tragedia. Tutto rimane cristallizzato come era; a parte i crolli, che si susseguono, e i furti.

Negli anni Novanta del secolo scorso il teatro diventa un “caso”: Marco Manfredi (che poi sarebbe anche stato assessore all’Urbanistica della città) si laurea con una tesi proprio sul suo recupero. Ma non se ne fa nulla. Seguono altri vani tentativi e inutili progetti. Ma qualcuno, ogni tanto, riesce a varcare quegli ingressi sbarrati. Penetra tra quelle mura pericolanti e (con un immenso azzardo) ne ascende le scale, fino ai piani superiori: per documentare l’abbandono e l’assoluto sfascio. Il parapetto della balconata al piano nobile, parzialmente crollato, guarda in basso, fino a lambire quello inferiore; pavimenti sfondati, muri scrostati, soffitti schiantati, calcinacci dappertutto; in un locale, affastellato un mucchio di poltrone abbandonate; ampi squarci di Art Nouveau che se ne vanno; palcoscenico e retropalco ingombri dai resti del tetto ormai caduto. Uno stato assai più che avanzato di decadenza assoluta.

Arrivano anche i più celebri fotografi internazionali che documentano le architetture abbandonate: un francese, un inglese e un olandese; e siccome tra i loro intenti c’è quello di dissimulare le “prede” per non facilitare i malintenzionati, quello di Mondovì si trasforma nell’inesistente «Teatro Balconi»: con questo nome, il web è pieno di immagini che fanno star male anche soltanto a guardarle. Vane e inutili ormai le indicazioni su una scala, che suggeriscono dove andare per raggiungere «galleria e loggione», e «platea e palchi». Un tuffo nel passato; un salto in un collasso inimmaginabile. Gratuitamente, il Comune, circa mezzo secolo fa, diventa proprietario del luogo: ma non è mai stato in grado, con le sue sostanze, di provvedere al ripristino. E la situazione si è ulteriormente complicata il 9 novembre 2019, quando un’altra porzione del tetto è miseramente collassata. Le immagini scattate dal cielo hanno il sapore, e il vuoto, di un dente cariato. Per fortuna, il crollo è avvenuto all’interno, senza mettere a repentaglio nessuno.

E allora, che fare di quello scomodo scheletro di cemento? Il Comune trova mezzo milione di euro per un progetto di consolidamento, i cui lavori, dopo molteplici rinvii, sono finalmente iniziati lo scorso luglio. Dice l’assessore al Lavori pubblici Sandra Carboni: «Purtroppo, è solo per bloccare ulteriori crolli. Rifaremo il tetto anche dell’ex Caserma reale dei carabinieri, che è attigua. 


Un locale con un mucchio di poltrone abbandonate.

Nuove coperture leggere, e tiranti che blocchino la struttura. Si lavorerà un anno». Ma rivedere quel teatro resterà un sogno? «Impensabile che risorga per la sua funzione: l’accesso al palcoscenico era possibile soltanto attraverso carri trainati a mano, creeremo un altro ingresso, meno scomodo, al luogo. E troppo, ormai, se ne è andato. Io ho una pia ambizione, un desiderio che però non riuscirò a vedere esaudito: di salvarne e renderne agibili almeno gli spazi, perché non si perda la memoria del luogo.

Ma con quali finanziamenti, con quale progetto, e per farne che cosa?». L’architetto Mamino conclude amaro: «Speriamo che almeno non sparisca quanto è ancora lì dentro. Ci sono ancora tanti ornamenti, tante suppellettili, non poco della memoria del luogo, che era bellissimo, un ricordo che va assolutamente preservato». Dopo centosettant’anni, c’è unicamente un requiem.

ART E DOSSIER N. 380
ART E DOSSIER N. 380
OTTOBRE 2020
In questo numero: L'ORO di Fabrizio Plessi in esclusiva per la copertina di 'Art e Dossier'. SE I PITTORI GUARDANO IL CIELO: Le stelle di Van Gogh. Quando l'arte parla del clima. IN MOSTRA: Plessi a Venezia; Barbieri ad Astino; Christo a Parigi; Magnani a Mamiano di Traversetolo. Direttore: Philippe Daverio