Outsiders


LO SCULTORE CHE DOVEVA
MORIRE DA KAMIKAZE

«Azuma, ricordati, sei giapponese».
Marino Marini

di Alfredo Accatino

Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate: Kengjirō Azuma

Non sogno l’immortalità, mi basterebbe un quieto vivere. Per questo la storia di Kengjirō Azuma mi ha colpito e ha dato una logica ulteriore alle immagini che avevo visto in rete su una produzione così diversa, spirituale, personale. Per trovare le risposte occorre, infatti, andare indietro nel tempo, all’autunno del 1944, quando dopo l’attacco alle Filippine, la situazione militare del Giappone sembra compromessa e gli americani, che hanno iniziato a bombardare Tokyo, minacciano l’invasione. Avviene così che, nell’arco di dieci mesi, in una mossa disperata, quattromilaseicentoquindici giovanissimi aviatori detti “kamikaze” - termine tradotto abitualmente come “vento divino” -, entrano in un corpo speciale di volontari disposti a decollare con aerei alleggeriti da ogni elemento superfluo, compreso il carrello (che si sgancia al momento della partenza) per schiantarsi con duecentocinquanta chili di esplosivo sulle navi americane nel Pacifico. Non sempre gli attacchi riescono. Nove volte su dieci gli aerei vengono abbattuti, mancano il bersaglio, spariscono in acqua privi di carburante. L’offensiva dei kamikaze riuscì comunque a far affondare trentaquattro navi e a danneggiarne duecentottantotto. Il reparto, creato il 20 ottobre 1944, compì l’ultimo attacco il 15 agosto 1945, giorno della resa.

Kengjiro Azuma nasce a Yamagata, piccola città a nord di Tokyo il 12 marzo 1926 da una famiglia di artigiani del bronzo specializzati nella manifattura di campane per templi. A diciassette anni, rimasto orfano, gonfio di retorica, lascia il liceo e si arruola nella divisione aeronautica Maizuru della Marina militare. A diciannove anni, dopo un addestramento tanto duro quanto breve, è pronto a salire su un caccia Zero. La sua storia emerge dai suoi racconti: «Ho partecipato alla guerra pieno di passione, contento di sacrificare la mia vita. Per noi giapponesi, Dio era l’imperatore. Noi ci credevamo profondamente e io volevo offrire la mia vita per l’imperatore, per la patria, che amavo e volevo difendere. Per questo sono voluto diventare kamikaze. Nessuno era obbligato. In quel periodo non avevo paura di niente, ero solo pieno di amore per il mio paese».

Mancano dieci giorni alla missione suicida, quando i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki rendono inutile il sacrificio. Non è solo una sconfitta, è uno shock. Kenjiro, congedato, torna a casa psicologicamente distrutto, per terminare gli studi.

«Quando perdemmo la guerra capii che l’imperatore, il Dio in cui avevo fede, era un uomo come noi, fatto della stessa materia con cui sono fatto io. Noi uomini siamo fatti di una parte materiale e di una parte che è la materia invisibile: l’anima, l’amore, la passione, la fede, sono la nostra parte spirituale. Quando l’uomo muore queste due metà si separano ed è quello che successe a me quando persi la fede. Qui è iniziata la mia disperazione. Ho sofferto tanto, non volevo parlare con nessuno e per un anno non sono uscito. È stata per me una delusione spaventosa. Ero morto, finito come uomo. Dopo un anno, una tarda sera, ebbi un’idea: dedicarmi all’arte per ricolmare quel vuoto che la fede aveva lasciato in me. Credevo, con l’arte, di poter essere vicino a Dio. Così volli diventare un artista, uno scultore».

Sin da ragazzo, nella manifattura di famiglia, aveva iniziato a plasmare piccole figure di animali, ed è l’arte che lo salva.


Kengjirō Azuma e la moglie Shizuyo all'Accademia di belle arti di Milano con, tra gli altri, al centro, Marino Marini.

Dopo un blackout di quattro anni, nel 1949 si iscrive all’Università di Tokyo, per seguire i corsi di scultura di Hirakushi Denchu, e si laurea nel 1953. Scrive: «Quando ho iniziato a interessarmi di scultura durante il liceo, conoscevo solo la scuola francese. Parigi appariva l’unica meta. […] Poi nei primi anni Cinquanta arrivò nel mio pae- 41 se una grande mostra di scultura italiana. Rimasi folgorato dalle opere di Marino Marini. Altro che Parigi, ho pensato, voglio andare a studiare in Italia». Azuma prova a uscire dal suo paese, ma solo nel 1956 ottiene, al terzo tentativo, una borsa di studio dal Governo italiano. Comincia così a studiare la nostra lingua guidato da padre Vincenzo Cimatti, rettore dell’Università salesiana di Chofu (in una zona periferica di Tokyo), e ha anche il tempo di sposarsi con la giovane Shizuyo.

E ora compiamo un balzo di novemila chilometri per raggiungere Marino Marini, mito dell’arte del Novecento. Anzi, mi piace ricordare una leggenda, che vorrei fosse vera, che affermava che Marini era l’unico artista a cui Picasso dava del “lei”. E se non è vera, vi prego, raccontatela lo stesso. Dal 1954 Marini lavora e vive con la moglie a Forte dei Marmi e a Milano, ed è qui che incontra Kenjiro. Il primo ha cinquantacinque anni anni, l’altro trenta: due personaggi apparentemente diversi, che hanno però evidenti radici comuni nella purezza della vocazione. Quando il giovane artista arriva in Italia, il 22 settembre del 1956, ha già iniziato a esplorare la scultura occidentale. Attratto dal figurativo e dalla staticità ieratica di Marini, inizia poi a scoprire le superfici ossee di Henry Moore, le opere di Fontana e Giacometti. Il suo mentore rimarrà tuttavia Marini, tanto che dal terzo anno viene invitato a lavorare nel suo studio milanese in piazza Mirabello, a due passi dall’Accademia di Brera, dove Azuma si diplomerà nel 1960, rinunciando al suo incarico di assistente all’Università di Tokio per amore del maestro.

Si stabilisce così tra il giovane artista giapponese e il più maturo scultore italiano un rapporto professionale e di amicizia strettissimo. Azuma stesso ricorderà sempre con orgoglio e commozione il momento nel quale il «maestro Marino», come lo chiamava lui, gli consegna le chiavi del suo studio di Milano che, alla sua morte, gli lascerà. Illuminante quello che dice di Azuma il critico Giuseppe Appella, che ne è stato amico e promotore, ospitandolo al Musma (Museo della scultura contemporanea) di Matera: «Per lui l’arte era la vita.


Piazza del Tempo (1997), Sendai (Giappone), parco Kotodai.

Faceva perché doveva fare. Scendeva, andava a studio e si metteva a lavorare. Non seguiva una filosofia Zen, lui era lo Zen». Interessante su questo punto l’analisi compiuta in un articolo dalla ricercatrice Cecilia Maggioni(*), da cui ho raccolto alcune citazioni seguenti, nelle quali si svela il percorso indicato dal Tao Tê Ching di Lao-Tzu del perenne mutamento.

Di fatto Azuma riesce a riscoprire le proprie radici orientali solo dopo «essere diventato occidentale ». Marini lo capisce e lo incoraggia su questa strada, fornendogli la chiave di volta: «La forma è vuoto e il vuoto è forma».

In quell’anno Kenjirō decide di togliere dallo studio tutto il lavoro precedente, che tanto risentiva della personalità del suo maestro, incarnando in questo un “kōan zen” che adoro: «Se sulla tua strada incontri Buddha, uccidilo». Inizia così una ricerca del tutto personale, che ebbe la sua radice nell’idea della «bellezza non costruita, qualcosa che può essere sentito solo da un giapponese, un ferro che sta arrugginendo, una catasta di legno della frutta crollata, l’elemento invisibile che c’è dietro la materia, il pieno e il vuoto».

Decide di rimanere per sempre nel nostro paese, italianizzando il nome in “Kengiro” e nel 1965 nascerà suo figlio che chiamerà Anri Ambrogio. In Italia il boom economico coinvolge anche il mondo delle arti. Azuma espone così a Milano, Venezia, Roma. Con Gian Carlo Menotti il Festival dei due mondi di Spoleto attira il massimo dell’arte contemporanea e vede Kenjiro alla ribalta nel 1962 nella V edizione della rassegna diretta da Giovanni Carandente con l’opera MU. Da allora tutte le sue opere prenderanno lo stesso nome a esprimere due concetti della cultura zen alla base della sua scultura: il vuoto (“mu”) e il pieno (“yu”). Non c’è l’uno senza l’altro, sono indivisibili e necessari.

Accanto a ogni opera inserisce un numero intero per le sculture e un decimale per i dipinti. Opere non pensate per compiacere la vista, per esigenze di arredo o per stupire. Basti vedere MU 141 - La vita infinita, una scultura bronzea priva di qualunque compiacimento estetico, creata per il Comune di Milano e inaugurata nel 2015 davanti al Cimitero monumentale.

Nel 1980 muore Marino Marini: Azuma seguirà i lavori per la realizzazione del suo museo a Firenze e della fondazione a Pistoia, e inizia a insegnare scultura e arte orafa presso l’Accademia di belle arti di Milano.


Kengjirō Azuma, con la goccia piccola MU-765 (2010), sull’alzaia Naviglio Grande a Milano.

Residente per un certo periodo a Gattico, vicino a Novara, lavora nel suo studio milanese alla Bicocca sino all’ultimo, ricevendo dall’imperatore del Giappone l’onorificenza “Kunyonto-Kyokujitsusho” riservata a coloro che con la loro attività hanno reso onore al paese del Sol Levante.

Perché sta allora tra gli “outsiders”? Per il percorso compiuto, per essere stato capace di mutare radicalmente il proprio destino. Perché oggi è dimenticato. Muore di tumore il 15 ottobre 2016. Aveva detto: «Molte mie sculture riprendono la forma della goccia d’acqua […] La goccia quando si stacca da una gronda o da una foglia assume una forma bellissima, perfettamente bilanciata tra la sfericità della gravità e la parte allungata verso il cielo. Eppure questo stato è tanto rapido da risultare invisibile all’occhio umano. In un attimo nasce, in un attimo svanisce. E così è la nostra vita. In un attimo nasciamo, in un attimo la vita ci abbandona. La goccia cade a terra, viene assorbita, evapora, sale verso il cielo, si condensa, ritorna goccia. Nella goccia c’è il ciclo della vita».

(*) C. Maggioni, Azuma Kengiro - Lo Zen si fa scultura, 6 maggio 2017 (www.temizen.zenworld.eu).

ART E DOSSIER N. 380
ART E DOSSIER N. 380
OTTOBRE 2020
In questo numero: L'ORO di Fabrizio Plessi in esclusiva per la copertina di 'Art e Dossier'. SE I PITTORI GUARDANO IL CIELO: Le stelle di Van Gogh. Quando l'arte parla del clima. IN MOSTRA: Plessi a Venezia; Barbieri ad Astino; Christo a Parigi; Magnani a Mamiano di Traversetolo. Direttore: Philippe Daverio