XXI secolo
L’Africa e l’arte contemporanea

SPAZI DI
PARTECIPAZIONE

In un luogo come l’Africa dove il sistema culturale è in parte ancora da costruire, quattro esponenti dell’arte contemporanea, tutti originari del continente africano, hanno deciso di mettere la propria esperienza al servizio delle comunità locali. “Art e Dossier” ha approfondito l’argomento con ognuno di loro.

Riccarda Mandrini

tre artisti - Hassan Darsi, Wael Shawky, Ibrahim Mahama - e il curatore e direttore del Mathaf: Arab Museum of Modern Art di Doha (Qatar), Abdellah Karroum, da tempo si muovono su un terreno comune. Chi prima e chi dopo, in diverse città africane, hanno scelto di aprire quattro spazi dedicati all’arte contemporanea. Iniziative nate in risposta non solo a un’assenza istituzionale pubblica dedicata a questo ambito, ma anche a una carenza nel sistema stesso dell’arte. Luoghi in cui lavorare, ospitare mostre locali e internazionali e dove incontrare curatori provenienti da tutto il mondo. Ogni spazio ha una propria storia autentica, unica e profondamente umana. I tre artisti e Karroum ne hanno parlato con “Art e Dossier”.

Era il 1995 quando Hassan Darsi (1961), a Casablanca, la sua città natale, decise di coinvolgere un gruppo di autori locali per promuovere un nuovo modello di arte contemporanea che partiva dall’analisi dei problemi sociali e prendeva forma attraverso una serie di progetti condivisi, realizzati in collaborazione con la gente. Già allora artista affermato in patria e all’estero, Darsi non trovò troppi ostacoli nel comporre il gruppo di lavoro. Come prima sede scelse una storica scuola situata nel quartiere Aïn Sebaâ, ovvero, in lingua francese - ampiamente diffusa in Marocco a causa del suo passato di colonia gallica -, La Source du Lion, da cui il collettivo prese il nome.

Non fu semplice per Darsi spiegare ai cittadini in che cosa consisteva la progettualità del suo team. Ben più di una volta il gruppo si trovò di fronte gli sguardi attoniti delle persone rispetto a un inedito modo di fare arte. Forte della sua esperienza, Darsi e La Source du Lion scelsero, sin dall’inizio, di lavorare su un doppio canale di comunicazione. In primo luogo presentando progetti sociali, di volta in volta rivolti a specifici target, capaci di coinvolgere la collettività; in secondo luogo parlando con le persone, soprattutto con i giovani, per chiarire che l’arte non riguarda solo l’atto finale della rappresentazione pittorica o scultorea, ma la vita stessa, individuale e della comunità.

Immediatamente seguì l’apertura di un atelier a disposizione di tutti, degli artisti locali e dei molti giovani (usciti dalle poche accademie d’arte del Marocco), dove poter lavorare e confrontarsi.

Con l’obiettivo sempre più determinato di avviare iniziative inclusive, Darsi promosse un progetto pluriennale, la Bibliothèque itinérante, creata sulla base del fondo di libri, cataloghi d’arte e pamphlet (dedicati alle differenti esperienze d’arte contemporanea), raccolti dalla Source du Lion e fruibili da insegnanti e studenti di varie scuole. La Bibliothèque prevedeva un programma di incontri con artisti locali e curatori, inteso nell’ottica di una riflessione critica rispetto all’idea e alle pratiche proprie dell’arte contemporanea.


Laboratori artistici con Gabi Farage organizzati dal collettivo La Source du Lion nel parc de l’Hermitage a Casablanca.

Azione artistica come “moteur” di sviluppo di una piattaforma di ricerca e produzione creativa


La forma sempre più compiuta della progettualità della Source du Lion si sviluppò, nei primi anni del 2000, in una serie di interventi che portarono l’attenzione del collettivo al di là dei confini del Marocco. Uno tra i progetti faro fu Le projet de la maquette per il parc de l’Hermitage, realizzato nel 2002-2003, il cui fine era il recupero dal degrado della nota area di Casablanca, ideata in epoca coloniale tra il 1917 e il 1927 dall’architetto francese Henri Probst. La Source du Lion scelse di affrontare il problema in un dibattito pubblico. Darsi propose di andare oltre il modello dell’azione artistica e coinvolse le persone nella costruzione del progetto, composto da una grande e dettagliata “maquette”, un modellino realizzato in materiali diversi recuperati nel parco. Nel tempo il parc de l’Hermitage è stato completamente riallestito e oggi è una delle più grandi aree naturali di Casablanca. Le projet de la maquette fu presentato nel 2007 alla Bienal International de Arte Contemporáneo di Siviglia curata da Okwui Enwezor e qualche anno dopo acquisito dal Centre Pompidou di Parigi per la propria collezione permanente.


Hassan Darsi/collettivo La Source du Lion, Le projet de la maquette (2002-2003), Parigi, Centre Pompidou.

Anno dopo anno i progetti della Source du Lion - Les fleuves brûlent sur terre, Le square d’en bas e Le lion se meurt (che poneva l’attenzione sulla condizione degli animali nello zoo di Casablanca) - hanno assunto una sempre maggiore complessità, in linea con l’evoluzione del contesto sociale e urbano della città.

Nonostante l’eco internazionale che da anni il gruppo riscuote, Darsi rimane ancorato al territorio, continuando a lavorare sul modello dell’azione artistica come “moteur” di sviluppo di una piattaforma di ricerca, sperimentazione e produzione creativa, in risposta alla volontà di vivere la città “autrément”, in modo diverso.

Wael Shawky (1971, Alessandria d’Egitto) nel 2010 avvia un progetto “educational” e di residenze per giovani artisti che chiama MASS Alexandria.

La base di riferimento è il suo studio, un ampio spazio di oltre quattrocento metri quadrati situato in un sobborgo denominato Miami, nella sua città natale.

«Quando cominciai con MASS, la prima residenza contava trenta studenti, a quell’epoca erano tutti egiziani, molti di Alessandria. Sin dall’inizio le residenze sono state costruite sul modello del workshop. Durano in media un anno e vi sono coinvolti diversi generi di allievi, da quelli molto giovani a quelli già laureati. Durante questa esperienza ricevono le visite di altri artisti, curatori e direttori di musei in modo da favorire il confronto con professionisti del settore».

L’idea di MASS è parte di una storia assolutamente personale per Shawky. «All’inizio della mia carriera d’artista mi sono state date delle opportunità, credo sia giusto ricambiare facendo lo stesso con altre persone», riflette quasi tra sé. «Le cose si sono mosse in fretta, MASS ha raccolto subito l’attenzione di diversi professionisti rispetto alle mie proposte. Nel 2011, quando sono stato invitato a Documenta 13 (curata da Carolyn Christov- Bakargiev), ho presentato sì il mio lavoro, ma d’accordo con Carolyn ho portato a Kassel dodici studenti di MASS. Per un mese hanno potuto lavorare con gli artisti invitati a Documenta, essere presenti all’“opening”, ai “talks”, incontrare i curatori. Hanno così avuto non solo la possibilità di visitare una grande mostra quale Documenta, ma anche di esserne parte integrante. La medesima cosa poi è avvenuta in occasione della Biennale di Salonicco e della Biennale di Sharjah. Fino a tre anni fa gli studenti erano solo egiziani, nel tempo MASS ha raggiunto una propria maturazione progettuale e la piena sostenibilità e quindi abbiamo aperto l’esperienza a studenti internazionali. Riceviamo “applications” da diversi paesi europei ed extraeuropei come la Cina», spiega.

Come artista, Wael Shawky supporta personalmente MASS.


Wael Shawky, The Gulf Project Camp, veduta dell’installazione della 14 Sharjah Biennial (7 marzo - 10 giugno 2019).In occasione di quest’evento l’artista, fondatore di MASS Alexandria, progetto “educational” e residenze per giovani artisti ad Alessandria d’Egitto, ha coinvolto diversi studenti partecipanti di MASS.


«In Egitto ci sono pochissimi musei, nessuno dedicato all’arte contemporanea. MASS ha contribuito ad arricchire il panorama culturale di questo settore ad Alessandria, intorno a esso è cresciuta una comunità di persone che viene a visitare le mostre e segue i nostri progetti. Le cose si sono mosse in fretta e in modo quasi autonomo », conclude.

C’è poi Ibrahim Mahama (1987, Tamale, Ghana). «Savannah Centre for Contemporary Art (SCCA) è stato aperto a Tamale nel marzo 2019», spiega l’artista, «l’idea di questo progetto aveva cominciato a prendere forma quando sono tornato in Ghana dopo la mia residenza a Gasworks [centro d’arte di Londra] nel 2013, quindi quando ho cominciato a esporre a livello internazionale. All’inizio pensavo semplicemente di creare degli “studio spaces”, spazi di lavoro per artisti», chiarisce.

Nel tempo molto è cambiato rispetto all’idea iniziale del progetto. SCCA ha una bella architettura, gli spazi interni sono curatissimi e dotati di supporti tecnologici di qualità. «SCCA è un luogo dedicato alla cultura contemporanea, alla ricerca, ospitiamo artisti in residenza. È frequentato da giovani e da tantissimi bambini. Attorno a SCCA è nata una vera e propria “community”», riferisce Mahama.


«Durante i nostri workshop i bambini sono i più entusiasti»
(Ibrahim Mahama)


Perché Tamale, chiediamo? «È la mia città, la città in cui sono nato. È un grande centro, c’è un aeroporto internazionale e una popolazione giovane, tanti bambini hanno molta voglia di imparare. Durante i nostri workshop sono proprio loro i più entusiasti. Stiamo pensando di ampliare gli spazi. Il lavoro che vogliamo fare a SCCA è quello di ragionare in modo aperto, non solo in termini di arte, ma anche di tecnologia e agricoltura. Abbiamo un progetto dedicato all’agricoltura e al paesaggio». Tutto inteso in un contesto di cultura contemporanea?, chiediamo ancora. «Si, certo».
In occasione dell’“opening” di SCCA avete presentato In Pursuit of Something Beautiful, perhaps… la vostra prima mostra, dedicata al lavoro dell’artista ghanese Kofi Dawson (1940). «Questa mostra ci ha permesso di far conoscere alle persone una parte della storia dell’arte recente del Ghana», spiega. SCCA si può definire un “bel posto” dove passare il tempo, assolutamente moderno, un luogo che offre un buon lavoro a diversi giovani africani. Ma come viene finanziato tutto questo, gli domandiamo? «Con il mio lavoro d’artista», risponde candidamente.


Due immagini della mostra In Pursuit of Something Beautiful, perhaps… in occasione dell’inaugurazione del Savannah Centre for Contemporary Art (SCCA) a marzo 2019, fondato da Ibrahim Mahama a Tamale (Ghana).

Infine, Abdellah Karroum (1970, Marocco). «L’Appartement 22 a Rabat è nato nel 2002 come luogo indipendente d’incontro dedicato alla cultura contemporanea », riferisce. «Quando dopo il dottorato in Europa tornai in Marocco, come curatore il mio interesse era quello di lavorare con gli artisti della mia generazione, che allora avevano tra i venticinque e i trentacinque anni, artisti che parlavano di questioni “engagées”, di natura, di problemi sociali. Volevo organizzare mostre, discutere di cultura contemporanea, ma allora non c’erano musei o spazi per farlo. Provai anche a parlarne con l’Università, con alcuni professori ma mi resi conto che era troppo difficile, i tempi non erano maturi».

Nel racconto di Karroum si mescolano i ricordi e le storie del presente in una narrazione dalle sfumature letterarie, a tratti personale. «A quel tempo avevo affittato a Rabat un appartamento per abitarci», spiega. E mentre fruga nella memoria e il suo pensiero va a ritroso, le riflessioni si sovrappongono. «Le istituzioni non avevano degli spazi adeguati per avviare un dialogo con la contemporaneità. Quindi decisi che il mio appartamento sarebbe stato il luogo dove realizzare i miei progetti. Ho iniziato tutto da zero, invitavo gli artisti per parlare, immaginavamo delle forme di performance. Era il 2000, non organizzavamo ancora delle mostre vere e proprie, ma delle “expéditions”, dei progetti creati per accompagnare e supportare gli artisti nel loro lavoro. Questa progettualità si è trasformata, dal 2002, in mostre successive. L’Appartement 22 è uno spazio aperto a tutti, dove far incontrare le persone, dove creare degli scambi con la vita reale, dove discutere di cultura contemporanea», conclude.

E oggi, chiediamo? «Il y a de tout», c’è di tutto, riferisce.


Soukaina Joual, Adam & Eve (2017), veduta dell’installazione nell’Appartement 22 (Rabat, Marocco), fondato da Abdellah Karroum nel 2002.


Costruita secondo un modello aperto, la struttura dell’Appartement 22 negli anni è stata declinata secondo una geografia precisa. Data 2007 la fondazione della R22 Art Radio, a seguire è nata la sezione dedicata alla documentazione delle mostre e degli eventi e quindi è stato creato l’archivio con le biografie degli artisti e curatori che hanno lavorato all’Appartement 22.

E da un punto di vista finanziario?, aggiungiamo. «In passato ho lavorato come curatore ed ero pagato, dal 2013 sono il direttore di un museo, ho un “salaire”. Questo mi ha permesso negli anni di sostenere l’Appartement 22. Sin dall’inizio tutte le persone che vi hanno lavorato, anche gli artisti in residenza, hanno avuto un salario. Le spese per l’appartamento sono a mio carico. Abbiamo anche dei mecenati, delle persone che conoscono il nostro lavoro e che lo supportano; da qualche tempo ha preso avvio una sorta di modello cooperativo, nel senso che se un artista fa una mostra all’Appartement 22 e vende un’opera, lascia una parte del ricavato per sostenere il lavoro degli altri», conclude Karroum.

ART E DOSSIER N. 380
ART E DOSSIER N. 380
OTTOBRE 2020
In questo numero: L'ORO di Fabrizio Plessi in esclusiva per la copertina di 'Art e Dossier'. SE I PITTORI GUARDANO IL CIELO: Le stelle di Van Gogh. Quando l'arte parla del clima. IN MOSTRA: Plessi a Venezia; Barbieri ad Astino; Christo a Parigi; Magnani a Mamiano di Traversetolo. Direttore: Philippe Daverio