Studi e riscoperte. 3
Il pesce nella cultura e nella pittura
vascolare greca e italica
del V-IV secolo a.C.

dalla nassa del pescatore
al desco
del ricco

Nell'antichità greco-italica il pesce, dopo un esordio arcaico come cibo da mensa povera, nel V-IV a.C. secolo entra nei consumi di ogni classe sociale, conservando connotazioni simboliche legate al mito, alla festa, alla religione e ai suoi rituali.

Monica Centanni, Alessandra Pedersoli

«Pasticciodiostrichetrancidipesceconigliosalsapestosilfo formaggiomieletordimerlicolombipiccionipollicefaliarrostopalombicutrettolelepri mostardaalucce»(*)

Nell’epilogo delle Donne al parlamento di Aristofane (Ecclesiazuse, messa in scena in Atene alle Lenee del 391 a.C.), il coro presenta la ricetta di un pasticcio che sarà il piatto forte del banchetto finale della commedia, declamando un’unica parola che si dipana per ben sette versi. Si tratta di un composto impronunciabile, di grande effetto sul pubblico per l’abilità tecnica dispiegata dal drammaturgo, ma per la comicità di primo impatto, che fa leva sullo stesso sentimento di sorpresa e di leggero fastidio che ci colpisce oggi a leggere (o a sentir pronunciare da altisonanti e impettiti “maîtres”) le denominazioni elaboratissime di certi piatti da menu d’autore. 

Prendiamo spunto da Aristofane per una riflessione sull’alimentazione, l’arte culinaria e il valore sociale della scelta delle vivande, e in particolare dei piatti a base di pesce, nella Grecia di madrepatria e delle ricche colonie d’Occidente. E notiamo che i primi ingredienti enumerati nell’impossibile parola aristofanea di ben centosessantanove lettere - pasticcio, o menu “continuatus” di portate e ghiottonerie assortite - si riferiscono alla sfera ittica: ostriche, tranci di pesce… 

Va ricordato che nei banchetti della Grecia arcaica non si trova traccia di pietanze a base di pesce: nell’Iliade il pesce non è certamente il cibo preferito degli eroi, che si nutrono normalmente di carne, di pane e di vino. Anche nell’Odissea i Proci nella reggia di Itaca banchettano con carni e vino. Il pesce è soltanto un nutrimento povero e di riserva, a cui si ricorre in casi eccezionali per saziare la fame dei reduci dal “nostos”, il viaggio del ritorno a casa.


Pittore di Ambrosios, kylix (510-500 a.C.), ceramica a fgure rosse da Atene, Boston, Museum of Fine Arts.

(*) Aristofane, Ecclesiazuse, trad. di G. Paduano, Milano 2001, vv. 1169-1175.

Alcuni pesci erano ritenuti sacri e pertanto immangiabili: per esempio la seppia o il calamaro, legati ai miti di metamorfosi di divinità come Teti o Iride


Da ricordare anche che il nobile Filottete, abbandonato a Lemno per dieci anni, pur ridotto a una forma selvatica e primaria di sopravvivenza, si nutre non di pesce, ma soltanto degli uccelli che riesce a cacciare con l’arco di Eracle (almeno secondo la versione della tragedia di Sofocle). Cibarsi di pesce, nella Grecia arcaica, denotava insomma rozzezza e indigenza, ma implicava anche un rapporto ambiguo e pericoloso con il mare, con la sacralità delle sue forme di vita e le impurità che l’acqua del mare raccoglie, lava e restituisce. È più o meno la stessa diffidenza nei confronti del pesce che si riscontra ancora oggi in molti abitanti dei paesi costieri. 

Alcuni pesci erano ritenuti sacri e pertanto immangiabili: per esempio la seppia o il calamaro, legati ai miti di metamorfosi di divinità come Teti o Iride. Altri pesci erano sacri in quanto, come le triglie, erano l’offerta particolare nei sacrifici a Ecate (secondo Apollodoro). O come il primo tonno pescato che, in Attica, doveva essere dedicato a Poseidone. Plutarco ricorda che per i pitagorici mangiare pesce rappresentava un atto riprovevole, ai limiti del cannibalismo, in quanto gli uomini, secondo il filosofo Anassimandro, avevano origine proprio dai pesci (Moralia 730). Ancora nel V secolo d.C. nelle fonti, già cristiane, si trovano tracce di pregiudizi nei confronti dei pesci come alimenti commestibili (Sinesio di Cirene, Lettera 148; un discorso a parte andrebbe fatto sulla simbologia del pesce come Cristo, e sui conseguenti tabù nel contesto della cultura cristiana dei primi secoli). 

Da segnalare però, contro questi pregiudizi di matrice culturale e religiosa, le svariate testimonianze che ricaviamo dalle fonti storiche e letterarie e dai trattati antichi in cui si registra, già nel V e IV secolo a.C., una grande attenzione all’economia ittica finalizzata al consumo alimentare. 

Archestrato di Gela, poeta contemporaneo e forse discepolo di Epicuro, nel suo Hedypatheia, “Il piacere del gusto” (IV secolo a.C.), menzionava i migliori porti in cui comprare pesce, molluschi e crostacei, dove mangiare le qualità più gustose e rinomate e quali fossero i modi più prelibati di preparazione del pesce. Del perduto trattato del poeta di Gela (conosciuto anche come “Gastronomia, o poema del buongustaio”) ci è giunta notizia grazie a Ennio (III-II secolo a.C.), ma soprattutto ad Ateneo che nel suo Deipnosophistai, “Gli intellettuali a banchetto” (II secolo d.C.) inscena una conversazione con l’amico Timocrate in cui dotti esperti, anche di arte culinaria, si incontrano e dibattono fra loro, fornendo tra l’altro un accurato catalogo di cibi e pietanze, in cui non mancano manicaretti a base di pesce.


Piatto con pesci (primo ventennio del IV secolo a.C.), ceramica apula a figure rosse da Spina, Ferrara, Museo archeologico nazionale di Ferrara.

Anche nell’iconografia di V e IV secolo a.C. possiamo ritrovare informazioni utili circa le attività economiche e culinarie legate al pesce. L’attività pescatori è pratica diffusa, sebbene le raffigurazioni siano piuttosto rare. Tra le più note è la decorazione interna della coppa a figure rosse attribuita al pittore di Ambrosios, ora al Museum of Fine Arts di Boston. Un ragazzo nudo si protende da uno scoglio sullo specchio d’acqua sottostante, dove si riconoscono alcuni piccoli pesci e una piovra: il giovane sta pescando con una canna da pesca e una nassa. Oltre a questi attrezzi, per la pesca da terra era comune l’uso di reti e tridenti. 

Dalla pittura vascolare è possibile anche trarre informazioni circa il commercio e la vendita al dettaglio del pesce, nello specifico il tonno, già particolarmente rinomato in Sicilia. In un cratere apulo a campana a figure rosse proveniente da Lipari e ora conservato al museo Mandralisca di Cefalù è rappresentata una scena di vendita al dettaglio, in cui un vecchio è intento a sezionare un grande tonno sopra un piano di lavoro sostenuto da un tripode; di fronte all’improvvisato bancone sta l’acquirente, un uomo barbuto che, allargando il palmo della mano destra, mette in bella mostra una grande moneta. Data la fisionomia caricaturale dei personaggi e la strana presenza del bancone-tripode, potrebbe trattarsi della rappresentazione di una scena comica. Sta di fatto che la grossa moneta prova che in questi anni il pesce, e in particolare il tonno, è merce pregiata. 

Una scena simile, ma probabilmente di senso completamente diverso, è rappresentata su un altro cratere a campana apulo a figure rosse, già in collezione privata a Monaco e recentemente messo in vendita da Christie’s: al centro è raffigurato un grande pesce ancora integro, adagiato su un tripode, mentre una donna versa del liquido da un’“oinochoe”, assistita da un satiro, riconoscibile dall’orecchio puntuto e dalla coda caprina. Se si tratta, come pare, della rappresentazione di una scena di sacrificio, l’immagine precedente sul cratere di Cefalù potrebbe esserne la parodia: una trasposizione del rito in chiave mercantil-culinaria. 

Nel corso del V secolo a.C., a partire da Atene, comincia a diffondersi un particolare tipo di ceramica dipinta con pesci e crostacei che ebbe grande diffusione, nei secoli successivi, a partire dalle botteghe di Taranto, Paestum, Capua, Cuma per giungere poi in tutta la Magna Grecia. Attualmente nelle diverse collezioni si contano oltre mille esemplari di stoviglie a decorazione ittica, rinvenute per lo più in contesti sepolcrali. Nel piatto del Royal Albert Memorial Museum di Exeter, datato alla metà del IV secolo a.C. e proveniente dall’area di Cuma, si può osservare che al centro della superficie decorata compare una piccola cavità, probabilmente il vano che conteneva la salsa. Numerosi e variegati sono i tipi di pesci raffigurati in questo genere di piatti: si riconoscono il pesce persico, orate, pesci siluro, molluschi e crostacei di ogni tipo, seppie e piovre. 

Notevole è la collezione ora conservata al Museo di Reggio Calabria, ma numerosi esemplari sono stati rinvenuti anche in area adriatica: l’esemplare del Museo archeologico di Ferrara, di manifattura attica e datato al primo ventennio del IV secolo a.C., è stato rinvenuto presso la necropoli di Spina: tra i pesci si riconoscono tre orate adagiate attorno all’incavo centrale. Il ritrovamento in contesti funerari attesta l’importanza attribuita a questi oggetti, che con ogni probabilità non erano soltanto stoviglie di uso quotidiano. 

La raffigurazione di pesci cucinati e pronti per essere degustati, eseguita su serie di piatti destinati con tutta probabilità proprio al servizio delle stesse vivande, è un’importante testimonianza del fatto che il pesce, nella cultura arcaica derubricato a cibo selvatico o religiosamente impuro, già nel V secolo a.C. è considerato un prodotto alimentare pregiato, presente nei banchetti più chic delle classi sociali abbienti. Ma presente anche sulle mense dei cittadini ateniesi, come si legge nel finale della commedia di Aristofane, quando la città fa festa mettendo in tavola i piatti più prelibati, con gli ingredienti più strani mescolati insieme in un mix - linguistico e culinario - francamente indigeribile. Che serve anche a buttare in burla la possibilità che le donne vadano, veramente, al governo in Parlamento.


Pittore del venditore di tonno, cratere a campana (380-370 a.C.), ceramica a figure rosse da Lipari, Cefalù, museo Mandralisca.

ART E DOSSIER N. 310
ART E DOSSIER N. 310
MAGGIO 2014
In questo numero: IL PRANZO E' SERVITO Cibo nell'arte: il pesce nella Grecia antica, la simbologia del pane, il nutrirsi come gesto e la dimensione alimentare nel contemporaneo. IN MOSTRA: Kahlo, Dora Maar. Direttore: Philippe Daverio