Arte in conflitto


la galleria
degli orrori

di Federica Chezzi

Dietro la dolcezza, l’ospitalità, il sorriso si nasconde la sofferenza di un paese, nelle mani di pochi, colpito continuamente dalla mano della violenza: la Colombia

«La prima impressione che hanno della Colombia i viaggiatori è quella di un popolo dolce, ospitale e felice, tanto accogliente che a volte è difficile crederci, e costa molto accettare la verità di quella trama di tragedie e sfortune accumulate che solo chi le conosce può descrivere. Il paese mostra sempre una superficie ingannevole, non necessariamente per ipocrisia ma per una testarda necessità di convincere se stesso che le cose non vanno male». 

Così scrive il poeta e saggista colombiano William Ospina (Tolima, 1954) nel suo ultimo libro Pa que se acabe la vaina (Perché finisca questa storia) che racconta l’odierna Colombia partendo da circa duecento anni fa quando, dopo l’indipendenza, il paese fu spartito tra una mezza dozzina di famiglie, alleate della Chiesa; e così è rimasto, lasciando il popolo da sempre estraneo a ogni partecipazione al potere. Vittima, invece, di una lunghissima guerra civile (iniziata nel 1964 è ancora in corso), della violenza del governo, del narcotraffico, dei paramilitari pagati da narcos e latifondisti, della dipendenza dagli Stati Uniti (che mediamente erogano ogni anno alla Colombia circa tre miliardi di dollari): effetti, più che cause, di una politica che stenta a cambiare strada. Se si aggiunge che il divario tra ricchi e poveri è profondissimo (un benestante guadagna l’equivalente di sessanta poveri) e che nel 2010 è stato il paese col maggior numero di vittime da mine antiuomo dopo l’Afghanistan, si può capire come - difficilmente - l’arte colombiana possa evitare un confronto diretto con il tema della violenza.


Fernando Botero, il Pájaro distrutto nell’attentato del 1995.

Del resto lo stesso “monumento nazionale” Gabriel García Márquez (Aracataca, 1927) esordì come giovane giornalista raccontando le prime rivolte conseguenti all’assassinio (Bogotá 1948) del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán, durante le quali si contarono più di tremila morti. Mentre il celebre Pájaro dell’altra gloria nazionale, lo scultore e pittore Fernando Botero (Medellín, 1932), è stato usato nel 1995 per nascondere la dinamite che ha ucciso trenta persone e oggi, lasciato a brandelli, è divenuto un monumento in ricordo delle vittime dell’attentato. Botero, conosciuto in tutto il mondo per le sue bonarie effigi, non è in verità troppo partecipe delle lotte in patria (e per questo contestato dai giovani artisti), ma nel 2005 ha realizzato una serie di dipinti dedicata agli orrori scoperti nel carcere di Abu Ghraib: «Nessuno», ha affermato l’artista, «si sarebbe ricordato dell’orrore di Guernica se Picasso non l’avesse dipinto». La “scultrice della memoria” Doris Salcedo (Bogotá, 1958) - nel 2007 al Tate Modern di Londra e nel 2012 al MAXXI di Roma - è l’autrice di Noviembre 6 y 7 (2002), installazione in ricordo del drammatico assalto al Palazzo di giustizia a Bogotá del 1985, che si risolse con più di cento morti: decine e decine di sedie, tante quante furono le vittime, scendono lungo le facciate del palazzo, calate in momenti diversi, a scandire la macabra sequenza delle esecuzioni. Un altro artista che lavora sulla memoria è Oscar Muñoz (Popayán, 1951), nelle cui opere una spessa coltre lattiginosa si deposita sulle immagini: foto di desaparecidos o defunti, pubblicate sulle pagine dei quotidiani. Un’operazione che, lungi dall’essere una didascalica presentazione della cronaca colombiana, interroga la nozione di memoria e di tempo. 

I seminari di Deleuze e Foucault, seguiti a Parigi, hanno invece improntato la produzione artistica di José Alejandro Restrepo (Bogotá, 1959) a un orientamento sociologico, particolarmente attento alle intersezioni della violenza con l’arte. Videoartista, docente e critico militante, Restrepo ha esposto alle biennali più importanti in America del Sud e anche in Europa (a Venezia nel 2007). La sua opera, copiosa e angosciante, fa appello a un risveglio della coscienza, a una resistenza individuale e collettiva di fronte alle ingiustizie generate dalle diverse forme autoritarie. Attraverso documenti d’archivio, Restrepo analizza le informazioni, i gesti dei momenti cruciali della violazione demoprecratica nel suo paese: in El Caballero de la Fe (2011), per esempio, si ripercorre l’orribile storia dei “falsi positivi”, innocenti cittadini assassinati dall’esercito per gonfiare i risultati della lotta contro i guerriglieri. Altro artista riconosciuto, della medesima generazione, è Wilson Díaz (Pitalito, 1963), videoartista e fotografo che ha fatto della guerriglia la materia prima delle sue opere. 

Altro drammatico fenomeno colombiano è quello dei “desplazados”: intere famiglie assediate da guerriglia, narcos e paramilitari, o semplicemente dall’estrema povertà, sono costrette a fuggire dalle campagne e dalle montagne, e vanno ad affollare le periferie delle città metropolitane. Juan Manuel Echevarría (Medellín, 1947), all’età di undici anni viene mandato in collegio negli Stati Uniti e ritornerà in Colombia solo alla fne degli anni Sessanta. Spaesato, Echevarría trova una terra attraversata da una violenza senza fne, che deciderà di raccontare, “mostrando l’indicibile”. Corte de forero (1997) è uno dei suoi lavori più riusciti: la raffinata politezza della tecnica fotografica mostra un inquietante “erbario” costituito da ossa umane meticolosamente ricomposte a mo’ di piante, dai nomi tragicamente evocativi (Aloe Atrox per esempio); macabra allusione alle orribili mutilazioni praticate sui corpi delle vittime negli anni Cinquanta. Un lavoro straordinario che mira a infrangere il muro di silenzio e indifferenza che anche i colombiani hanno imparato a erigere. 

Il titolo della serie La “O” fa riferimento a una vocale mancante su una delle lavagne immortalate dall’artista all’interno delle scuole abbandonate a causa del “desplazamiento forzado”: e la forza di queste immagini, nelle quali la natura si riappropria di luoghi un tempo vissuti, è davvero potente. François Bucher (Cali, 1972) è artista, scrittore ed editore (“Valdez Magazine”) e rappresentava la Colombia alla passata edizione della 55. Biennale di Venezia (2013).


Doris Salcedo, Noviembre 6 y 7 (2002).


Fernando Botero, Abu Ghraib (2004-2005).

Di Juan Manuel Echevarría: Silencio rosado, dalla serie La “O’” (2010);


Di Juan Manuel Echevarría: El Testigo, dalla serie La “O’” (2010);


Di Juan Manuel Echevarría: Oscar Murillo, Untitled (2013).

Il suo lavoro è legato alle trame della storia e della politica, in particolar modo attratto dalle questioni etiche riguardanti la violenza e la rappresentazione della stessa. Una delle sue opere più note e discusse è Severa vigilancia (2007), un reportage sulle rovine della casa ormai disabitata di uno dei più feroci e potenti narcos, il socio di Pablo Escobar, Gonzalo Rodríguez Gacha detto il Messicano (ucciso in un confitto a fuoco con l’esercito). 

Meno attratti dal confitto sono invece i giovanissimi Murillo e Argote. Oscar Murillo (La Paila, 1986), “star delle aste”, è presentato dalla critica internazionale più glamour come il nuovo «Basquiat colombiano», e all’opera dell’artista newyorchese smaccatamente si ispira (anche troppo); Ivan Argote (Bogotá, 1983) è un simpatico provocatore di professione, che forse qualcuno ricorderà per aver fittiziamente sfregiato un Mondrian (in realtà il vetro protettivo) o per la performance durante la quale leccava, devoto, i sostegni dei vagoni della metro parigina. 

Nell’opera di Miguel Ángel Rojas (Bogotà, 1946), infine, la vita personale e l’arte confondono i propri margini, riflettendosi l’una nell’altra sui concetti di “normalità/ non appartenenza/clandestinità”. Omosessuali emarginati, tossicodipendenti, vittime della guerra e delle mine antiuomo, clandestini per classe, etnia e orientamento sessuale sono i protagonisti sconfitti e silenti del suo pensiero artistico, che si manifesta nel solco ricercato e graffante della grande tradizione della fotografia sperimentale. Così è nel suo David I (2004-2013) dove, acuto, stride il contrasto tra la posa omaggiante l’aulico modello rinascimentale, la sensualità erotica del ragazzo e la penosa mutilazione del suo giovane corpo.


François Bucher, Severa vigilancia (2007);

Juan Manuel Echevarría, Aloe Atrox, dalla serie Corte de forero (1997);


Miguel Ángel Rojas, David I (2004-2013).

ART E DOSSIER N. 310
ART E DOSSIER N. 310
MAGGIO 2014
In questo numero: IL PRANZO E' SERVITO Cibo nell'arte: il pesce nella Grecia antica, la simbologia del pane, il nutrirsi come gesto e la dimensione alimentare nel contemporaneo. IN MOSTRA: Kahlo, Dora Maar. Direttore: Philippe Daverio