Avvolto in un nero tabarro, san Rocco quasi si inginocchia per benedire la piaga di un appestato e donargli la guarigione. È l’unico personaggio che ci mostra le spalle nel grande palcoscenico di una narrazione drammatica, illuminato solo dalla splendente aureola che lo incorona. È lui, san Rocco, pellegrino arrivato in Italia da Montpellier, che viene invocato nel Medioevo e nei secoli successivi dalle popolazioni tormentate dalla “morte nera”. Lui e san Sebastiano - che “sublima” i bubboni pestiferi con le frecce che trapassano il suo corpo - furono i riconosciuti protettori dei terribili flagelli che ripetutamente martoriarono le città di tutta Europa. Ma fu Tintoretto a esplorare, con la foga espressiva che lo distingue, la sciagura del genere umano colpito dal morbo della peste e isolato nei lazzeretti. Correva l’anno 1549, tempo di difesa per una Venezia sempre più in difficoltà di fronte all’avanzata della flotta turca e alla diminuzione dei suoi commerci nel lontano Oriente. Le istituzioni veneziane, fortemente impegnate a mantenere almeno il mito e l’immagine della città, chiamavano e profumatamente pagavano pittori, architetti e scultori, da Schiavone a Sansovino, da Tiziano a Veronese. Molti altri artisti arrivavano attratti dalla vivace vita culturale lagunare, creando un circolo virtuoso che faceva della Serenissima uno dei luoghi di incontro più ambiti, dove si incrociavano stili e tendenze. Quell’anno, il 1549, quando Tintoretto dipinse San Rocco risana gli appestati, non si registrarono pestilenze. Ma bisognava essere sempre pronti al peggio perché gonfiori e piaghe “visitavano” spesso i veneziani portandosene via a centinaia. Era successo appena tre anni prima e poi anche nel 1528 e ancora nel 1523.
Studi e riscoperte. 2
La peste a Venezia nel Cinquecento
OMAGGIO
AL SANTO PROTETTORE
Colpita ripetutamente dalla “morte nera”, Venezia fa da sfondo alla tenace e caparbia vita di Tintoretto, artista capace di immortalare il tragico evento con crudo realismo e di fronteggiare la rivalità mai sopita con il maestro Tiziano.
Valeria Caldelli
Però il contagio e la paura si erano limitati ai mesi estivi, lasciando calli e fondamenta liberi per la normale vita quotidiana di affari e commerci già nei primi mesi dell’autunno. Non fu così nel 1510, quando la peste dilagò invece nella laguna, in città e nelle sue campagne mietendo migliaia di vittime e interrompendo anche, a soli trentadue anni, la vita e l’arte di Giorgione con tutti i suoi segreti, da allora rimasti irrisolti. Così Venezia, che per i suoi molti scambi si trovava ad affrontare ondate quasi decennali del morbo, cercava di proteggersi raccomandandosi ai santi più qualificati. Per questo una confraternita laica nacque già nel 1478 consacrandosi a san Rocco e assicurandosi pochi anni dopo le sue reliquie, che furono trasportate da Voghera, dove il riconosciuto protettore degli appestati era morto poco più di un secolo prima. La monumentale chiesa che avrebbe accolto quei resti (e ancora li custodisce) doveva perciò onorarlo con un ciclo di grandi dipinti che ricordavano l’ultima parte della vita del santo: la sua cattura, il carcere, la benedizione degli animali, la guarigione di un paralitico e, naturalmente, la visita in un lazzeretto. San Rocco risana gli appestati è un telero di quasi sette metri in cui un groviglio di corpi emerge tra luci e tenebre in una commovente intensità. La scena si apre come in un teatro: vuota la pavimentazione centrale che lascia penetrare lo sguardo fino al santo e all’ammalato che ostenta la sua putrida piaga. Dietro di loro, nell’oscurità illuminata da un’unica torcia, si intravede il tormento di corpi ormai morenti in attesa di essere trasportati nella parte più buia del lazzeretto, dove non esiste più alcuna speranza. Ai lati la scena si apre con due donne senza scarpe ma vestite con sfarzo, che, come sipari di un palcoscenico, scoprono lo spettacolo osceno dello strazio degli infermi intenti a mostrare i segni evidenti della peste sul loro corpo.
«Colorito di Tiziano e disegno di Michelangelo», aveva scritto sulle pareti della sua bottega, o almeno così si racconta. Neanche la grande peste di Venezia, quella che per tre anni, dal 1575 al 1577, infuriò sull’intera laguna sterminando un terzo dei suoi abitanti, riuscì mai a spegnere la sete di Jacopo ad “appropriarsi” dei risultati dei “giganti” del suo tempo per migliorarsi continuamente, spingendo la sua rivoluzionaria pittura, fatta di tocchi rapidi, fasci di luce e gesti teatrali, sempre più lontana dallo stile classico.
Era ambizioso, Tintoretto, ma anche audace nello sbaragliare la concorrenza offrendosi al prezzo di soli colori e pennelli. «Il più terribile spirito che abbia mai conosciuto la pittura», sentenziò tranchant Giorgio Vasari. Non aveva torto.
Di certo, però, san Rocco non concesse la stessa grazia a Tiziano che, ventotto anni più vecchio del Tintoretto, morì di peste il 27 agosto del 1576. Ciò che forse accadde la notte in cui morì Tiziano ce lo racconta Melania G. Mazzucco in alcune delle più belle pagine della Lunga attesa dell’angelo, biografia romanzata di Tintoretto. La scrittrice lo vede andare a piedi, sprezzante della peste e dei predoni che si aggiravano incontrastati, nella casa di Tiziano ai Biri, milletrecentotrentasei passi dal palazzetto sulle fondamenta dei Mori dove Tintoretto abitava da anni con la sua numerosa famiglia. E lo vede entrare nel cortile fatiscente e poi nella camera a soqquadro del famoso maestro per acquistare una grande tela - l’Incoronazione di spine - dal figlio Pomponio. Ancora una volta la fantasia potrebbe aver superato la realtà e non è detto che una suggestione corrisponda alla storia vera. Ma è un fatto che quel dipinto è una delle ultime opere di Tiziano, datata tra il 1570 e il 1576, passata al Tintoretto dopo la morte dell’autore, rimasta nella sua bottega alle fondamenta dei Mori fino alla sua morte avvenuta nel 1594, e poi venduta - secondo fonti storiche - dal figlio Domenico. Oggi il quadro è custodito nell’Alte Pinakothek di Monaco. Dunque l’acquisto ci fu realmente e se pure dovesse essere avvenuto in maniera meno rocambolesca, resta certamente un segno dell’ammirazione del vecchio figlio del tintore verso il maestro di sempre. Comunque i due rivali si fronteggiano ancora: la Scuola grande di San Rocco, fastoso “museo Tintoretto”, è a poche decine di metri dalla chiesa dei Frari, “museo Tiziano” per eccellenza. Così il terribile Jacopo, nonostante le ostilità di molti, ha ottenuto quello che per tutta la vita aveva cercato: il successo e la gloria eterna.
Anche la grande peste veneziana del Cinquecento ebbe la sua gloria eterna. Una elegante chiesa dalla bianca facciata palladiana e dedicata al Redentore venne fatta erigere dal doge alla Giudecca perché Cristo stesso intercedesse e ponesse termine alla drammatica epidemia. E il 13 luglio 1577 la fine della pestilenza venne festeggiata ufficialmente con una lunga processione di barche nel canale della Giudecca a rendere omaggio alla nuova chiesa non ancora ultimata. Un rito sacro e pagano che da allora si ripete ogni anno la stessa notte in attesa dell’alba più ambita di tutti i tempi: quella di giorni migliori.
ART E DOSSIER N. 379
SETTEMBRE 2020
In questo numero: RICORDO DI VITTORIO GREGOTTI. La forma e il contesto. IL MISTERO OLTRE L'IMMAGINE. Key Sage la surrealista. L'artista veggente cieco. Un'ipotesi per Michelangelo. IN MOSTRA: Fornasetti a Parma. Caravaggeschi a Roma.Direttore: Philippe Daverio