Grandi mostre. 2
Caravaggio e i caravaggeschi dalla collezione Longhi a Roma

IL GENIO
E LA SUA CERCHIA

Fu Roberto Longhi, il grande storico dell’arte del secolo scorso scomparso cinquant’anni fa, a comprendere il valore rivoluzionario di Caravaggio, artista che, con i suoi seguaci italiani e stranieri, divenne il fulcro delle ricerche dello studioso e il cuore della sua prestigiosa collezione.

Maurizia Tazartes

Caravaggio «vendé il Putto Morso dal Racano per quindici giulij» scriveva tra il 1617 e il 1620 Giulio Mancini, primo biografo del pittore. Si trattava del magnifico dipinto con quel ragazzo urlante e dolorante per essere stato morso da un ramarro, in cui ogni centimetro di pittura è una novità. Da quella rosa in testa al “giovane effeminato” alla spalla nuda, dalla boccia piena d’acqua e di riflessi alle mani tese e contratte dalla sofferenza. Un saggio di naturalismo, realizzato a Roma intorno al 1597 da un ventiseienne Caravaggio che, dopo essere stato dal Cavalier d’Arpino era in procinto di trasferirsi dal cardinale del Monte. Non certo il primo - c’erano già stati il Bacchino malato e il Fruttaiolo - ma così originale da colpire l’“avversario” Giovanni Baglione che lo descrive nel 1642 come «un fanciullo, che da una lucertola, la quale usciva da fiori e da frutti, era morso». E da influenzare una serie di artisti, Sofonisba Anguissola compresa, sino a giungere all’attenzione di Roberto Longhi, che lo acquista intorno al 1928, quando era già un agguerrito storico dell’arte di trentotto anni.

L’opera, fiore all’occhiello della collezione Longhi, conservata presso la omonima fondazione fiorentina (un’altra versione autografa, forse di poco successiva, è alla National Gallery di Londra), è il simbolo delle scoperte longhiane su Caravaggio e i caravaggeschi. Il grande storico, nato ad Alba il 28 dicembre 1890, di cui ricorrono i cinquanta anni dalla morte a Firenze il 3 giugno 1970, è stato precoce in tutto. A ventun anni, nel 1911, si laurea a Torino con una tesi su Caravaggio, relatore Pietro Toesca. Scrive su riviste prestigiose (“La Voce”, “L’Arte”), studia il Rinascimento e il futurismo, Piero della Francesca e Boccioni, presente e passato. Vi trova legami, crea nuove aperture e metodologie. Dirige periodici (“Vita artistica” con Emilio Cecchi, “Critica d’Arte” con Ragghianti), fonda “Pinacotheca”, “Proporzioni”, “Paragone”. Diventa professore ordinario a Bologna nel 1937 e a Firenze nel 1949.


Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro (1597 circa). Le opere riprodotte in questo articolo fanno parte della Fondazione Roberto Longhi a Firenze.

“caravaggeschi”, spiriti liberi cui il Merisi suggeriva atteggiamenti più che impartire regole


Nel 1939 si trasferisce nella villa Il Tasso, sulle colline fiorentine, dove continua a lavorare sino alla fine organizzando mostre e scrivendo saggi illuminanti su tutta la storia dell’arte, che rimangono pietre miliari per i cultori della materia. Ad affascinarlo in modo particolare è il Seicento, con Caravaggio allora quasi sconosciuto, ma per lo studioso il primo pittore dell’età moderna. Lo considerava il rivoluzionario fondatore di quel naturalismo che arriverà sino a Courbet, opponendosi a tutta una tradizione accademica, che vedeva nel pittore lombardo l’ultimo dei classici.

Poi c’erano i “caravaggeschi”, i pittori della «cerchia », spiriti liberi cui il Merisi suggeriva atteggiamenti più che impartire regole.


Battistello Caracciolo, Cristo morto trasportato al sepolcro (1601-1625).

E lui, Longhi, come «ferocissimo caravaggista», come si definiva nel 1927, li andò a cercare in tutta Europa, presentandoli nella grande Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi del 1951 a Palazzo reale di Milano per spiegare al pubblico la loro portata rivoluzionaria. Nel 1952 usciva la monografia Caravaggio, mentre nella villa Il Tasso crescevano la biblioteca, la fototeca e una raccolta di dipinti, oggi di duecentocinquanta pezzi, dai primitivi a Carrà e Morandi, a testimonianza delle sue ricerche.

Cinquanta opere del nucleo caravaggesco sono esposte nella mostra Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi in corso a Roma, che racconta la strada esaltante dello storico dell’arte nella ricerca di questi pittori italiani ed europei. Fiore all’occhiello della rassegna è il Ragazzo morso da un ramarro del Merisi, accompagnato da un disegno a carboncino della sola figura del ragazzo eseguito da Longhi, firmato e datato 1930, che dimostra non solo la sua abilità grafica ma anche l’affezione all’opera.


Mattia Preti, Susanna e i vecchioni (1656-1659 circa).

Il Ragazzo che monda un frutto, già esposto alla mostra del 1951, considerato una “reliquia” da Longhi, è una copia antica tratta da uno dei primi esemplari romani del pittore, ispirato a certe “mezze figure” simboliche diffuse in Lombardia già negli anni Ottanta del Cinquecento.

E, per sottolineare l’ambiente lombardo in cui Caravaggio si era formato, sono presenti in mostra quattro piccole tavole di Lorenzo Lotto con Santi e Madonna, una Giuditta con la testa di Oloferne del veronese Battista del Moro e le Pollarole del bolognese Bartolomeo Passarotti. Quest’ultimo straordinario dipinto del 1580 circa, probabilmente noto a Caravaggio visto che si trovava nella collezione Mattei a Roma già nel 1603, gli offriva un interessante precedente nel settore della natura morta e un esempio di naturalismo in chiave “ridicola” con allusioni simboliche sessuali.

L’Allegoria della vanità del romano Angelo Caroselli, del 1620 circa, un intrigante dipinto legato alla magia, era entrata nella collezione Longhi nel 1930. Nel 1927 era stata acquistata dallo storico la tela con Mosè ritrovato dalle figlie del faraone del veneziano Carlo Saraceni, del 1608-1610, esposta in mostra insieme ad altre sue opere: il Ritratto del cardinale Raniero Capocci e la suggestiva Giuditta con la testa di Oloferne del 1618 circa. In quest’ultima tela, acquistata da Longhi nel 1939 dall’antiquario Publio Podio di Bologna, la lezione caravaggesca diventa ancora più cruda e macabra con quella serva che regge tra i denti un lembo del sacco dove finirà la testa mozzata di Oloferne.


Angelo Caroselli, Allegoria della vanità (1620 circa).


Carlo Saraceni, Giuditta con la testa di Oloferne (1618 circa).

“Scena di taverna” ispirata alla Vocazione di san Matteo di Caravaggio

Altro fiore all’occhiello della mostra è la strepitosa tela di Valentin de Boulogne con la Negazione di Pietro, del 1615-1617 circa, con quella “scena di taverna” ispirata alla Vocazione di san Matteo di Caravaggio nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi. L’opera, in origine nella collezione romana di Giovanni Battista Mellini, morto nel 1627, era entrata negli anni Sessanta del Novecento in quella di Longhi, che l’aveva a lungo studiata e voluta.

Del napoletano Giovan Battista Caracciolo detto il Battistello c’è un Cristo morto trasportato al sepolcro, pubblicato da Longhi negli Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, un dipinto drammatico fortemente caravaggesco. La fortuna di questo artista, agli inizi del Novecento poco noto, si deve proprio a Longhi che gli aveva dedicato un precoce saggio nel 1915 su “L’Arte” diretta da Adolfo Venturi.

Jusepe de Ribera, uno dei primi caravaggeschi, compare in mostra con i suoi cinque Apostoli, entrati nella collezione Longhi nel 1921 per acquisto dall’antiquario romano Angelelli, dopo una lunga serie di passaggi. Anche il romano Domenico Fetti è presente con una Santa Maria Maddalena, datata dallo storico prima del 1613.

Nella collezione ci sono anche artisti liguri, piemontesi, lombardi. E anche una bella rappresentanza di stranieri, che da Roma portano la lezione di Caravaggio nel Nord Europa, tutti individuati e studiati da Longhi, che apre percorsi alla critica successiva. Qualche esempio? Gerrit van Honthorst, di cui è esposto un intenso Monaco che legge del 1618 circa. O il fiammingo Matthias Stom (Stomer) con il suo Annuncio della nascita di Sansone a Manoach e alla moglie del 1630-1632 circa, un’opera dalla luce intensa e dal forte realismo entrata prima del 1943 nella prestigiosa raccolta. Ci sono poi Dirck van Baburen con una Cattura di Cristo e l’affascinante Maestro dell’Annuncio ai pastori, la cui grande Adorazione dei pastori del 1630-1640 è una delle maggiori testimonianze dell’anonimo pittore attivo a Napoli tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, in stretto rapporto con Ribera, ma ancora più espressivo negli affetti.

Tra le tante meraviglie in mostra, non si può dimenticare Susanna e i vecchioni di Mattia Preti, un dipinto di raffinata sensualità di metà Seicento. Preti è «il terzo fra i geni pittorici del Seicento italiano», dopo Caravaggio e Battistello Caracciolo, secondo la definizione di Longhi, che gli dedicò a soli ventitre anni un pionieristico saggio, la molla per la ricostruzione e la fortuna critica dell’artista.


Matthias Stom, Annuncio della nascita di Sansone a Manoach e alla moglie (1630-1632 circa).


Jusepe de Ribera, San Tommaso (1612 circa)

ART E DOSSIER N. 379
ART E DOSSIER N. 379
SETTEMBRE 2020
In questo numero: RICORDO DI VITTORIO GREGOTTI. La forma e il contesto. IL MISTERO OLTRE L'IMMAGINE. Key Sage la surrealista. L'artista veggente cieco. Un'ipotesi per Michelangelo. IN MOSTRA: Fornasetti a Parma. Caravaggeschi a Roma.Direttore: Philippe Daverio