L'oggetto misterioso 


LA DIGITALE
DEL DOTTOR GACHET

di Gloria Fossi

Poche settimane prima di morire Van Gogh ritrae il dottor Gachet: una rappresentazione più o meno “occulta” della malinconia, lo “spleen” come la chiama Vincent. Indizio: due romanzi e un fiore. La soluzione in una poesia di Pascoli

Fra le tele di Van Gogh al Musée d’Orsay, quella riprodotta nella pagina a fianco è la più discussa. Raffigura il dottor Gachet seduto a un tavolino rosso, con una pianta di digitale. È la variante di un dipinto scomparso verso il 1998, realizzato fra maggio e giugno 1890 (qui a p. 62). Fu eseguita pochi giorni dopo la prima, e donata al medico. Nessuno, da allora, ha accostato dal vivo le due opere (e sarebbe stato interessante). La storia, come spesso accade in questa rubrica, pare un thriller. Settembre 1890: Theo van Gogh, dopo la morte del fratello, espone a Parigi la prima versione, la più intensa e ricca di significati, con altre trecentocinquanta tele. Dopo la morte di Theo (1891), la vedova Jo la vende al mercante Vollard, che nel 1896 la rivende a una danese. Seguono altri proprietari fino a che, nel 1939, viene confiscata dal famigerato Hermann Göring ai Musei statali di Francoforte, dov’era giunta nel 1911. I nazisti la dichiarano «arte degenerata» e la svendono. Poco dopo passa a un banchiere ebreo d’origine tedesca, Siegfried Kramarsky, che dall’Olanda emigra a New York prima dell’invasione nazista. Con sé porta il dipinto, che dal 1984 darà in prestito al Metropolitan Museum of Art, dove abbiamo avuto la fortuna di ammirarlo, nel novembre 1989. Il 15 maggio 1990, gli eredi ottengono a un’asta di Christie’s 85,2 milioni di dollari, cifra fino ad allora mai raggiunta da un dipinto a una vendita pubblica. L’acquirente, il giapponese Ryoei Saito, bizzarro personaggio, per non dir di peggio, dichiara che alla sua morte si farà bruciare con la tela. “Boutade”? Impossibile dirlo, perché le sue finanze hanno un tracollo (non si fatica a crederlo). Senza che nessuno l’abbia potuta più ammirare, la rivende (1996 circa) a un finanziere austriaco, Wolfgang Flöttl, che a sua volta la cede, non sappiamo a che cifra, né a chi. Da allora non è più ricomparsa.

Torniamo alle origini, 1890: Vincent ha trentasette anni. È in uno stato di forte disagio e dal 20 maggio abita ad Auvers-sur-Oise, pittoresco villaggio a trenta chilometri da Parigi, con case di pietra e tetti a capanna, amato da Cézanne, Pissarro, Daubigny. Vi abita anche il dottor Gachet, che ha sessantadue anni, ed è «un uomo che comprende bene le cose, e che un po’ ti assomiglia fisicamente», così Vincent rassicura Theo. L’artista olandese alloggia all’albergo Ravoux, quasi in faccia all’edificio comunale: due luoghi che raffigura, insieme a molti altri, negli ultimi dipinti, circa ottanta in sessantotto giorni. La vita, in quell’inizio d’estate, scorre secondo i ritmi della campagna. Vincent frequenta il pasticciere Murer, va a pesca con i fratelli Secrétan, che lo prendono in giro, e per amico ha l’eccentrico Gachet, che abita in una casa «piena di anticaglie nere nere nere, salvo un quadro di Pissarro, tre di Cézanne e due di Guillaumin [ora al Musée d’Orsay, donati dagli eredi Gachet]». Il 3 giugno 1890, di martedì, Vincent scrive a Theo: «Ho fatto il ritratto del dottor Gachet con un’espressione di malinconia che a coloro che guarderanno la tela potrà sembrare una smorfia». In un’altra lettera, questa volta a Gauguin, scrive che quel ritratto ha «l’espressione straziata del nostro tempo». Non a caso Gachet, studioso di patologia mentale, aveva pubblicato uno Studio sulla malinconia. Il malinconico, vi scriveva, «sembra che si rannicchi, si rattrappisca, debba occupare il minor spazio possibile […] Le dita contratte. La testa china sul petto, leggermente inclinata a destra o a sinistra. Tutti i muscoli del corpo in stato di semi-contrazione. Quelli facciali raggrinziti, tormentati, danno alla fisionomia una particolare durezza. Le sopracciglia, sempre tese, sembrano nascondere l’occhio e rendere l’orbita più profonda».


Ritratto del dottor Gachet (Auvers-sur-Oise, primi di giugno 1890), prima versione, ubicazione sconosciuta.

La malinconia di Gachet, lo “spleen” del quale parla spesso Vincent, è la stessa sua. Gachet è entusiasta del ritratto (e forse per questo gli chiede una copia in dono). Altri indizi: i libri con la copertina gialla dei fratelli Goncourt (Manette Salomon e Germinie Lacerteux) assenti nella variante parigina. Sono romanzi tanto amati dal dottore e dall’artista, con le copertine giallo cromo come i girasoli, come i campi di grano, come la Casa gialla che ha lasciato ad Arles. “Last but not least”, il rametto fiorito di digitale, dal quale si otteneva un cardiotonico che Gachet consigliava ai pazienti epilettici. Il ritratto doveva produrre, come scrive Vincent, «l’effetto di un’apparizione», una sorta di immersione cromatica nella solitudine nell’angoscia. Gachet, agli occhi di Vincent (e non c’è ragione di non credergli) sembrava «malato e confuso quanto te e me», scrive a Theo, precisando che quel ritratto «con un libro giallo e una pianta di digitale con i fiori viola» mostrava «lo stesso sentimento del ritratto di me stesso che ho dipinto quando sono partito per qui».


Natura morta con statuetta (Parigi, dicembre 1887), particolare, Otterlo, Kröller-Müller Museum.

È proprio il sentimento dei suoi ultimi ritratti, cioè la cupa malinconia che lo aveva assalito ad Arles, quando si era tagliato l’orecchio, era stato ricoverato all’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy e lo aveva assalito la consapevolezza che non sarebbe più guarito. La malinconia di Vincent, come quella del suo alter ego, Gachet, è una malinconia “essenziale”, come ha spiegato Jean Starobinski. Gachet poteva, doveva, ritrovare nel ritratto i «caratteri segnaletici» da lui stesso individuati nel tipo malinconico. Ma c’è di più, ci pare. Ne abbiamo trovato riscontro nella poesia La digitale purpurea, pubblicata da Giovanni Pascoli su “Il Marzocco” del 20 marzo 1898. I versi s’ispirano a un ricordo della sorella Mariù, educanda nel convento di Sogliano al Rubicone (Forlì). Durante una passeggiata con la maestra, Mariù rimane attratta da un fiore mai visto: una moltitudine di campanelle color porpora, a grappolo. La suora ordina di non annusarlo, perché è un fiore velenoso, assai pericoloso, se assunto in dosi eccessive. Tossico, anzi mortale: «Quel segreto canto misterioso, con quel fiore… fior di? Morte: sì, cara […] Tanto io ci credeva che non mai, Rachele, sarei passata al triste fiore accanto / Ché si diceva: il fiore ha come un miele che inebria l’aria; un suo vapor che bagna l’anima d’un oblìo dolce e crudele». Oggi la digitale purpurea non è più in uso come pianta officinale, e non ci è riuscito trovarla in altri dipinti. I due romanzi dei fratelli Goncourt rafforzano, ci pare, quel sentore di “spleen” e di morte: Manette Salomon, che parla di aspirazioni e delusioni degli artisti, e Germinie Lacerteux, ambientato in una Parigi ambigua, opulenta oppure miserrima.


Fiore di digitale purpurea.

ART E DOSSIER N. 379
ART E DOSSIER N. 379
SETTEMBRE 2020
In questo numero: RICORDO DI VITTORIO GREGOTTI. La forma e il contesto. IL MISTERO OLTRE L'IMMAGINE. Key Sage la surrealista. L'artista veggente cieco. Un'ipotesi per Michelangelo. IN MOSTRA: Fornasetti a Parma. Caravaggeschi a Roma.Direttore: Philippe Daverio