Studi e riscoperte. 1 
Cecità e arte

A OCCHI CHIUSI
PER VEDERE MEGLIO

La cecità come paradossale attributo del veggente - ma anche del poeta, del cantore, e in ultima analisi dell’artista - è ben testimoniata nel mito fin dall’antichità. Ne ripercorriamo qui alcuni esempi tratti dalla letteratura e dalle arti visive, partendo dall’ultima incarnazione di Tiresia evocata da Andrea Camilleri.

Rossana Mugellesi, Stefania Landucci

«Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera delloscrittore Melville, quello di Moby Dick. OppureTiresia sono, per dirla alla maniera di qualcunaltro»: così esordì lo scrittore Andrea Camillerinella sua recita dal vivo a Siracusa nel 2018(1).Ormai quasi del tutto privo della vista, lascelta del richiamo a Tiresia - il profeta cieco più famosodell’antichità - è stata per Camilleri molto coinvolgente(2).

Il mito. Passeggiando sul monte Citerone, Tiresia incontrò due serpenti che si stavano accoppiando e, avendo colpito la femmina con un bastone, si trovò di colpo mutato da uomo in donna. Sette anni dopo, di fronte alla stessa scena e avendo agito allo stesso modo, si rivide tramutato in uomo. Per il fatto di aver provato questa doppia natura fu consultato da Zeus ed Era che discutevano se in amore il piacere femminile fosse maggiore o minore di quello maschile. Rispose che se il piacere ha dieci parti la donna ne riceve nove e l’uomo solo una; alla rivelazione di questo segreto, Era si infuriò e lo rese cieco, ma Zeus, non potendo cancellare quanto deciso da un’altra divinità, lo ricompensò con la facoltà di prevedere il futuro e di vivere per sette generazioni(3).

Anche Primo Levi, per la sua doppia natura di chimico e scrittore, in La chiave a stella ammette di sentirsi un po’ Tiresia: «In tempi lontani anch’io mi ero imbattuto negli dei in lite tra loro; anch’io avevo incontrato i serpenti sulla mia strada, e quell’incontro mi aveva fatto mutare condizione donandomi uno strano potere di parola: ma da allora, essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe»(4).

La fortuna del mito di Tiresia spazia dunque dalla sfera letteraria antica a quella moderna. Come Primo Levi anche Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò, lo rende protagonista, insieme a Edipo, nel dialogo intitolato I ciechi: «Non c’è vicenda di Tebe in cui manchi il cieco indovino Tiresia. Poco dopo questo colloquio cominceranno le sventure di Edipo - vale a dire, gli si aprirono gli occhi, e lui stesso se li crepò dall’orrore»(5).

(1) A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Palermo 2019, p. 9.

(2) Per la complessa e articolata figura di Tiresia si rimanda a E .Di Rocco, Io Tiresia, Metamorfosi di un profeta, Roma 2007.

(3) Ovidio, Metamorfosi III 316-336.

(4) P. Levi, La chiave a stella, Torino 2014, p. 50.

(5) C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino 1999, p. 20.

La poesia, come l’arte profetica, è un dono degli dei

Ed è presente nella tradizione pittorica. Johann Heinrich Füssli in Tiresia predice il futuro a Odisseo si ispira all’episodio di Odissea X, 493-495 ove l’eroe si consulta sul suo ritorno a Itaca e Tiresia viene presentato come l’unico a cui, dopo la morte, è stato concesso di conservare la ragione: «Il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi: / a lui solo Persefone diede, anche da morto, / la facoltà di essere saggio; gli altri sono ombre vaganti». Se fin da Omero gli indovini compaiono quali “artigiani della parola” o “demioergoì” accanto agli aedi (gli antichi cantori professionisti, quasi figure sacre), secondo Platone sono entrambi “hermeneîs”, interpreti rispettivamente di Apollo e della musa Calliope, coloro che riarticolano il pensiero degli dei in parole umane: Omero in Odissea VIII 63-64 scrive: «La musa amava Demodoco, ma un bene e un male gli dava: degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto».

Perdere la vista e divenire aedo o indovino sono due avvenimenti legati da un rapporto molto stretto, ove l’impossibilità di vedere rappresenta una caratteristica saliente di colui che canta le glorie del passato o predice il futuro. Resta da osservare che, anche quando dotati di vista, essi si configurano sempre come personaggi “ciechi”, nel senso che “non hanno visto” i fatti che narrano o predicono(6).


Rembrandt van Rijn, Aristotele contempla il busto di Omero (1653), New York, Metropolitan Museum of Art.

La poesia dunque, come l’arte profetica, è un dono degli dei e quindi i poeti, veggenti e profeti insieme, acquisiscono una spirituale forza interiore legata alla loro cecità a sua volta causata, come dice Plinio, da «una profonda meditazione che rende ciechi poiché la capacità visiva si ritira all’interno»(7). È il caso di Omero, l’aedo cieco per eccellenza, nella rappresentazione di Rembrandt: «L’uso del pennello intende comunicare l’essenza del soggetto: la schiettezza austera, le mani grandi ed espressive, il corpo da patriarca, il mantello informe e senza abbellimenti, ma illuminato da un fulgore poetico. Come nel busto di Omero dell’Aristotele/ Apelle, lo sguardo è volutamente in ombra.

Ma la luce è sufficiente a far sì che si colga la grande cura che il pittore ha posto in questi occhi, in contrasto con le mani, dipinte con tratti ampi e irregolari, le orbite profonde, i bordi infiammati, le palpebre socchiuse, la minuscola lumeggiatura sul bordo inferiore. Anche il bulbo è scuro e spento, come se rifiutasse la luce. Ma al di sopra degli occhi, nella luminosa testa del poeta, ferve una visionaria creatività»(8).


Rembrandt van Rijn, Omero (1663), L’Aja, Mauritshuis.


Cieco (1903), Chicago, Art Institute; George Frederic Watts, Speranza (1886), Londra, Tate Britain.


Pablo Picasso, Il vecchio chitarrista cieco (1903).


Secondo Denis Diderot i ciechi dell’antichità, pur con un senso in meno, dovevano apparire superiori al resto degli uomini se i poeti poterono inventare che gli dei, invidiosi, li avevano privati della vista temendo di avere eguali tra i mortali: «Cos’altro era, infatti, Tiresia, che aveva letto nei segreti degli dei e possedeva il dono della profezia, se non un filosofo cieco, di cui il mito ci ha conservato il ricordo?»(9). In ogni creazione artistica e letteraria (si pensi alle atmosfere dei romanzi di Kafka, Cervantes, Melville) spesso brilla un’ambiguità di fondo, una domanda senza risposta, una particolare indeterminazione, insomma, una sorta di “punto cieco” che è poi quell’oscurità che illumina, quel silenzio che rende tutto eloquente e chiaro. Di fronte alle sue suggestive foto il regista Wim Wenders ha affermato che la passione di Henri Cartier- Bresson era guardare, sia in quanto occhio dietro l’amata Leica, sia rispetto ai particolari dei suoi soggetti: «Ciò che ritraeva erano i loro occhi, sapendo che in essi era racchiusa la loro essenza, come in un guscio. (Anche quando fotografava un uomo con gli occhi chiusi, sembrava essere proprio quella circostanza ad attrarlo fin dall’inizio)»(10).

(6) C. Pisano, Vedere e ascoltare con la mente. Antropologia dell’indovino nella Grecia antica, in “Quaderni del Ramo d’Oro”, 2012, pp. 1-14.

(7) Plinio, Naturalis Historia XI, 54; cfr. anche XI, 52: «Al di sotto della fronte si trovano gli occhi, la parte del corpo più preziosa e quella che, con l’uso della luce, segna la differenza tra la vita e la morte».

(8) S. Schama, Gli occhi di Rembrandt, Milano 2000, pp. 762-764.

(9) D. Diderot, Lettera sui ciechi per l’utilità dei vedenti (1749), a cura di S. Parigi, Palermo 2016, p. 63.

(10) In “La Lettura”, inserto del “Corriere della Sera”, 15 marzo 2020, p. 3.

La cecità non inficia il suo portatore bensì ne arricchisce e ne amplifica le sensazioni


In questo caso la cecità non inficia il suo portatore bensì ne arricchisce e ne amplifica le sensazioni fino a intensificare le sue doti interiori, poetiche e profetiche, e anche artistiche. Così Picasso: «L’arte è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede ma ciò che dice a se stesso riguardo ciò che ha visto». Il vecchio chitarrista cieco, appartenente al periodo blu, è un’opera caratterizzata da tonalità molto scure a evidenziare la tristezza del personaggio che sembra non avere più la forza di vivere e che pure si aggrappa, quasi unica salvezza, alla grande chitarra marrone al centro della composizione: potrebbe forse rappresentare allegoricamente la complicata carriera degli artisti che talora li porta a una vita solitaria, triste e lontana dalla società, una vita raminga e difficile, quasi che ognuno di loro incarni un novello Omero, l’aedo per eccellenza, cieco e povero. Per molti critici il giovane Picasso avrebbe potuto trarre ispirazione dalla pittura di un soggetto allegorico di George Frederic Watts, Speranza, opera peraltro molto nota, quasi un’icona della cultura popolare inglese rievocata in Giugno fiammeggiante di Frederic Leighton dove la donna ha una posa simile, ma rilassata nel sonno.


Frederic Leighton, Giugno fiammeggiante (1895), Ponce (Puerto Rico), Museo de Arte.

La Speranza è rappresentata come una figura femminile seduta su un globo, con gli occhi bendati, intenta a suonare una lira con le corde spezzate da cui comunque uscirà una melodia. L’atmosfera, i colori, la stessa posizione della donna suggeriscono un senso di desolazione e di malinconia accentuata dalle leggere pennellate e dalla nebbia translucida che avvolge il globo galleggiante.

Nella cecità sembra annidarsi dunque un’insospettata creatività, quasi essa possa costituire «un oscuro, paradossale dono» che consente di imparare a «vedere con tutto il corpo»(11) e di riscattare la negatività disperata della condizione di cieco. Il pensiero corre a Carlo Levi, al suo Autoritratto (Gufo con l’occhialino) in Quaderno a cancelli, opera redatta dopo una degenza in clinica, al buio per un’improvvisa malattia agli occhi.
Il libro rappresenta, come si legge nell’introduzione, la «summa dell’attività letteraria, politica e pittorica del suo autore, riletta non sotto lo sguardo di Apollo, ma attraversata dal mondo buio e onirico di Morfeo, che trasfigura i personaggi, rendendoli enigmatiche fantasmagorie fuori dal tempo e dallo spazio»(12), parole a cui cui aggiungiamo quelle dello stesso Levi: «La storia del mondo è iscritta nella malattia assai meglio e più chiaramente e profondamente incisa che nella storia delle istituzioni perché quest’ultima è più ingannevole ed equivocabile e alterabile e sofisticabile che non quella dei tessuti, della carne e del sangue, del cuore e del respiro»(13).

Sul rapporto tra vista e percezione della realtà si è espresso anche il filosofo e critico letterario Jean Starobinski che ha ampliato l’indagine: «Vedere apre tutto lo spazio al desiderio, ma vedere non basta al desiderio. Lo spazio visibile rende conto a un tempo della mia potenza di scoprire e della mia impotenza di raggiungere»(14), quasi che lo sguardo costituisca letteralmente un eccesso, non sia mai saturo e ceda di fronte «a una pressione che non si allenta. È poco dire: intelligenza, crudeltà, tenerezza, se restano insoddisfatte, inappagate. Se queste passioni si destano nello sguardo e si accrescono mediante l’atto di vedere, esse non trovano nella vista di che soddisfarsi»(15).

E forse ha ragione il critico svizzero nel dire che il rapporto con il modo di vedere e di percepire rientra appieno nella sfera della convenzionalità (quasi, potremmo dire, un “punto di vista”) come pare avvalorato dal diverso approccio al tema dello scrittore Sandro Veronesi nel romanzo Il colibrì. Parlando delle conseguenze emotive degli sguardi e del fatto che «gli sguardi sono corpo», egli cita Dante, Purgatorio, XIII 73-75, laddove si muovono le anime degli invidiosi: «A me pareva, andando, fare oltraggio / veggendo altrui, non essendo veduto / perch’io mi volsi al mio consiglio saggio». Il poeta distoglie lo sguardo, lo rivolge a Virgilio, e non perché la vista di quegli occhi cuciti con fil di ferro lo inorridisca, ma per non oltraggiare, guardandole, quelle anime che non possono ricambiare lo sguardo. Sì, gli sguardi sono corpo, «altro che passività, gli sguardi sono armi potentissime e producono urti emotivi anche quando non sono lanciati allo scopo di produrli»(16). Ancora le parole di Camilleri: «Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità»(17). Scrutare la profondità di se stessi e del mondo, come suggerisce la scelta della fotografa Ann Ray che in Blind Faith chiede al suo modello, l’attore Willem Dafoe, di posare con gli occhi chiusi al fine di comunicare verità profonde che richiedono l’assenza della vista, come se essa rappresentasse un’interferenza. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima ma forse esiste una via, quella dell’invisibile e del non detto, per decifrare i pensieri, i sogni e i sentimenti più intimi, e lo scopo dell’artista è appunto quello di percorrerla per approdare a una più profonda comprensione della natura umana.


Ann Ray, Blind Faith (Willem Dafoe, 2013).

(11) J. M. Hull, Il dono oscuro, Milano 2019, p. 196. Si veda anche J. Starobinski, L’occhio vivente, Torino 1987, pp. 8-9: «Lo sguardo […] può, nell’assenza della funzione visuale, prendere in prestito vie compensatrici, passare per la punta attenta dell’udito o per l’estremità delle dita […] Sotto gli occhi sono in qualche modo compresi tutti gli altri sensi; e, nell’uso del linguaggio umano, spesso sentire e vedere sono la stessa cosa […] Una velleità magica […] accompagna ognuna delle nostre occhiate: afferrare, spogliare, pietrificare, penetrare. Affascinare, vale a dire far brillare il fuoco dell’occulto in una pupilla immobile».

(12) C. Levi, Quaderno a cancelli, Torino 2020, p. V.

(13) Ivi, p. 325.

(14) J. Starobinski, op. cit., pp. 8-9.

(15) Ivi, p. 8.

(16) S. Veronesi, Il colibrì, Milano 2019, pp. 277-283.

(17) A. Camilleri, op. cit. p. 55.

ART E DOSSIER N. 379
ART E DOSSIER N. 379
SETTEMBRE 2020
In questo numero: RICORDO DI VITTORIO GREGOTTI. La forma e il contesto. IL MISTERO OLTRE L'IMMAGINE. Key Sage la surrealista. L'artista veggente cieco. Un'ipotesi per Michelangelo. IN MOSTRA: Fornasetti a Parma. Caravaggeschi a Roma.Direttore: Philippe Daverio