XXI secolo
Vittorio Gregotti

LA COSTRUZIONE
DI UN COSMO ORDINATO

Scomparso pochi mesi fa, durante il periodo sospeso e drammatico del coronavirus, Vittorio Gregotti, architetto, docente, scrittore, giornalista, imprenditore, appassionato di musica, è stato protagonista del dibattito culturale del secondo dopoguerra e progettista di opere sparse in tutto il mondo, in armonia con la memoria e l’identità dei luoghi.

Jean Blanchaert

Il 15 marzo 2020, quando è morto Vittorio Gregotti, c’era un silenzio irreale a Milano, interrotto soltanto dalle sirene delle ambulanze nelle strade deserte, come se la città volesse raccogliersi per pensarlo e salutarlo mentre era ferita a morte dal Covid-19, il virus che sembra la metafora perfetta di un mondo malato, quel mondo del capitalismo finanziario globale a cui lui si era sempre opposto con tutte le sue forze.

Vittorio Gregotti oltre che architetto è stato professore universitario, scrittore, giornalista, imprenditore e storico dell’architettura, quasi un Leon Battista Alberti contemporaneo.

In età giovanile, il destino gli ha fatto incontrare I Buddenbrook, romanzo che Thomas Mann ha dato alle stampe nel 1901 a soli ventisei anni. Questo libro, che Gregotti ha letto e riletto nel corso di tutta la sua vita, lo ha profondamente condizionato. Lo racconta a Matteo Vercelloni (“Interni”, aprile 2019): «Tutta colpa dei Buddenbrook, un libro che mi insegue da sempre […], una grande storia della fine dell’industria e della borghesia che mi ha segnato».

Il padre lo vedeva suo erede al timone della Filatura Bossi, la fabbrica con quattrocento operai fondata dal bisnonno nel 1870, a Cameri, a sei chilometri da Novara. Abitava con la famiglia in una bella casa all’interno dell’area dello stabilimento.


Città nuova di Pujiang (Cina), vicino a Shanghai (2001-2007).
Le opere riprodotte in questo articolo sono state realizzate, dove non diversamente indicato, dallo studio Gregotti Associati, fondato da Vittorio Gregotti a Milano nel 1974.

In Recinto di fabbrica, libro autobiografico sulla sua età giovanile, Gregotti racconta: «Se durante questi ormai numerosi anni mi sono svegliato presto […] credo che quest’abitudine sia da attribuire alla sirena di fabbrica che suonava ogni mattina alle sette»(1). Comunque, il capolavoro di Thomas Mann lo avrebbe spinto altrove, non volle essere un industriale, un protagonista “fin de race” di un mondo che stava scomparendo.

Il Grand Théâtre de Provence costruito a piani sovrapposti, per sfruttare le differenze di quota del luogo


Gregotti era precoce e versatile, primo della classe senza sforzo al Regio liceo Carlo Alberto di Novara. Il padre lo aveva spedito a quattordici anni a trascorrere i tre mesi di vacanze estive come aiuto operaio nello stabilimento tessile di un amico. Fu un’esperienza straordinaria che fece capire al giovane Vittorio l’importanza sinergica del lavoro di squadra. Aveva intuito che certi miracoli possono nascere soltanto dal lavoro collettivo. «Ho imparato l’etica passando le vacanze in fabbrica», affermava. In quegli anni giovanili nacque anche la passione per la musica e si iscrisse al Conservatorio di Novara. Il suo sogno era essere direttore d’orchestra e in un certo senso lo diventerà. Di un’orchestra di architetti. Nel volume Il sublime al tempo del contemporaneo Gregotti individua alcune analogie fra musica e architettura (la sequenza temporale nella prima è la sequenza percettiva nella seconda): «Essenziale è il valore delle pause, del silenzio tra le note in musica così come quello dei vuoti, degli intervalli fra le cose nelle opere di architettura»(2).


Il Grand Théâtre de Provence ad Aix-en-Provence (2003-2007).

(1) V. Gregotti, Recinto di fabbrica, Torino 1996, p. 12

(2) V. Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo, Torino 2013, p. 119.

Perché una persona che avrebbe potuto realizzarsi in qualsiasi professione, dal chirurgo all’astronauta, che aveva talento per ogni cosa, passione per la musica e che si ritrovava la “pappa fatta” con lo stabilimento di famiglia, ha scelto l’architettura? Perché l’architettura è anche politica, una pratica artistica e politica. Nel dopoguerra era tale l’impeto di ridiscussione radicale della realtà in architettura da avere quasi la forza di un’eversione.

Ancor prima di laurearsi, nel 1947, Gregotti stette sei mesi a Parigi, allora centro del mondo, e fu accolto a braccia aperte per due settimane nel mitico studio di Gustave, Claude e Auguste Perret che permisero al ventenne italiano così intraprendente, uno “shy outgoing”, un timido che si butta, di vedere come funziona una grande bottega di architettura. Auguste Perret, tra l’altro, era stato il maestro di Le Corbusier. Tornato in Italia, sempre prima della laurea, Gregotti cominciò a lavorare da Belgiojoso, Peressutti e Rogers, lo studio BBPR, a Milano. La prima B dell’acronimo è quella di Gianluigi Banfi, scomparso nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945. Fu qui che finalmente trovò anche lui il suo maestro: Ernesto Nathan Rogers che capì subito il valore del nuovo allievo.

Nel 1953, partecipò come relatore al IX Congresso del CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) tenutosi ad Aix-en-Provence e lì conobbe Walter Gropius, Mies van der Rohe, Henry van de Velde e lo stesso Le Corbusier.

Con il libro Tempo e progetto che non ha visto pubblicato (è uscito undici giorni dopo la sua scomparsa), Gregotti scrive l’ultima puntata del romanzo di avventure che è stata la sua vita. Più che romanzo, «costruzione di un cosmo ordinato», come lo definisce Marco Biraghi, storico dell’architettura. Un cosmo che egli ha formato nel tempo con inesorabile lucidità come chi, muovendo i primi passi, abbia in qualche modo già in mente la meta finale. Il suo percorso può essere definito un progetto intellettuale leggibile in filigrana nei vari periodi che scandiscono la stagione del fare, dalla realizzazione di quartieri per abitazioni agli interventi sul territorio, ai piani regolatori, agli stadi, alle università, ai centri culturali, alle navi e alle chiese.


L’Headquarter Pirelli con al centro la torre di raffreddamento, nel quartiere Bicocca a Milano (1999-2005).

«Le architetture di Gregotti Associati sono materiche, rudi, poetiche nella loro ricerca quasi a priori»
(Carlo Olmo)


Nel 1968 vinse la cattedra di composizione architettonica all’Università di Palermo e nel medesimo ateneo, proprio in quell’anno, con Gino Pollini, realizzò il Dipartimento di scienze al Parco d’Orléans.
La sua attività pubblica era iniziata nel 1953 con l’apertura, a Novara, dello studio Architetti Associati insieme a Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino. In quel periodo inventa l’immagine dell’antropogeografia: i luoghi portano in sé, sedimentate, le tracce del lavoro dell’uomo, un immenso deposito di memorie e di fatiche. Il territorio dell’architettura (Milano 1966) è il suo libro-manifesto.

La prima opera celebre è il Quartiere Zen (Zona espansione nord), a Palermo (1969). Doveva essere un simbolo di riscatto sociale per le classi lavoratrici della città, dotato anche di strutture ricreative e culturali per dare maggiore dignità alla vita degli abitanti. Gregotti racconta che l’intervento della microcriminalità e delle infiltrazioni mafiose impedì all’opera di essere completamente realizzata, causandone altresì il più totale degrado.

Il progetto del 1973 per la sede dell’Università degli studi della Calabria fu concepito «nella tensione, nell’ingenuità, nelle speranze della rivoluzione culturale di quegli anni»(3). Consiste in un ponte di milleduecento metri che attraversa il fiume Crati a cui si allacciano gli edifici dei vari dipartimenti. Nella mostra, a cura di Guido Morpurgo, Il territtorio dell’architettura. Gregotti e Associati 1953-2017 (Milano, PAC - Padiglione d’arte contemporanea, 2017-2018, v. nota 4) sono stati presentati con pregevole maestria i cinquantaquattro anni di attività dello studio «In tutte le sue diverse articolazioni e composizioni, lo studio che Vittorio Gregotti ha condiviso con Gino Pollini, Salvatore Bisogni, Franco Purini, Emilio Battisti; Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui, Bruno Viganò, Carlo Magnani, Spartaco Azzola, Emilio Puglielli; Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi, oltre a Manuel Salgado, a Saad Benkirane, a dodici giovani Associati e a una estesa compagine di collaboratori, ha generato oltre milleduecento opere. Esso rappresenta una sorta di unicum nella vicenda dell’architettura europea contemporanea»(4).
Nel 1974 aprì a Milano la Gregotti Associati, fondata sulla sua capacità di mettere a punto una modalità di lavoro complessa, basata sulle gerarchie e sulla didattica. Lo studio, ma lui avrebbe preferito chiamarlo officina, acquisì già nei primi anni una dimensione internazionale.

Lo stadio Adrar ad Agadir (Marocco) (1999-2014).


Abitazioni popolari nel sestiere di Cannaregio (Venezia) (1981-2001).

Parco commerciale Terminal Nord a Udine (2008-2013).


La contestazione del 1968 aveva bloccato per sei anni l’apertura della Biennale, bollata come espressione della cultura borghese. Fu Gregotti, su invito di Carlo Ripa di Meana, a occuparsi della ripartenza, nel 1974. Lo fece coraggiosamente affrontando il rapporto dell’architettura con l’arte, il contesto, il cinema, il design, i problemi delle periferie urbane, cioè con i fatti attuali del mondo in evoluzione che fino ad allora erano stati trascurati. Gregotti riuscì nell’impresa di far ripartire la Biennale d’arte e oggi, senza di lui, non esisterebbe la Biennale di architettura.

Negli anni Ottanta e Novanta prevalsero i progetti per le città italiane ed europee: dal quartiere di Cannaregio, a Venezia, al blocco residenziale in Lützowstrasse, a Berlino, al Centro culturale di Bélem a Lisbona, progettato con Miguel Salgado, e alla realizzazione degli stadi quali quello di Nîmes, quello Olimpico di Barcellona, lo stadio Luigi Ferraris a Marassi, Genova, gli stadi di calcio e atletica a Marrakech e ad Agadir, in Marocco.

(3) Il possibile necessario, conversazione con Vittorio Gregotti, a cura di Vincenzo Melluso, 8 luglio 2014.

(4) Il territorio dell’architettura. Gregotti e Associati 1953-2017, catalogo della mostra (Milano, PAC - Padiglione d’arte contemporanea, 20 dicembre 2017 - 11 febbraio 2018), a cura di G.Morpurgo, prefazione di G. Morpurgo, Milano 2018, p. 12.

«A ottant’anni progettava con l’entusiasmo di un ragazzo. Era un razionalista etico, un vero intellettuale di statura internazionale»
(Philippe Daverio)


Nel 1985 iniziò la grande opera di riqualificazione del quartiere Bicocca, a Milano - i lavori durarono vent’anni - realizzando un campus universitario con i suoi dipartimenti e centri di ricerca, l’Headquarter Pirelli con al centro la torre di raffreddamento, unico reperto rimasto dell’industria, e il teatro degli Arcimboldi, sempre nella città meneghina. «Aveva una capacità di lavoro inimmaginabile», racconta Philippe Daverio, «nel 1994, quando ero assessore alla Cultura a Milano, io e il mio ufficio tecnico gli chiedemmo di apportare un’infinità di modifiche a un progetto del teatro Arcimboldi che ci aveva presentato. Senza battere ciglio, nel giro di tre giorni era di ritorno con tutte le variazioni richieste». «A ottant’anni», continua Daverio, «progettava con l’entusiasmo di un ragazzo. Era un razionalista etico, un vero intellettuale di statura internazionale. Fra noi c’erano quell’amicizia sincera e quella stima reciproca che a volte sono la bellezza di Milano».

Lo scarno rigore nordico di queste architetture è spesso di difficile lettura, bisogna lasciare che esse ci parlino. Come scriveva l’architetto Carlo Olmo: «Le architetture di Gregotti Associati sono materiche, rudi, poetiche nella loro ricerca, quasi a priori, della “venustas”, della lunga durata, nel dialogo con le culture materiali»(5). «Certi progetti a scala territoriale portano a sfiorare una magica dimensione di Land art abitabile », scrive Matteo Vercelloni(6).

Gregotti rifletteva sul suo lavoro via via che questo si produceva. Continuava a scrivere su “Casabella”, di cui fu direttore dal 1982 al 1996, e su “Rassegna”, da lui fondata nel 1979, quasi che il racconto-resoconto fosse essenziale, ineludibile. Le copertine di “Rassegna”, diventate cult, sono soltanto una delle innumerevoli ideazioni di Pierluigi Cerri per Gregotti Associati, come i progetti per le navi da crociera, gli allestimenti interni e la mostra sulla Ferrari al Forte Belvedere, a Firenze nel 1989.

Alla fine degli anni Ottanta ebbe inizio l’informatizzazione dello studio. Sulle prime non fu facile, il disegno a mano, pur sempre presente, fu progressivamente sovrastato da quello su computer. L’architetto associato Sergio Butti diresse magistralmente l’archivio, pilotandone l’acquisizione, nel 2013, da parte del CASVA (Centro di alti studi sulle arti visive) al Castello sforzesco. Con i piani regolatori di Arezzo nel 1984, di Livorno nel 1992, di Torino nel 1995, di Gorizia nel 1996, con la regia di Augusto Cagnardi, si realizzò l’attività della Gregotti Associati nell’urbanistica, campo dell’architettura più scopertamente politico che aprì il varco per i progetti in Cina degli anni Duemila. È del 2002 quello della nuova città di Pujiang, a soli diciassette chilometri dal centro di Shanghai, letteralmente immaginata e realizzata da Gregotti Associati. Nell’intenzione dei promotori, doveva illustrare i caratteri fondamentali dell’architettura italiana. Gregotti contropropose, invece, una città che aprisse un dialogo con il modello antichissimo della città cinese.


Riccardo Muti, Franco Malgrande, Luca Targetti e Vittorio Gregotti valutano l’acustica del teatro Arcimbodi a Milano.

A ridosso di quell’esperienza, Gregotti Associati progettò nel 2003 il Grand Théâtre de Provence, ad Aix-en-Provence, una delle sue opere più intensamente significative, costruita a piani sovrapposti per sfruttare le differenze di quota del luogo. È un’architettura, per come la descrisse all’epoca, che sembrava condividere la natura e la sostanza del terreno: «un terreno pietrificato». Vittorio Gregotti ha saputo influenzare la sua bottega architettonica rinascimentale sia con il suo imprinting industriale, sia con il suo amore per la musica. Ne è nata una filarmonica di cui lui era il direttore d’orchestra. «Gregotti ci conosceva tutti e bene, sapeva cosa eravamo in grado di fare e quanto eravamo disposti a dare per il progetto», ricorda Michele Reginaldi, vicino all’architetto per ben trentadue anni, prima come allievo e poi come braccio destro.


L’interno del teatro.

Le forme dell’architettura contemporanea, secondo Gregotti, dipendono soltanto da un impulso estetico senza scopo se non quello di suscitare meraviglia. Sono autoreferenziali, autonome rispetto al contesto, non rispecchiano più un’idea, una forma, ma sono il manifesto di un’ideologia, quella del capitalismo finanziario globale che esige soluzioni rapide dei problemi architettonici, soluzioni spesso provvisorie per poterle sostituire rapidamente e trarne profitto. Per Gregotti è un’eresia l’idea di “bigness” in architettura, teorizzata da Rem Koolhaas, il cui concetto fondamentale, fatto proprio anche da molte archistar, è «Fuck contest»(7).

Lo studio Gregotti Associati si è chiuso nel 2017, ma il tempo sarà galantuomo: dalle sue architetture, anche fra molti anni, nasceranno lampi di poesia.


CASVA - Centro di alti studi sulle arti visive
Progettato negli ultimi anni del XX secolo come raccolta delle fonti iconografiche per lo studio delle arti visive del Novecento, il CASVA, ospitato all’interno del Castello sforzesco di Milano, dal 2014 si è meglio configurato come Archivio degli archivi degli architetti, designer e grafici che nel capoluogo lombardo hanno svolto la propria attività. Con l’acquisizione poi nel 2013 dell’archivio Vittorio Gregotti, il CASVA modifica significativamente le dimensioni e la rilevanza del suo patrimonio attirando nuove donazioni. Negli ultimi anni sono stati acquisiti, tra gli altri, l’archivio Eugenio ed Ermenegildo Soncini, l’archivio Angelo Cortesi, l’archivio Enrico Freyrie e l’importantissimo archivio Enzo Mari (a oggi ventitre gli archivi raccolti). Il CASVA opera come sussidiario del Ministero dei beni culturali su mandato della Pubblica amministrazione nell’inventariazione, conservazione e valorizzazione degli archivi.

(5) C. Olmo, Gregotti e Associati o la prosopografia del progetto, in “Giornale dell’architettura”, 4 gennaio 2018.

(6) M. Vercelloni, Vittorio Gregotti l’architetto intellettuale, in “Interni”, aprile,2019.

(7) R. Koolhaas, Bigness or the Problem of Large, in Id., S,M,L,XL, New York 1995..

ART E DOSSIER N. 379
ART E DOSSIER N. 379
SETTEMBRE 2020
In questo numero: RICORDO DI VITTORIO GREGOTTI. La forma e il contesto. IL MISTERO OLTRE L'IMMAGINE. Key Sage la surrealista. L'artista veggente cieco. Un'ipotesi per Michelangelo. IN MOSTRA: Fornasetti a Parma. Caravaggeschi a Roma.Direttore: Philippe Daverio