mIlano,campo lIbero?1499-1506

Partito Leonardo, per i suoi allievi, oramai svezzati, si aprono diverse strade. Alcuni sapranno sfruttare la “libertà”, altri meno.

La pittura milanese, a voler generalizzare, sembra distendersi, e gli apporti da diverse tradizioni figurative hanno effetti benefici. Marco d’Oggiono, che ha un’intensa quanto ripetitiva attività cinquecentesca, è tra i leonardeschi più ortodossi. 

È come se, partito Leonardo, non fosse stato in grado di guardare ad altro che ai suoi anni ruggenti nella fervente bottega in cui è cresciuto, e si fosse fissato sugli stilemi appresi in gioventù. Dopo qualche anno di attività per Venezia e Savona, torna a Milano nel 1502 circa. Mancando il maestro, viene probabilmente visto dai contemporanei alla stregua di un produttore di souvenir leonardeschi: gli vengono infatti commissionate copie dalla Vergine delle rocce (è sua quella - firmata in greco sul retro - tratta dalla versione di Parigi, conservata alla Pinacoteca del Castello sforzesco di Milano) ma anche dall’Ultima cena (sua è la copia a grandezza naturale di committenza francese, oggi nel castello di Ecouen). Uno dei suoi risultati più dignitosi - anche per l’attuale ottimo stato di conservazione - è il polittico di Mezzana Superiore, attualmente in deposito al Museo diocesano di Milano, commissionato nel 1512 da Battista Visconti di Somma. Il largo paesaggio che si apre ai piedi della Madonna, fortemente leonardesco, rivela le abilità e le competenze di Marco per l’interpretazione di questo genere: è infatti ricordato da alcuni documenti come cartografo. Da qui alla sua morte, avvenuta nel 1524, la qualità della sua larga produzione declinerà inesorabilmente, ingenerando severissimi giudizi critici su di lui, come quello di Kenneth Clark (che deprecava il suo «peculiarly revolting style»). 

Boltraffio, che come abbiamo già avuto modo di appurare era di ben altra levatura, era ammirato nelle corti nord italiane. Nel 1498 è inviato alla corte di Mantova da Isabella d’Aragona per copiare un ritratto del suo scomparso fratello Ferrandino. Appassionato di letteratura, nel 1500 dipinge per l’umanista bolognese Girolamo Casio un’imponente pala, nota per l’appunto come Pala Casio, destinata alla chiesa della Misericordia di Bologna e oggi al Louvre.


Marco d’Oggiono, La Madonna tra san Giovanni Battista e santo Stefano (Polittico di Mezzana) (1512 circa); Milano, Museo diocesano.


Gaudenzio Ferrari, Cristo crocifisso tra Maria, la Maddalena e san Giovanni evangelista (1500 circa); Varallo (Vercelli), Pinacoteca.

Giovanni Antonio Boltraffio, Studio per la Madonna della Pala Casio (1500 circa); Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe.


Bramantino, Urania (1499-1503); Voghera (Pavia), Castello visconteo.

In essa sono state giustamente riscontrate interferenze bolognesi, alla Francesco Francia, e sembra anche di intravedere la brillantezza cromatica del giovane Giorgione (quello della Giuditta dell’Ermitage, per intenderci), ma a noi interessa sottolineare come, a questa data, Boltraffio si sia già convertito al disegno con le matite colorate, come testimonia il bellissimo Studio per la Madonna della Pala Casio conservato agli Uffizi, dove peraltro è ancora vivo il ricordo della Belle ferronnière. Pur essendo uno studio per un dettaglio di una pala, questo disegno è in ultimo un ritratto, forse il genere in cui Boltraffio ha raggiunto le vette qualitative più alte, come d’altronde anche i suoi contemporanei avevano più volte rimarcato. Nel 1502 Boltraffio dipinge la Santa Barbara per la chiesa milanese di Santa Maria presso San Satiro, oggi a Berlino, in cui rivela un momento di grande avvicinamento a Bramantino. Da qui alla sua morte nel 1516 la produzione di opere sarà molto scarsa, complici forse la rottura di una gamba e la mancanza di necessità economiche. 

Proprio Bramantino si adatta da subito a servire i nuovi padroni di Milano: per il conte di Ligny, dall’ottobre 1499 titolare del feudo di Voghera, ha il compito di ammodernare un’ala del castello di fondazione viscontea. Completa il suo lavoro entro la fine del 1503, e sopravvivono solo pochi - ma grandiosi - lacerti, tra cui una sala delle Muse con alcune figurazioni memorabili, come l’Urania, che con quell’ampio manto bianco ghiaccio sembra una sacerdotessa pagana. A quest’altezza cronologica Bramantino pare non subire ancora il fascino di Leonardo. Tuttavia, l’ostacolo dell’oramai inaugurata “maniera moderna” dell’Ultima cena era insormontabile. Proprio nel 1503, Antoine Turpin, tesoriere di Luigi XII, commissiona a Bramantino una copia a grandezza naturale, su tela, della composizione di Leonardo, non si sa se poi mai eseguita. Ciò che è innegabile è che Bramantino, quando nel 1505 dipinge il Trittico di san Michele per l’oratorio di San Michele dei Disciplini a Milano, ora all’Ambrosiana, si trova a combinare le sue incredibili bizzarrie prospettiche e iconografiche con un chiaro tributo al Cenacolo nei profili ieratici dei due santi inginocchiati. Un grande artista di segno opposto come Bramantino si deve oramai inchinare dinanzi al grande murale di Santa Maria delle Grazie. Quanto si è oramai lontani dall’Adorazione del Bambino dipinta vent’anni prima.


Bramantino, Trittico di san Michele (1505); Milano, Pinacoteca ambrosiana.


Bernardo Zenale, Cristo deriso (1502?); Stresa, Isola Bella (lago Maggiore), collezione Borromeo.

Un pittore e architetto profondamente lombardo, vicino per affinità artistiche e poetiche a Bramantino, è Bernardo Zenale, già incontrato come co-autore del Polittico di Treviglio. Tuttavia, già fonti cinquecentesche lo legano a Leonardo, da Giorgio Vasari («da Leonardo da Vinci fu tenuto maestro raro») a Giovanni Paolo Lomazzo (secondo cui Leonardo, per «non poter dar compimento e perfezione » al volto di Cristo nell’Ultima cena, «se ne andò a consigliarsi con Bernardo Zenale»). A noi pare difficile che Zenale potesse dare consigli a Leonardo, ma queste testimonianze marcano quello che probabilmente fu uno stretto rapporto. Nei dipinti dei primissimi anni del Cinquecento di Zenale, come il purtroppo rovinato Cristo deriso della collezione Borromeo, risulta infatti evidente un’approfondita conoscenza del murale di Santa Maria delle Grazie: basti confrontare gli atteggiamenti ieratici dei carnefici di Cristo con quelli (a dire il vero ben più bilanciati) degli apostoli nella Cena

Il giovanissimo Gaudenzio Ferrari, originario di Valduggia, oggi in Piemonte ma allora parte del territorio del ducato di Milano, quando era ancora attivo nella “quattrocentesca” e arcaica bottega degli Scotti sente che il mondo sta cambiando e spia il Cenacolo

Il Cenacolo di Leonardo, svelato verso la fine del 1497, diventa da subito materiale di studio per gli artisti lombardi. Oltre che la visione diretta del murale, per gli artisti deve avere contato molto lo studio dei disegni preparatori e soprattutto dei cartoni, che oggi non sopravvivono. Oltre che per le forme, l’importanza del progetto del Cenacolo è grande anche per l’innovazione tecnica del disegno: Leonardo, nei suoi studi preparatori, utilizza le matite colorate, che a breve diventeranno una tecnica utilizzatissima dagli artisti lombardi.

Il suo dipinto considerato più antico, il Cristo crocifisso della Pinacoteca di Varallo, databile intorno al 1500, riporta un’esatta citazione, nel san Giovanni che allarga le braccia, dal san Giacomo il Maggiore di Leonardo, una figura che evidentemente piaceva a Gaudenzio (come testimonia anche la vicinanza tra uno dei due frammenti d’affresco recentemente restaurati, e pure conservati a Varallo, con il san Giacomo di Leonardo, soprattutto se visto attraverso lo Studio di Windsor).


Gaudenzio Ferrari, Testa di uomo (da una Crocifissione?) (1505 circa); Varallo (Vercelli), Pinacoteca.

Leonardo, Studio per san Giacomo il Maggiore (1495-1497 circa); Windsor, Royal Library.


Giovanni Agostino da Lodi, Lavanda dei piedi (1500); Venezia, Gallerie dell’Accademia.


Andrea Solario, Crocifissione (1503); Parigi, Louvre. Diversi artisti lombardi sono stati attivi a Venezia a cavallo del 1500. Tra questi, Andrea Solario e Giovanni Agostino da Lodi, grazie ai quali si è creata una congiuntura che ha messo insieme le idee della Milano di Leonardo e Bramantino e della Venezia di Giovanni Bellini e Giorgione.

Poco dopo, intorno al 1507, dipinge con ben più mature cognizioni della “maniera moderna” una cappella in Santa Maria delle Grazie, sempre a Varallo, che sembra già un preludio del grandioso tramezzo del 1513, in cui Gaudenzio “pubblica” la somma di tutte le sue fonti visive: Bramantino, Leonardo, Mantegna, Perugino, e perfino Dürer. 

Giovanni Agostino da Lodi, che Vasari non a caso chiamava «Agostino di Bramantino » e la critica - fino a tempi recenti - definiva convenzionalmente Pseudo-Boccaccino (tanto per dare un’idea della sua composita personalità d’artista), intorno al 1500 svolge la sua attività di artista a Venezia, in un proficuo dialogo con Giovanni Bellini e col giovane Giorgione. Ma una sua visita a Milano del 1499 lascia chiari segni dell’avvenuta esperienza del Cenacolo, come testimonia la sua Lavanda dei piedi datata 1500 e conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. 

Andrea Solario, che proveniva da una importante famiglia di architetti e scultori originaria di Carona, è un artista di grande qualità che viene spesso sminuito come “leonardesco”, ma occorre sottolineare che così non è. Nell’ultimo decennio del Quattrocento è, così come Giovanni Agostino da Lodi, soprattutto attivo a Venezia, e le novità leonardesche le guarda con il binocolo. Anche se torna a Milano intorno al 1499, Solario rimane piuttosto indifferente al mondo di Leonardo fino almeno al 1503, data che compare sulla Crocifissione del Louvre, tutta pervasa da suggestioni venete, nordiche, soprattutto peruginesche, ma non prettamente leonardesche (anche se si intravede un rapporto con il Boltraffio della Pala Casio). Per vedere delle opere di Solario leonardesche bisognerà aspettare il ritorno a Milano di Leonardo. 

Una simile formazione, ma di qualche anno più tarda e più ortodossamente veneta, l’ha avuta Bernardino Luini. Nella sua prima opera firmata “Bernardin[v]s Mediolanensis facieBat Mdvii” e datata 1507, oggi conservata al Musée Jacquemart-André di Parigi, è fortissima la componente veneta, a seguire uno schema di Vergine in trono tra santi (con gli immancabili angioletti musicanti in basso) praticato in quegli anni da Giovanni Bellini e, soprattutto per le soluzioni “en plein air”, da Cima da Conegliano. Di ritorno a Milano poco dopo, inizialmente i suoi interessi si rivolgono a Zenale e a Bramantino, e le sue opere milanesi fino al 1520 circa hanno solo una vaga coltre leonardesca. Vedremo a breve quali siano i dipinti che lo relegano ancora oggi - in un certo senso a torto - tra i puri leonardeschi.

Un’intelligente somma visiva delle due grandi correnti milanesi di fine Quattrocento, non di grande qualità pittorica ma quasi con una tensione storicizzante, la dà verso la fine della sua carriera il pittore camuno Giovan Pietro da Cemmo, che negli affreschi della Sala capitolare dell’ex convento di Sant’Agostino a Crema, datati 1507, copia l’Ultima cena, ma inquadrandola in false prospettive che rimandano chiaramente al coro bramantesco di Santa Maria presso San Satiro.


Andrea Solario, Crocifissione (1503), particolare; Parigi, Louvre.

Bernardino Luini, Madonna in trono in un paesaggio tra un santo vescovo e santa Margherita (1507); Parigi, Musée Jacquemart-André.

LEONARDESCHI. LEONARDO E GLI ARTISTI LOMBARDI
LEONARDESCHI. LEONARDO E GLI ARTISTI LOMBARDI
Antonio Mazzotta
Un dossier dedicato ai Leonardeschi. In sommario: Gli anni Ottanta del Quattrocento in Lombardia; Il primo soggiorno di leonardo a Milano: 1482-1499; Milano, campo libero? 1499-1506; Il secondo soggiorno di Leonardo a Milano e la sua eredità. Come tutte le monografie della collana ''Dossier d'art'', una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.