Il prImo soggIornodI leonardo a mIlano:
1482-1499

Quando Leonardo giunge in città intorno al 1482, presentandosi a Ludovico il Moro come maestro di «instrumenti bellici»

e soprattutto come scultore in «marmore, bronzo e terra» (facendo allusione all’erezione di un grande monumento equestre a Francesco Sforza, padre del Moro), la scena artistica era orientata, come abbiamo visto, su scelte e gusti profondamente alieni ai suoi. Basti prendere a esempio quella che con ogni probabilità è la sua prima opera realizzata per la corte milanese: la Vergine delle rocce ora a Parigi. Eseguita, come ha ben argomentato Alessandro Ballarin, per la cappella del palazzo ducale, San Gottardo in Corte, è la somma di tutto quello che l’oramai trentenne artista toscano aveva appreso nella Firenze di Verrocchio e dei miracoli ottici del Trittico Portinari di Hugo van der Goes. Una visione rivoluzionaria: un quasi-notturno per nulla classicheggiante e in cui la natura e i suoi umori sono assoluti protagonisti. Alcuni dettagli, come le piante in primo piano, raggiungono una precisione botanica e ottica cristallina, paragonabile a quella che sarà raggiunta dagli specialisti olandesi di natura morta due secoli dopo. L’intersecarsi dei gesti e delle pose, finalizzato a distinguere i caratteri e i ruoli dei personaggi e ad arricchire il sottile filo narrativo, è altamente sofisticato, e ribadisce quanto Leonardo aveva già sperimentato nella non finita Adorazione dei magi oggi agli Uffizi. Delle importanti opere di artisti lombardi che abbiamo appena visto, seppur posteriori alla pala di Leonardo, nessuna sembra restituirne il benché minimo riflesso. Bisognerà aspettare la fine del decennio perché qualcosa negli animi si smuova. 

Non si sa da quando Leonardo abbia costituito una bottega a Milano. Ciò che è certo, e lo si sa da alcuni appunti di sua mano, è che nel 1490 e nel 1491 un certo «Jachomo» aveva rubato in ben due occasioni un «graffio d’argento» prima a «Marco» e poi a «Giannantonio». Si tratta con ogni probabilità di alcuni dei principali protagonisti di quella «tanta adulescentium turba» che, stando a Paolo Giovio, affollava la vita milanese di Leonardo: il «ladro, bugiardo, ostinato, ghiotto» Gian Giacomo Caprotti da Oreno, detto Salaì (da un diavolo del Morgante di Luigi Pulci, un poema di grande successo in quegli anni), preso in “adozione” proprio nel 1490, quando aveva dieci anni, ma soprattutto Marco d’Oggiono e Giovanni Antonio Boltraffio. Come vedremo, è soprattutto attraverso la mediazione dei suoi allievi lombardi che Leonardo e gli artisti locali potranno intraprendere un dialogo altrimenti impensabile. Non irrilevante è che la loro prima menzione sia collegata con l’uso della punta d’argento, una tecnica disegnativa che ha caratterizzato quasi un decennio dell’attività milanese di Leonardo, e che è stata “resuscitata” in città proprio grazie all’intensa «pratica» (Vasari) nella sua bottega. 

Boltraffio, che probabilmente proveniva da un’agiata famiglia milanese, era nato intorno al 1467, come si desume dalla sua lapide sepolcrale già in San Paolo in Compito e oggi conservata nel lapidario del Castello sforzesco. Il suo dipinto più antico, la Madonna della rosa del Museo Poldi Pezzoli, databile nella seconda metà degli anni Ottanta, denuncia già una completa immersione nei dettami leonardeschi e un’assoluta assenza di elementi che definiremmo lombardi. Nell’“aristocratica” Madonna di Boltraffio i gesti sono calcolati e concatenati tra loro: il Bambino sul parapetto, seduto in equilibrio precario sul piede destro, si protende pericolosamente verso la rosa; il moto fa sì che la Madonna, prudentemente, lo trattenga stringendo una fascia che gli cinge il petto. Nonostante la madre osservi benevola il movimento del figlio, con la mano libera riesce, nello stesso momento, ad afferrare - senza guardarlo - uno stelo di crocifera che spunta da un vaso posto sul parapetto. Questo alto grado di calcolo delle pose e dei movimenti incrociati, assolutamente inedito per un pittore milanese, ha spinto Bernard Berenson a pensare che per questa Madonna Boltraffio fosse risalito a una «early idea of Leonardo’s». Leonardo evidentemente mette a disposizione di Boltraffio il bagaglio di idee che aveva elaborato negli ultimi anni fiorentini, ma anche nei primi tempi milanesi. Alle spalle di questa Madonna dal collo lungo di Boltraffio sembra esserci una serie di bellissimi schizzi a penna elaborati da Leonardo quando era ancora a Firenze, ma anche naturalmente la versione parigina della Vergine delle rocce discussa prima e il Ritratto di Cecilia Gallerani (universalmente nota come La dama con l’ermellino), eseguito intorno al 1486.


Leonardo, Vergine delle rocce (1483 circa); Parigi, Louvre.


Leonardo, Studio per una Madonna col Bambino e san Giovannino e altri studi (1478 circa), particolare della Madonna che allatta; Windsor, Royal Library.

Leonardo, Madonna del fiore (Madonna Benois) (1480-1482 circa); San Pietroburgo, Ermitage.


Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna della rosa (1485-1490 circa); Milano, Museo Poldi Pezzoli.

Non si dimentichi poi che molto probabilmente Leonardo porta con sé a Milano la meravigliosa Madonna del fiore oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, meglio nota come Madonna Benois. Se Boltraffio aveva assorbito l’essenza formale di quest’opera, poi rimescolata nella sua Madonna della rosa, c’era chi, proveniente da una cultura figurativa profondamente lombarda di stampo butinonesco, ne aveva subito il fascino, e l’aveva addirittura plagiata in una misteriosa Madonna col Bambino in piedi sotto un arco, conservata al Museo Puškin di Mosca. Quest’opera, che mescola la tradizione con una citazione davvero poco obiettiva di un’opera di Leonardo, dimostra come negli anni Ottanta il toscano fosse visto a Milano come una sorta di alieno, di enorme fascino ma dal linguaggio incomprensibile. Forse davvero solo Boltraffio aveva avuto un accesso privilegiato ai suoi materiali e, come vedremo, è stato in grado di elevarsi a interprete delle sue idee formali, in modo tale da renderle comprensibili agli altri. 

Il 1489 è un anno piuttosto importante per Milano e per Leonardo. Intorno a questa data, Leonardo aveva ripreso a pieno regime il suo lavoro di progettazione per il “Cavallo”, il grande monumento a Francesco Sforza. Esistono una serie di bellissimi studi di anatomia equina a punta d’argento e biacca su carta preparata in azzurro, databili intorno al 1490-1491. Riuscirà a costruire unicamente il colossale modello d’argilla, che stando a Luca Pacioli solo nel corpo del cavallo era alto più di sette metri (verrà poi distrutto dalle archibugiate dei francesi invasori, nel 1499). Sempre nel 1489 giunge da Napoli a Milano Isabella d’Aragona, figlia del re di Napoli e fresca sposa di Gian Galeazzo Sforza, il legittimo erede del ducato di Milano che morirà precocemente nel 1494. Il 13 gennaio 1490 viene allestita per loro, nel Castello sforzesco, la Festa del paradiso, il cui testo era stato composto dal poeta Bernardo Bellincioni e le scene realizzate da Leonardo. È stato ipotizzato, a ragione, che Isabella abbia portato con sé da Napoli anche Francesco Galli, detto appunto Napoletano, un pittore che entrerà poi a far parte della più stretta cerchia leonardesca. Proprio in questo periodo il Moro decide di sistemare il tesoro degli Sforza nella Rocchetta del Castello.
È databile intorno al 1490 il titanico Argo ad affresco che sta a guardia della porta della parte più preziosa del tesoro, una sconvolgente opera di Bramantino che, tra anatomie contorte, vertiginose fughe prospettiche ed eclettismi all’antica, sta a testimoniare come intorno a questa data i gusti e le commissioni ducali non si fossero fissate su un unico “stile di corte”, ma potessero avere ancora orientamenti così diversi. 

La prima opera di Leonardo ad attecchire con efficacia nel terreno lombardo è senz’altro la Vergine delle rocce oggi alla National Gallery di Londra, con ogni probabilità portata a termine intorno al 1490. È di gran fascino porla accanto - idealmente - al contemporaneo Argo di Bramantino: in quel momento, in Italia e, diremmo, in Europa, non esiste un unico contesto artistico dove si giochi al suo interno una partita a questi livelli e su registri espressivi così diversi. La questione della commissione della pala, dei pagamenti, e del suo rapporto con la quasi identica composizione del Louvre è materia di discussione tra storici dell’arte da più di un secolo. Ma i recenti studi di Alessandro Ballarin sembrano definitivamente aver messo in chiaro le cose: la versione londinese è la stessa - e l’unica - in rapporto alla commissione del 25 aprile 1483 di una grande e complessa “macchina” d’altare per la confraternita dell’Immacolata Concezione in San Francesco Grande a Milano. A eseguirla sarebbero stati Leonardo insieme ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de Predis, mentre la carpenteria, perduta, era opera di Giacomo del Maino. L’altare è stato smembrato a fine Settecento, e gli unici pezzi superstiti sono tutti a Londra: lo scomparto centrale e due pezzi laterali con due Angeli musicanti, uno in rosso - attribuibile con certezza ad Ambrogio de Predis - e l’altro in verde. 

Come dicevamo, la Vergine delle rocce nella sua versione londinese è la prima opera di Leonardo che ha avuto un impatto forte sulla scena figurativa locale. Le differenze con la prima versione, che si sono potute ben verificare nella mostra londinese del 2011-2012 in cui erano esposte entrambe, non si limitano ad alcuni importanti dettagli compositivi. Leonardo ha nel frattempo acquisito approfondite conoscenze anatomiche (un foglio con Studi del teschio umano, conservato alla Royal Library di Windsor, è datato 1489), e ciò risulta evidente se si guarda la testa della Madonna, che rispetto alla precedente pare davvero il risultato di chi vede e aspira a rappresentare le forme umane come una stratificazione di ossa, cartilagini, vene, carni ed epidermidi. Ma è soprattutto nella scala di toni cromatici che si ha una piccola rivoluzione. Leonardo, nella seconda versione della Vergine delle rocce, sembra essere diventato lombardo. Gli incarnati, ripristinati nella loro brillantezza dopo un recente oculato restauro che ha rimosso le vernici moderne ingiallite, sono infatti tutti virati verso il grigio, ma un grigio non spento, bensì perlaceo e riflettente, non dissimile da quello delle figure nella pala giovanile di Bergognone che abbiamo incontrato poc’anzi o in certe creature di Foppa. La luce lunare dai riflessi argentei è molto più radente rispetto a quella della prima versione, e crea un effetto di contrasti ancora più netto e drammatico: non a caso la dialettica «lumi e ombre» è uno dei motivi ricorrenti nei taccuini di Leonardo, volti a comporre un suo manifesto (pubblicato postumo): il Trattato della pittura. Incamerate queste caratteristiche dalla migliore tradizione locale, Leonardo ha trovato finalmente la chiave per farsi capire, e per finalmente impiantare un linguaggio che di lì in poi non potrà essere più ignorato. Un suo dipinto perfettamente in parallelo dal punto di vista stilistico alla pala oggi a Londra è il Ritratto di musico dell’Ambrosiana, che in più occasioni è stato relegato nel solco della tradizione ritrattistica di Antonello da Messina, ma che in realtà è un piccolo trattato di anatomia del volto umano, pulsante ed estremamente lontano dalle maschere iperrealiste di Antonello. Intorno alla seconda Vergine delle rocce si affollano gli allievi nella bottega di Leonardo, e fervidamente tutti si esercitano a disegnare con la punta metallica: sempre nel Trattato infatti Leonardo si raccomanda che i giovani disegnino in compagnia.


Leonardo, Ritratto di musico (1490 circa); Milano, Pinacoteca ambrosiana.


Leonardo, Vergine delle rocce (1490 circa); Londra, National Gallery.


Bramantino, Argo (1490 circa); Milano, Castello sforzesco, sala del Tesoro.

Giovanni Antonio Boltraffio, Studio di testa di un giovane (1490-1495 circa); Firenze, Uffizi, Gabinetto disegni e stampe.


Maestro della Pala Sforzesca, Studio di testa femminile (1494-1495 circa); Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings.

Stando a Paolo Giovio poi, Leonardo non concedeva ai suoi allievi di usare il pennello e i colori fino a che avessero raggiunto i vent’anni: prima potevano solo utilizzare incessantemente la punta metallica, che abbiamo visto essere oggetto di furti tra i giovani artisti. Non sembra dunque un caso che proprio a inizio anni Novanta vengano prodotte nella sua cerchia una serie di stampe con i celebri Nodi e anche con una Testa femminile idealizzata (il cui disegno è stato giustamente riferito a Boltraffio), tutte recanti la scritta «Achademia Leonardi Vinci», che non sono prova dell’esistenza di una reale Accademia, ma rivelano una tensione nella sua bottega all’esercizio - per l’appunto - di spirito accademico e alla diffusione di principi omologati e ben riconoscibili. 

Boltraffio diventa un vero maestro della punta metallica, in cui esprime al meglio la sua interpretazione classicizzata di Leonardo. Nella Testa di giovane agli Uffizi, Boltraffio riprende specularmente - anche nella direzione della luce - la testa della Madonna nella Vergine delle rocce. Magistralmente, l’infinita trama di leggeri tocchi plasma il volto attraverso impercettibili avvallamenti e rilievi, definiti dall’incidenza di una fonte di luce fredda ma netta. Le parti inondate di luce, come il profilo del naso, sono rese con incredibile risparmio, sfruttando il tono eburneo della preparazione della carta. Non a caso questo disegno è stato in molte occasioni ritenuto di Leonardo stesso. 

Un’altra derivazione dal modello leonardesco, sempre eseguita a punta metallica, anche se utilizzata in maniera più maldestra, è lo Studio di testa femminile del British Museum di Londra, opera dell’anonimo Maestro della Pala Sforzesca. È come se la testa della Madonna di Leonardo fosse stata presa a pugni, e fosse tumefatta dagli ematomi e dai lividi. Il caso del Maestro della Pala Sforzesca è davvero emblematico per il nostro discorso. Si tratta infatti di un artista che prima di assumere inconfondibili caratteri leonardeschi deve avere avuto una formazione profondamente lombarda. Il pezzo centrale del suo catalogo, la Pala sforzesca di Brera per l’appunto, è una commistione tra un impianto tradizionale, ancora tra Foppa e Bergognone, condito dalla presenza preponderante dei famosi ori lombardi, e un leonardismo incipiente ed esageratamente enfatizzato nei volti e nelle mani delle figure. La Pala sforzesca, destinata alla chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus a Milano, in cui figura la famiglia al completo di Ludovico il Moro appena diventato duca (1494), è un’importante opera di valore rappresentativo e politico, e non a caso la scelta ricade su un artista che era in grado di mettere insieme tradizione e innovazione. Vi sono anche altri casi in cui l’anonimo maestro lombardo riesce a conciliare Leonardo con la tradizione locale: si prenda per esempio la paletta in miniatura con la Madonna col Bambino in trono tra santi e devoti della National Gallery di Londra. In ultimo, lo schema di questo quadretto è davvero ancora quello della Pala Bottigella di Foppa, un’opera degli anni Sessanta del Quattrocento, mentre gli incarnati e il chiaroscuro sono chiaramente improntati alla pala di Leonardo appena installata in San Francesco Grande. 

Tra i primi a reagire alla Vergine delle rocce di Londra è senz’altro da annoverare il modestissimo - ma evidentemente apprezzato dai contemporanei - Bernardino dei Conti, un pittore di Castelseprio. Nel 1494 infatti esegue, per l’umanista e segretario ducale Jacopo Antiquario, la Madonna col Bambino in piedi in un paesaggio in San Pietro in Gessate a Milano, dall’iconografia rara e bizzarra, in cui è evidente che la testa della Madonna è derivata dalla pala leonardesca.


Maestro della Pala Sforzesca, Madonna col Bambino in trono tra santi e devoti (1490-1494 circa); Londra, National Gallery.


Bernardino dei Conti, Madonna col Bambino in piedi in un paesaggio (1494); Milano, San Pietro in Gessate.

Bergognone, Madonna del latte (1490-1495 circa); Bergamo, Accademia Carrara.


Ambrogio de Predis, Angelo in rosso (1490 circa); Londra, National Gallery.

Per comprendere lo shock visivo subìto dinanzi al dipinto di Leonardo anche dagli artisti non più tanto giovani, come Bergognone, basti la meravigliosa Madonna del latte dell’Accademia Carrara di Bergamo, databile ai primi anni Novanta, a confronto con la Pala di San Siro della certosa di Pavia, eseguita nel 1491. Rispetto alle opere giovanili, Bergognone sembra incamerare dal Leonardo della seconda Vergine delle rocce cognizioni anatomiche (bastino la struttura del volto della Vergine o i tendini ben visibili nelle mani) e la luce fredda, che taglia le superfici e fa brillare, come rivoli d’acqua al sole, i lunghi capelli della Madonna. Certo c’era anche chi, come Ambrogio de Predis, coetaneo di Bergognone, pur avendo collaborato strettamente con Leonardo per l’impresa di San Francesco Grande, nelle sue opere di quegli anni non dimostra la benché minima volontà di restituzione del linguaggio leonardesco, come sta a dimostrare l’Angelo in rosso, che, come si diceva, una volta faceva parte della medesima pala d’altare nella chiesa francescana. Sembra dunque assurdo che spesso oggi lo si annoveri tra i pittori leonardeschi, e gli si attribuiscano opere che, come vedremo, non hanno nulla a che fare con lui. 

Pare imprescindibile a questo punto sostare su un dipinto la cui luce fredda e notturna è la stessa della seconda Vergine delle rocce, e che sintetizza molti problemi leonardeschi: la celebre Madonna Litta dell’Ermitage. Ancora oggi è spesso promossa - soprattutto dall’istituzione russa - come opera di Leonardo, anche se appare evidente che si tratta di una traduzione addolcita, semplificata e “mercificata” di un’idea del grande toscano. Sebbene alcuni studiosi, a partire da Ballarin, abbiano spiegato con chiarezza che si tratti di un’opera di Boltraffio, ancora oggi fatica a trovare una collocazione fissa nel panorama artistico milanese. La testa della Madonna dal profilo perfetto, senza accidenti (e in questo senso così poco affine al mondo di Leonardo), rivela un gusto già protocanoviano. Proprio un confronto con un meraviglioso disegno di simile composizione, lo Studio per una testa di donna del Louvre, eseguito da Leonardo nei primi anni milanesi, rivela l’abilità di Boltraffio di trasformare l’universo stratificato di carni e anima di Leonardo in pura superficie, fredda, levigata e incorruttibile, quasi di porcellana, e per questo tranquillizzante. Questo senso di accessibilità all’immagine e facilità a leggerne le forme ha fatto sì che da subito molti artisti milanesi - e non solo - ne fossero rimasti affascinati: sono tante le copie e le versioni coeve di questo dipinto. 

Uno dei compagni di bottega insieme a Boltraffio è, come abbiamo visto, Marco d’Oggiono. Questo artista nato sulle rive del lago di Annone è, a differenza di Boltraffio, privo di un’attività “quattrocentesca” su cui gli studi concordino. Tuttavia, esiste un gruppo di dipinti molto coerenti tra loro che hanno come perno un ritratto, noto come Ritratto Archinto per la sua provenienza ottocentesca dalla raccolta Archinto di Milano e oggi conservato alla National Gallery di Londra, i cui toni grigi e la luce fredda ricordano quelli della Vergine delle rocce londinese. Il volto ha un colorito cadaverico, le labbra violacee, la mano sul parapetto pare morta. Questo ritratto - importante anche perché datato 1494 - e le opere a esso affini sono ancora oggi insistentemente riferite ad Ambrogio de Predis, anche se basta un confronto con l’Angelo in rosso o con altre opere certe di De Predis per convincere chiunque provi a guardare che la strada è sbagliata. È ben più assennata invece l’idea che si tratti di un’opera giovanile di Marco d’Oggiono, in questo caso aggiornato su un nuovo fondamentale capitolo di Leonardo nella sua prima esperienza milanese: la Belle ferronnière oggi al Louvre, che, come ha argomentato ancora una volta Ballarin, potrebbe rappresentare la duchessa “in pectore” Isabella d’Aragona. Il dipinto di Leonardo è un caposaldo del genere del “ritratto di spalla”, e diviene un punto di riferimento imprescindibile per la ritrattistica milanese di fine Quattrocento. Marco d’Oggiono è molto meno intelligente di Boltraffio: tende a enfatizzare e “condire” troppo le idee del maestro, rendendo il risultato assai difficile da digerire. La sua Ragazza con piatto di frutta del Metropolitan Museum di New York, per esempio, una delle tante creature “androgine” prodotte dall’entourage leonardesco, dimostra come si possa volgarizzare il genere del ritratto idealizzato. Anche Marco d’Oggiono era pratico della punta metallica, come provato dall’aneddoto del Salaì, anche se i disegni in questa tecnica attribuibili a lui (si vedano per esempio lo Studio di mano dell’Ambrosiana o il Busto femminile del Puškin) dimostrano un’abilità, un controllo della mano e una tensione poetica ben inferiori a quelli di Boltraffio.


Giovanni Antonio Boltraffio, Madonna del latte (Madonna Litta) (1490 circa); San Pietroburgo, Ermitage.


Leonardo, Studio per una testa di donna (1485-1490 circa); Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins.

Leonardo, Belle ferronnière (Ritratto di Isabella d’Aragona?) (1490-1494 circa); Parigi, Louvre.


Marco d’Oggiono, Ritratto di uomo (Ritratto Archinto) (1494); Londra, National Gallery.

I due allievi lombardi di Leonardo sono incaricati dai fratelli Grifi, nel 1491, di eseguire una pala con la Resurrezione per la cappella di San Leonardo presso la chiesa milanese di San Giovanni sul Muro, nelle vicinanze del Castello sforzesco. Vi è un sollecito a condurla a termine nel 1494, ma i due pittori sicuramente non completano la pala fino al 1497, poiché nel dipinto, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino, si riscontrano chiari riferimenti all’Ultima cena. La grande pittura murale, che Leonardo portò a termine per volontà del Moro nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie proprio nel 1497, diventa infatti un nuovo, e definitivo, banco di prova per gli artisti di tutto il Nord Italia. Nella Pala Grifi è piuttosto semplice distinguere tra le mani di Boltraffio e di Marco. Il Cristo risorto, più “gommoso” e manierato, è infatti della stessa risma dei dipinti di Marco appena analizzati. Mentre i due santi inginocchiati sono prove di un grandioso intendere e interpretare - in tempo reale - l’Ultima cena da parte di Boltraffio: la santa Lucia è infatti una trasposizione piuttosto fedele del san Filippo. 

La febbre generata dallo svelamento dell’Ultima cena è grande, ma il ruolo intermedio della Pala Grifi per diffonderne i dettami non sembra irrilevante: esiste una rara incisione con Sant’Alessio, giustamente restituita a Francesco Napoletano da Giovanni Agosti, che sembra serbare elementi del murale di Leonardo, ma come se fossero guardati attraverso la pala dei suoi allievi. Quest’incisione è stata sicuramente eseguita prima del 1501, visto che Francesco morirà a Venezia in quell’anno. 

Negli anni precedenti l’Ultima cena le tecniche disegnative di Leonardo si erano evolute e, abbandonata definitivamente la punta metallica, l’artista ha abbracciato le matite rosse e nere, producendo i celebri studi di teste, mani e piedi per il Cenacolo, oggi divisi tra l’Accademia di Venezia e soprattutto Windsor. Uno di quelli conservati all’Accademia, lo Studio per la mano di Giuda, è stato solo di recente restituito a Leonardo (da Ballarin), ma non ha riscontrato grande consenso presso gli studiosi, nonostante si tratti di un assoluto capolavoro, in cui si combinano matita rossa e un lievissimo gesso bianco, quasi cosparso a mo’ di zucchero a velo. La luce vibra su creste che altro non sono che le vene pulsanti e i tendini del pugno che, rabbioso e colpevole, stritola il tovagliolo. Questa “conversione” tecnica di Leonardo, che gli ha permesso un ulteriore salto espressivo rispetto alla più statica e fredda punta metallica, ha incominciato ad avere effetti sulla scena milanese solamente intorno al 1500. 

Crollato il Moro, e Milano invasa dalle truppe francesi di Luigi XII nell’ottobre 1499, Leonardo lascia la città in compagnia del matematico Luca Pacioli per trovare impiego altrove. Passa da Mantova (dove realizza il Cartone per un ritratto di Isabella d’Este, oggi al Louvre) e approda, nel marzo 1500, a Venezia.


Marco d’Oggiono, Ragazza con piatto di frutta (1492-1494 circa); New York, Metropolitan Museum.


Marco d’Oggiono, Studio di busto femminile (1492-1494 circa); Mosca, Museo Pusˇkin.

Giovanni Antonio Boltraffio e Marco d’Oggiono, Pala Grifi (1497 circa); Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.


Francesco Napoletano, Sant’Alessio (1497 circa); Milano, Biblioteca ambrosiana.


Leonardo, Studio per la mano di Giuda (1495-1497 circa); Venezia, Gallerie dell’Accademia.

LEONARDESCHI. LEONARDO E GLI ARTISTI LOMBARDI
LEONARDESCHI. LEONARDO E GLI ARTISTI LOMBARDI
Antonio Mazzotta
Un dossier dedicato ai Leonardeschi. In sommario: Gli anni Ottanta del Quattrocento in Lombardia; Il primo soggiorno di leonardo a Milano: 1482-1499; Milano, campo libero? 1499-1506; Il secondo soggiorno di Leonardo a Milano e la sua eredità. Come tutte le monografie della collana ''Dossier d'art'', una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.