Il gusto dell'arte


CON LE MANI
O CON LA FORCHETTA

di Ludovica Sebregondi

Alla ricerca di preparazioni alimentari e prodotti che trovano nell’arte puntuali riferimenti, al di là di epoche, luoghi e tradizioni: i maccheroni

Un uomo mangia con ingordigia, guardando fissamente il piatto che ha davanti, e infilza con una forchetta quella che oggi chiameremmo genericamente “pasta”. Non è un povero, come attestano l’abito elegante, i vasi e l’elaborata ringhiera sul fondo. Sopra il suo cappello si affrontano, incrociando cucchiaio e forchetta, due esseri che pur ispirandosi a figure angeliche, hanno connotazioni malefiche per i sessi maschili in evidenza, le ali da pipistrello diaboliche, i volti e le capigliature caricaturali, gli atteggiamenti grotteschi e la scopa che uno dei due cavalca. Certamente il decoratore di maioliche, e sacerdote, Angelo Antonio D’Alessandro (Laterza, Taranto 1642-1717), si è ispirato al Mangiafagioli di Annibale Carracci del 1584-1585 per questa alzata in manifattura di Laterza con il Mangiamaccheroni, ma ha trasposto la scena realistica da una povera taverna a un contesto quasi aulico del Sud. La decorazione del presentatoio a monocromo blu su smalto bianco con sfumature dal turchino all’azzurro, caratteristica dell’istoriato laertino, per l’“horror vacui” si ispira anche a incisioni popolaresche, ma la produzione di simile vasellame da mensa era destinato alle classi sociali più elevate.
Fu proprio tra fine Cinquecento e inizio Settecento che nel Regno di Napoli avvenne il passaggio - grazie anche all’invenzione del torchio che permise di produrre pasta a trafila semplificandone la produzione - che portò gli abitanti a trasformarsi da “mangiafoglie”, con un’alimentazione basata essenzialmente sulla verdura, a “mangiamaccheroni”. Il termine fu utilizzato in seguito, con accezione offensiva e di scherno, per connotare gli emigranti italiani.


Angelo Antonio D’Alessandro, Mangiamaccheroni (1693), Faenza (Ravenna), Mic - Museo internazionale delle ceramiche in Faenza.

Franco Sacchetti alla fine del XIV secolo nel Trecentonovelle descrive un mangiatore compulsivo, Noddo, che «comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù; e n’aveva già mandati sei bocconi giù che Giovanni aveva ancora il primo boccone su la forchetta». Testimonia dunque come in Toscana venisse utilizzata, già in una data precoce, la forchetta per «avviluppare» i maccheroni, pasta di formato lungo, la stessa che mangiano con le mani i popolani napoletani immortalati da Giorgio Sommer, nato a Francoforte sul Meno nel 1834. Trasferitosi a Napoli dal 1856 (dove morì nel 1914), fu tra i più prolifici fotografi di opere d’arte, di architetture e di scene di genere destinate a souvenir per turisti. La quotidianità partenopea veniva ricostruita in studio, abbondando in particolari “pittoreschi” e creando “tableaux vivants” stereotipati, con richiami a modelli pittorici. Questa dei Mangiatori di maccheroni è tra le immagini di Sommer di maggior successo, ambientata davanti a un fondale con false frasche e a un pavimento dipinto. Su un tavolo sono appoggiati una cesta con pesci, vino e una scodella colma di formaggio; altri panieri per terra contengono frutta. Un garzone seduto su una panca beve vino, mentre su un tavolino è appoggiato il tegame con la pasta, da cui il “maccaronaro” ne ha sollevato una brancata con le mani. Un ragazzino sul fondo tiene in alto la pasta in bianco con la destra, uno scugnizzo seduto per terra la mangia rossa di pomodoro. Non era solo la gente del popolo a usare le mani, sembra che anche re Ferdinando I di Borbone lo facesse abitualmente, ed è ancora questa la maniera descritta da Carlo Tito Dalbono a metà Ottocento: «Il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i maccheroni o i vermicelli mezzo palmo sopra la bocca e poi, facendo un lieve movimento di girazione a spirale ve li caccia dentro con una destrezza che rivela la pratica, e mastica senza mai sporcarsi». Dipinti, incisioni e fotografie furono dedicati a questa abilità, ma anche al modo con cui la pasta veniva essiccata e poi cotta per la strada, tanto da essere divenuta simbolo del folklore partenopeo: così Giuseppe Marotta nell’Oro di Napoli (1947) ricorda che, a inizio Novecento, «erano più panorami di Napoli gli spaghetti che il Vesuvio e il mare».


Giorgio Sommer, Mangiatori di maccheroni a Napoli (1882 circa).

ART E DOSSIER N. 378
ART E DOSSIER N. 378
LUGLIO-AGOSTO 2020
In questo numero: EROS IN ARTE: I colori delle donne di Corbaz. Se il bordello ispira il pittore. LUOGHI DA VEDERE: Due fondazioni ad Atene. Palazzo ducale a Sassuolo. Le case a graticcio in Germania. IL SENSO E LA BELLEZZA: San Girolamo nel Rinascimento. Donatello e ilmovimento. I monili di Raffaello.Direttore: Philippe Daverio