Grandi mostre. 3
I gioielli nella pittura di Raffaello

LE GEMME
E L’ARTE DI CELARE L’ARTE

Alcuni dipinti di Raffaello rivelano una passione per le gemme, per la loro preziosità ma anche per il loro linguaggio simbolico. I gioielli diventano così strumento di dialoghi intellettuali di raffinata eleganza.

Silvia Malaguzzi

Uno scorpione con una punta di diamante fra le chele, un pendente impreziosito da un unicorno, un’armilla firmata «Raphael Urbinas» e una collana romana “a linea” sono solo alcuni dei gioielli che Raffaello fa indossare alle sue dame, segnali quasi subliminali di una personale ricerca di realismo pittorico lontana sia dalle minuzie fiamminghe che dalle brumose atmosfere leonardesche.

I monili sono uno diverso dall’altro non solo per tipologia ma anche per forma, stile e materiale a dimostrare una conoscenza mossa non già dal compiacimento del proprio virtuosismo ma da una genuina curiosità e dalla frequentazione intensa e costante di gioiellieri e orafi di riconosciute capacità(1). Evocata con la grazia e la facilità proprie dell’artista, la preziosità delle gemme fini - rubini, diamanti, smeraldi, zaffiri e perle - negli ornamenti delle sue protagoniste, si esprime fluidamente nella lingua immediata della materia scintillante ma anche nel linguaggio obliquo del simbolismo. Il patrimonio a cui Raffaello attinge i significati occulti delle pietre preziose è quello delle fonti lapidarie che dall’Antichità attraversano il Medioevo per diventare i fondamenti dell’erudizione umanistica e di quel revival antiquario di cui Urbino, Firenze e Roma, le sue città, sono i principali centri propulsori. La cultura gemmologica, serbatoio comune all’artista, ai suoi committenti e ai loro gioiellieri, agisce sia sulle forme e i materiali dei monili che sul criterio con cui Raffaello li sceglie e li raffigura trasformandoli in sofisticati ingredienti di una personale eloquenza pittorica.

Uno dei casi più rappresentativi è il gioiello indossato da Elisabetta Gonzaga nel suo ritratto: una lenza con al centro uno scorpione impreziosito da un diamante. Non sono mancate, nell’esegesi raffaellesca, ipotesi sull’origine e sul significato di quel minaccioso aracnide le più intuitive delle quali riguardano l’astrologia e l’araldica. Il segno zodiacale della duchessa non era lo Scorpione ma l’Acquario e non vi è alcuna evidenza che Elisabetta avesse un emblema personale recante uno scorpione(2). La posizione centrale sula fronte della dama, il cui volto, presentato frontalmente, rende tuttavia determinante la funzione di quell’ornamento partecipe del dialogo fra la protagonista e lo spettatore come una sorta di tatuaggio composto anziché da un disegno e da un motto, dallo scorpione e dalla gemma appuntita.


Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga (1502 circa), Firenze, Gallerie degli Uffizi.

(1) Raffaello a Firenze, catalogo della mostra, a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del quinto centenario della nascita di Raffaello (Firenze, Palazzo Pitti, 1984), Firenze 1984, p. 41

(2) M. A. Pinto, Elisabetta Gonzaga mantiene i suoi segreti, in “Civiltà Mantovana”, n. s. 8, 1985, p. 72.

Le incisioni sulle gemme, motivi simbolici capaci di potenziare le virtù terapeutiche delle stesse

Agli inizi del Cinquecento il diamante era ancora l’“indomabile”; questa gemma, che nella scala dei minerali di Mohs ha la massima durezza, rappresentava una sfida per i lapicidi ancora incapaci di sfaccettarlo a brillante ma abili nell’ottenere, dal naturale cristallo a ottaedro, il taglio a tavola e la punta di diamante. Quest’ultima non era solo un ingrediente prezioso ma uno strumento usato per tagliare tutte le altre gemme e, sul piano simbolico, un intuitivo emblema di acume, una virtù rara e preziosa come il diamante che la rappresenta. Più complesso da decifrare risulta lo scorpione nel quale convivono due accezioni opposte. Esso è infatti uno dei volti del Maligno ma è anche un noto attributo della dialettica e non solo. Camillo Leonardi nel suo Speculum Lapidum, un lapidario astrologico scritto a Pesaro - non lontano da Urbino - e pubblicato a Venezia nel 1502, dedica una sezione alle incisioni sulle gemme, motivi simbolici capaci di potenziare le virtù terapeutiche delle stesse. Fra le forme elencate vi è lo scorpione di cui l’autore segnala la prodigiosa capacità di convertire i malevoli in benevoli al solo contatto con la ceralacca impressa dalla gemma(3). Altrove Leonardi ascrive anche al diamante la stessa efficacia contro i nemici(4). Posto sulla fronte il gioiello non si limiterebbe a descrivere l’intelletto della dama ma rappresenterebbe anche il monito, rivolto al riguardante, a non sottovalutarne la dialettica “tranchante”, tanto efficace da convertire i nemici in amici.


Adriano Fiorentino, Medaglia per Elisabetta Gonzaga (1495), Londra, British Museum.

(3) C. Leonardi, Speculum Lapidum (Venezia 1502), Venezia 1516, c. 58 r.

(4) Ivi, c. 21 r e v.

Altrettanto raffinato e “parlante” è il pendente di Maddalena Strozzi ritratta in pendant con il marito Agnolo Doni durante il soggiorno fiorentino dell’artista. Il mercante Agnolo Doni era un appassionato conoscitore di gioielli nonché il probabile committente del monile indossato dalla sposa, forse donato a Maddalena in occasione delle nozze(5). Il gioiello, composto da un unicorno fuso a cera persa con uno smeraldo incastonato, da un rubino, uno zaffiro e una perla a goccia, è caratterizzato da un’interessante asimmetria nella disposizione delle gemme. Il piccolo unicorno, animale di fantasia, è un simbolo di castità e analogamente lo è lo smeraldo, da molta tradizione lapidaria segnalato come capace di contrastare l’inclinazione alla lussuria(6). Tuttavia la sua presenza nel ventre dell’animale sembra suggerire la possibilità che la gemma possa essere interpretabile altrimenti come talismano di fertilità. Lo indicherebbe, con l’eloquente posizione, il richiamo cromatico alla vegetazione e la sua dipendenza dalla stella Venere che, secondo la medicina astrologica di Marsilio Ficino, è preposta alla generazione di tutte le cose(7). Il lapidario astrologico contenuto nel De vita coelitus comparanda (il terzo libro del De Triplici Vita) pubblicato a Firenze nel 1489, era un testo assai diffuso nelle biblioteche dei fiorentini più colti agli inizi del Cinquecento e certamente noto anche a Raffaello(8). Del resto un discreto ma inequivocabile riferimento alla gravidanza risulterebbe coerente con quanto sappiamo della storia della coppia che all’epoca del ritratto, pur sposata da qualche anno, era ancora senza figli. È altrettanto verosimile che Maddalena fosse già in attesa e che la scelta di quel pendente, con il minuscolo unicorno “gravido”, avesse la funzione di comunicarlo, ricordando nel contempo che si trattava di una gestazione casta e legittima(9). Nello stesso pendente il rubino aveva il compito di tutelare la salute della dama proteggendone il cuore(10) e la vitalità(11), mentre lo zaffiro ne garantiva la prosperità e la benevolenza divina(12). La perla infine, portatrice di castità, per il suo concepimento mediante la rugiada celeste (Plinio, Naturalis Historia, 9, 107), avrebbe ribadito la fertilità grazie alla capacità di attirare su chi se ne orni l’influenza della Luna, il pianeta delle maree e della gestazione(13).


Raffaello, Ritratto di Maddalena Doni (1507 circa), Firenze, Gallerie degli Uffizi.

(5) A. Cecchi, Agnolo e Maddalena Doni committenti di Raffaello, in “Studi su Raffaello”, 1, 1987, p. 436.

(6) Patristica Latina CLXXI, col. 1745; C. Leonardi, op. cit., p. 43 r-v.; L. Dolce, Delle diverse sorti delle gemme, Venezia 1565, c. 61 r.

(7) M. Ficino, De Triplici Vita (1489), Sulla vita, a cura di A. Tarabochia Canavero, Milano 1995, p. 203.

(8) E. Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958), ed. rivista e ampliata, Londra 1968, pp. 26-96.

(9) S. Malaguzzi, Raffaello e i gioielli, in Raffaello 1520-1483, catalogo della mostra a cura di M. Faietti e M. Lafranconi (Roma, Scuderie del Quirinale, 2020), Milano 2020, p. 493.

(10) C. D’Ascoli, L’Acerba (prima del 1327), a cura di A. Crespi, Milano 2011, vv. 3181, p. 309.

(11) Alberto Magno, Raimondo Lullo maiorico filosofo acutissimo et celebre medico de secreti di natura o della quinta essentia. Libri duo. Alberto Magno sommo filosofo de cose minerali et metalliche. Libri cinque, tutto tradotto da M. P. Lauro, Venezia 1557, c. 79 r.

(12) C. Leonardi, op. cit., c. 34 r.; L. Dolce, op. cit., c. 47 v.

(13) L. Pirzio Biroli Stefanelli, L’oro dei romani gioielli di età imperiale, Roma 1992, pp. 154-155.

Raffaello affida al gioiello il compito di “dialogare” con lo spettatore


L’interesse di Raffaello per i gioielli si riconferma nella scelta e nella resa pittorica dei monili del ritratto femminile noto come La velata. Fatta eccezione per la gioia da testa di una foggia abbastanza comune fra Quattro e Cinquecento, il bracciale e il vezzo presentano caratteristiche totalmente estranee alla moda dell’epoca e, per questo, a maggior ragione interessanti. Il primo, in oro e gemme scure, è compatibile con l’aspetto massiccio dei bracciali tardoromani in filigrana spesso impreziositi da corniole o granati, incisi o tagliati “à cabochon”(14), mentre la collana è riconoscibile come un classico esemplare “a linea”. Questo genere di monile, assai comune nell’antichità, era spesso formato da una sequenza di granati, le gemme preferite dalla gioielleria ellenistico-romana per il colore intenso e la facilità di reperimento.

La sensazione che non si tratti di gioielli liberamente ispirati all’antico ma di reali monili archeologici descritti con la cura filologica di un conoscitore, diviene certezza qualora si colleghino quegli ornamenti con la vicenda personale del pittore. A Roma Raffaello, investito da papa Leone X del ruolo di sovrintendente ai monumenti antichi, aveva certo avuto modo di toccare e studiare qualche prezioso emerso dagli scavi effettuati per far spazio alle fondamenta dei nuovi palazzi urbani. L’amore erudito di Raffaello per le vestigia romane di ogni genere e materiale, condiviso con l’amico letterato Baldassarre Castiglione, è documentato dalla lettera scritta dall’artista a papa Leone X, dalla quale emerge con forza una concezione moderna di tutela rispettosa e filologica(15).


Raffaello, La velata (1512-1516 circa), Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

(14) F. P. Di Teodoro, La lettera a Leone X, in Raffaello 1520-1483, op. cit., pp. 69-75.

(15) G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architectori, Firenze 1568, ediz. cons. Milano 1963, IV, p. 91.

Alla luce di queste considerazioni, quei gioielli antichi, dipinti nel ritratto riconosciuto come probabile effigie dell’amata Margherita Luti, sembrano appartenere più all’artista che alla ritrattata, come l’abito, troppo ricco d’oro per una fanciulla di umili origini e forse indossato solo per essere raffigurato. I monili, nel ribadire il rapporto personale di Raffaello con quell’opera - già espresso da Giorgio Vasari(16) - non rappresenterebbero tanto un inutile sfoggio erudito, quanto piuttosto l’espressione di un amore per l’Antichità che, travalicando la retorica della citazione facile e scontata, attingeva a una conoscenza diretta, personale e profonda. Una gioia da testa, questa volta di concezione moderna, imparenta la dama velata con la Fornarina Barberini, riconosciute entrambe da molta critica come ritratti diversi della stessa persona(17): la già citata Margherita Luti. Nella seconda opera tuttavia al braccio della fanciulla discinta e atteggiata a “Venus pudica”, Raffaello raffigura un bracciale diverso da quello della Velata: un’armilla smaltata recante la firma del pittore. L’armilla, un caratteristico ornamento romano molto in uso fra le matrone, è ancora una volta una citazione dall’Antico ma non disgiunta, in questo caso, dall’iconografia tradizionale della dea Venere cui rimandano anche la posa e la nudità della ritrattata. Non mancano esemplari scultorei che presentano la dea con quell’ornamento e fra questi la Venere accovacciata degli Uffizi di cui Guidubaldo da Montefeltro, uno dei committenti eccellenti di Raffaello, possedeva una copia(18). Ciò che tuttavia rende speciale quell’armilla non è solo la foggia all’antica ma l’iscrizione «Raphael Urbinas», la firma del pittore: un’indicazione dell’autografia dell’opera ma anche e soprattutto un’affermazione perentoria di “proprietà” della sua protagonista. Ancora una volta, dunque, Raffaello mostra di affidare a un gioiello il compito di “dialogare” con lo spettatore, di presentargli la sua Venere confermando “en passant”, con la sua peculiare arte di celare l’arte, che la fanciulla è proprio la Fornarina, l’amante fedele che gli sarebbe rimasta vicino fino alla morte.


Arte romana, Venere accovacciata (I secolo d.C.) Firenze, Gallerie degli Uffizi.


Raffaello, La Fornarina (1519-1520 circa), Roma, Gallerie nazionali d’arte antica, palazzo Barberini.

(16) M. C. Monaco, Afrodite accovacciata (scheda n. 41), in L’officina della maniera. Varietà e fierezza nell’arte fiorentina del Cinquecento fra le due repubbliche 1490-1530, catalogo della mostra, a cura di A. Cecchi, A. Natali (Firenze 1996-1997), Firenze 1996, pp. 154-155.

(17) Raffaello a Firenze, op. cit., p. 174.

(18) M. C. Monaco, op. cit., pp. 154-155.

ART E DOSSIER N. 378
ART E DOSSIER N. 378
LUGLIO-AGOSTO 2020
In questo numero: EROS IN ARTE: I colori delle donne di Corbaz. Se il bordello ispira il pittore. LUOGHI DA VEDERE: Due fondazioni ad Atene. Palazzo ducale a Sassuolo. Le case a graticcio in Germania. IL SENSO E LA BELLEZZA: San Girolamo nel Rinascimento. Donatello e ilmovimento. I monili di Raffaello.Direttore: Philippe Daverio