Luoghi da conoscere. 1
La Fondazione Onassis - Stegi e la Fondazione Stavros Niarchos ad Atene

E LUCE
SIA

In un paese come la Grecia dove forte è il senso di appartenenza alla comunità, i benefattori - ieri così come oggi - continuano a riaffermare, attraverso un investimento edilizio mirato, l’identità etica e culturale della nazione. Esemplari Onassis e Niarchos, promotori, grazie ai loro imperi finanziari, di due fondazioni culturali polivalenti “plasmate” principalmente dalla forza naturale della luce.

Giuliano Serafini

nel XIX secolo li chiamavano “everghètes”, letteralmente “benefattori”. Ma la retorica paternalistica non sarebbe riuscita a prevalere sul granitico orgoglio dell’appartenenza che negli anni dell’insurrezione contro il dominio ottomano - siamo in Grecia - aveva finito per rendere complici donatori e beneficiari (e perfino briganti e pirati, disinvoltamente coinvolti nella causa comune contro il turco).

I nomi: Sinas, Zappas, Tossitsa, Averoff, Vallianos, Gennadios, Arsakis, Soutzos, Benakis. Eminenti greci della diaspora che, fatta fortuna soprattutto in area balcanico-slava, erano rientrati per contribuire all’immagine istituzionale della nuova patria, o meglio, alla sua “invenzione”: perché in pratica si trattava di trasformare un villaggio turco in una capitale europea. Un movente etico ed etnico a un tempo, tanto che i maggiori edifici pubblici di Atene si chiamano ancora con il loro patronimico.


La Fondazione Stavros Niarchos di Atene, progettata da Renzo Piano, in una veduta dal parco, lato sud.

Emblematicamente la storia si ripete. Imparentati da più generazioni e divisi da vicende private per le quali sarebbe fin troppo facile evocare gli Atridi, i “tycoons” massimi dell’ultimo settantennio ellenico, Onassis e Niarchos (o meglio, la loro potenza economica) tornano ad assumersi quel debito e quel privilegio. Obiettivi tecno-finanziari, benefit ed espansionismi nel vivo della città messi in conto. Ed è ancora più emblematico che le due fondazioni si trovino in un’area geografica di prossimità, tra il Leofòros Syngroù e il porto del Falero, venti chilometri di storica arteria che in parallelo alle mura di Temistocle introduceva e introduce ancora Atene al mare. Mare che peraltro, come ben sappiamo, ha costituito per Onassis e Niarchos l’elemento e il capitale primo.


Una struttura che al primo impatto può imbarazzare per il grandioso, levigato e inespugnabile minimalismo


Una veduta notturna della Fondazione Onassis - Stegi di Atene, progettata da Architecture Studio di Parigi.

Se per gestione e finalità in entrambi i casi la filosofia resta comune - si tratta di promuovere sostenere e diffondere cultura in tutte le sue casistiche: arte, spettacolo, video, società, educazione, scienza, politica, comunicazione - e se tra gli obiettivi primari c’è il rilancio della grecità di ieri e di oggi, l’opzione architettonica delle due fondazioni sembra enfatizzare la rivalità mai sopita.

La Fondazione Onassis, denominata Stegi (“tetto”), che ha succursali a New York, Vaduz (capitale del Liechtenstein) e un’altra nella stessa Atene ha ingaggiato la pluridecorata parigina Architecture Studio per il suo compatto tetragono e all’apparenza claustrofobico parallelepipedo, al cui ingresso Saffo e il Centauro morente di Bourdelle ci ricordano che siamo comunque in Grecia (ma forse anche che greca, Cleopatra Sevastou, era la moglie dello scultore francese). Una struttura che al primo impatto può perfino imbarazzare per il grandioso, levigato e inespugnabile minimalismo. Ma è chiaro che l’opera, per dirla con Nietzsche, si manifesterà “negandosi”; che poi è una strategia del progettista per permettere al corpo architettonico di prendere forma e materializzarsi nella sua specifica identità in base alla distanza da cui lo si osserva.

Il “concept” di Stegi gioca insomma alla dissonanza criptica, puntando tutto sul suo “materiale” principe: la luce. E luce sia. Migliaia di lastre di purissimo marmo (da Thassos, che compete con Carrara in fatto di trasparenza) incapsulano il supporto di vetro dell’edificio con un continuum orizzontale stratificato che fa da filtro all’intensa luce attica opacizzandone le facciate; mentre da lontano, e ovviamente di notte, rivelano per trasparenza la scatola di luce del suo interno. Membrana vivente, Stegi si spoglia così della propria epidermide grazie al nostro sguardo diventato misura dinamica e in qualche modo elemento integrante dell’opera.


Il foyer. Alcune immagini della Fondazione Onassis - Stegi.

L’astrazione dell’esterno - perfetto gigantesco display per immagini e slogan luminosi che annunciano il palinsesto in corso - nel suo provocatorio carattere di contenitore fa da annuncio chiasmico a un interno dove ha via libera una sorta di “horror vacui” dalla virtuosistica sintassi costruttiva. E dove è ancora la trasparenza a fare da leitmotiv -ribadendo quella sindrome del diafano che imperversa nell’architettura e nell’urbanistica internazionale degli ultimi trent’anni - non senza indulgere su certa magniloquenza tecnologica. Si trattava in sostanza di riequilibrare e legittimare l’idea di vuoto e di tabù evocata da quelle facciate che scoraggerebbero il “free climbling” più spericolato.

Su una superficie utile di diciottomila metri quadrati a Stegi sono ospitati un teatro da novecento posti, un auditorium da duecento e un anfiteatro all’aperto ancora da duecento, biblioteca, sale per esposizioni e ristorante sul tetto, da dove la fatidica Acropoli e il golfo Saronico costituiscono i poli portentosi della sua veduta.

Qualche chilometro più a sud, la Fondazione Stavros Niarchos sembra rispondere all’ermetismo di Stegi con una invenzione di paradigmatica antinomia. La fluida articolazione della fabbrica si espande in pianta e in alzato inglobando lo spazio naturale (duecentodiecimila metri quadrati complessivi) tra terra, parco e acqua: quest’ultima, oggi percorsa da canoe e piccole vele, è citazione dei fiumi interrati Ilisso e Cefiso, la cui foce si trovava nel sito.


Un’altra veduta notturna.

Rarefazione della qualità e quantità del materiale costruttivo

All’interno di un ex “terrain vague” che è stato l’ippodromo di Atene, il centro diventa così struttura aperta, disponibile a una avventurosa fruizione e percorribilità visiva e fisica, dove ogni ipotesi di centralità è ignorata per consentire a spazio e volumi di svilupparsi secondo un “ductus” che è organico più che progettato, nel senso che l’umano e il sociale sono stati i presupposti concettuali di base dell’architetto. Renzo Piano ha realizzato al Falero, nel “demos” di Kallithea (“bella vista”), una delle sue più audaci e poetiche creazioni, là dove assistiamo a una rarefazione della qualità e quantità del materiale costruttivo, a una conquistata leggerezza che visivamente (e miracolosamente) smentisce il peso e lo spessore del materiale stesso. Levitante intuizione in bianco maggiore, l’ettaro del “canopy”, la tettoia che come una tenda araba svetta sui trenta metri di collina artificiale perché il luogo potesse riappropriarsi dell’antica definizione, ci fa capire che prima ancora che su un progetto d’architettura ci si è interrogati sulla situazione topografica, su quote, altezze e pendenze, fino a far salire dolcemente il livello del parco verso sud.


Un’altra veduta della Fondazione Stavros Niarchos.

Anche qui è la luce a decidere la sorte plastica dell’opera. Pezzo unico di ferro e cemento, nella sua purezza lineare il “canopy” crea ombra, che è la sua funzione ancestrale, mentre cattura le radiazioni solari attraverso un sistema di pannelli fotovoltaici. Sollevandosi da un aereo sistema di sottili nervature colonnari e tiranti, il «tappeto volante» - così lo chiama lo stesso Piano - diventa “segno” di una contingenza topica e insieme simbolica, vedetta tra la informe marea urbana e il gran respiro dell’Egeo e le isole del golfo Saronico. Indubbio il suo ruolo di raccordo dell’intero agglomerato costruttivo sottostante dove il vetro prevale ad accentuare l’effetto “sospeso” dell’intero complesso.


Una veduta notturna. Alcune immagini della Fondazione Stavros Niarchos.

Altro omaggio al “genius loci”, l’agorà di quaranta metri quadrati, lastricata di marmo Dionysos (quello delle cave del monte Penteli si è esaurito nel ripristino dello storico stadio olimpico Panathinaiko, il cosiddetto Kallimarmaron, finanziato dal magnate Evangelis Zappas tra il 1870 e il 1895), da dove si accede al teatro e alla biblioteca, promossi a sedi nazionali delle rispettive istituzioni. Il benefattore greco del XXI secolo non sfuggirebbe dunque al destino dell’eterno ritorno? Difficile non crederlo, se si pensa che, risalendo a molti secoli addietro, la minuscola Anafi, isoletta sperduta nell’Egeo, aveva contribuito a “ingrossare” la flotta di Temistocle alla battaglia di Salamina inviando due caicchi.


Una veduta dell’interno.


La Greek National Opera House.

IN BREVE:

Fondazione Onassis - Stegi
Atene
www.onassis.org
Fondazione Stavros Niarchos
Atene
www.snf.org

ART E DOSSIER N. 378
ART E DOSSIER N. 378
LUGLIO-AGOSTO 2020
In questo numero: EROS IN ARTE: I colori delle donne di Corbaz. Se il bordello ispira il pittore. LUOGHI DA VEDERE: Due fondazioni ad Atene. Palazzo ducale a Sassuolo. Le case a graticcio in Germania. IL SENSO E LA BELLEZZA: San Girolamo nel Rinascimento. Donatello e ilmovimento. I monili di Raffaello.Direttore: Philippe Daverio