Se per gestione e finalità in entrambi i casi la filosofia resta comune - si tratta di promuovere sostenere e diffondere cultura in tutte le sue casistiche: arte, spettacolo, video, società, educazione, scienza, politica, comunicazione - e se tra gli obiettivi primari c’è il rilancio della grecità di ieri e di oggi, l’opzione architettonica delle due fondazioni sembra enfatizzare la rivalità mai sopita.
La Fondazione Onassis, denominata Stegi (“tetto”), che ha succursali a New York, Vaduz (capitale del Liechtenstein) e un’altra nella stessa Atene ha ingaggiato la pluridecorata parigina Architecture Studio per il suo compatto tetragono e all’apparenza claustrofobico parallelepipedo, al cui ingresso Saffo e il Centauro morente di Bourdelle ci ricordano che siamo comunque in Grecia (ma forse anche che greca, Cleopatra Sevastou, era la moglie dello scultore francese). Una struttura che al primo impatto può perfino imbarazzare per il grandioso, levigato e inespugnabile minimalismo. Ma è chiaro che l’opera, per dirla con Nietzsche, si manifesterà “negandosi”; che poi è una strategia del progettista per permettere al corpo architettonico di prendere forma e materializzarsi nella sua specifica identità in base alla distanza da cui lo si osserva.
Il “concept” di Stegi gioca insomma alla dissonanza criptica, puntando tutto sul suo “materiale” principe: la luce. E luce sia. Migliaia di lastre di purissimo marmo (da Thassos, che compete con Carrara in fatto di trasparenza) incapsulano il supporto di vetro dell’edificio con un continuum orizzontale stratificato che fa da filtro all’intensa luce attica opacizzandone le facciate; mentre da lontano, e ovviamente di notte, rivelano per trasparenza la scatola di luce del suo interno. Membrana vivente, Stegi si spoglia così della propria epidermide grazie al nostro sguardo diventato misura dinamica e in qualche modo elemento integrante dell’opera.