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OGNI SPAZIOHA UNA SUA STORIA

di Daniele Liberanome

Nonostante l’indiscutibile talento, Rachel Whiteread è debole sul mercato.
Le sue opere, simbolo di memoria e dell’essenza più intima dei nostri ambienti, fanno poco rumore

Creatività e originalità non mancano, vicinanza ai centri pulsanti della scena artistica mondiale neppure, fama internazionale ne ha avuta fin dal debutto - eppure il suo mercato non decolla, anzi negli ultimi anni è in flessione. Rachel Whiteread (nata nel 1963) pare quindi un mistero, lei che fa della visione soggettiva degli spazi e delle cose un elemento focale e inconfondibile del suo lavoro.
Quel che conta in una casa - ci dice - non sono i muri, ma quel che ne facciamo, l’atmosfera che vi si respira, la vita che vi infondono le persone che la abitano, il modo in cui la valorizzano a seconda dei loro atteggiamenti. Insomma in una casa, come rispetto a ogni altro oggetto che utilizziamo, non bisogna focalizzarsi sull’involucro, ma su quello che accade al suo interno, al riparo dagli sguardi; la tendenza diffusa è invece di soffermarsi proprio sulla parte esteriore da preservare, eventualmente, oppure da distruggere buttando così al macero anche il suo contenuto, la parte essenziale.
Whiteread ha tradotto questa idea, peraltro molto efficace e molto ben diretta contro il mondo delle apparenze, con una poetica artistica di notevole impatto: crea dei calchi “al negativo” dei muri e degli oggetti, calchi del loro spazio interno, per mantenere in vita ciò che li ha “animati” e invitare a soffermarvisi. È appunto così che creò le sue prime opere, dopo aver completato gli studi nella Londra pulsante di fine anni Ottanta.


Untitled (Twenty-five Spaces) (1994).

Per cominciare, si guadagnò una prima personale alla ottima Carlisle Gallery, poi alcune buone commissioni, poi il boom nel 1993. Il suo House, una colata in calce struzzo degli interni (perfino delle tubature) di una villetta a schiera vittoriana abbandonata che stava per essere abbattuta e che era posta in un quartiere meridionale che stava per cambiare pelle, diventò una sorta di meta di pellegrinaggio.
Lasciò il segno anche dopo essere stata distrutta l’anno successivo, come voleva l’artista: a dimostrare che la morte dell’involucro ammazza anche il contenuto.
Proprio al 1994-1995 risale Untitled (Twenty-five Spaces), una serie di calchi in resina dello spazio sottostante venticinque poltrone tutte della medesima fattura, poste in una griglia a distanza uguale a formare un quadrangolo perfetto. Ma ciascuno di quei calchi è leggermente diverso, ha una sua storia, come ben avrebbe saputo qualsiasi bambino che si fosse infilato sotto a quelle poltrone. E per quest’opera, Whiteread si rifece proprio alle sue memorie infantili. Non solo, ma anche ai lavori dei minimalisti americani, come LeWitt o Judd e - perché no - ai suprematisti alla Malevič, che trovano il senso della loro arte proprio nella ripetizione delle stesse forme ma in modo sempre marginalmente diverso.
Presentata da Christie’s, ovviamente a Londra, il 16 ottobre 2014, Untitled (Twentyfive Spaces) venne venduta per la cifra record di 725mila euro. Simile nell’impostazione, e nel buon risultato in asta, è Untitled (Six Spaces), sei calchi degli spazi sottostanti a sedie tipiche di scuole o di chiese, di proporzioni simili ma diverse stavolta anche nel colore (si passa dall’indaco, al rosa, all’oro e oltre), a creare un effetto decorativo importante.
Realizzata nel 1994, dopo un solo passaggio di mano, l’opera venne offerta il 21 giugno 2006 da Sotheby’s di Londra e venduta per ben 400mila euro, nonostante la dimensione più contenuta rispetto al top lot.
Ma stiamo parlando di quasi quindici anni fa, e da allora i risultati sono stati ben diversi. Altra tipologia di lavoro di grande successo di Whiteread è quella che dette origine al memoriale per gli ebrei di Vienna uccisi durante l’Olocausto (Judenplatz Holocaust Memorial anche noto come Nameless Library). In realtà quella scultura si trova in una piazza che vide eccidi nel Medioevo, come a dare continuità a una tragedia non legata a un certo spazio e tempo.
L’opera è un grande “negativo” in pietra di una biblioteca, in cui vengono immortalati i libri, prima di essere bruciati come bruciate sono state le persone che avevano letto quegli stessi libri.
Un paio di anni dopo l’inaugurazione del memoriale, nel 2002, l’artista creò Untitled (Colours), un calco di buone dimensioni (115 x 90 cm) di una libreria in cui stavolta si distinguono i colori diversi dei bordi delle copertine, a significare ancor più come ciascun libro sia simbolo delle storie degli uomini e abbia una sua identità da non dimenticare. Passata per gallerie di grido come quella di Anthony d’Offay (Londra), venne poi venduta da Sotheby’s nella stessa città per 560mila euro. Eravamo però nel 2008 (1° luglio), anni e anni fa e da allora prezzi del genere per le opere della Whiteread non si vedono in giro, nonostante il loro alto valore artistico oltreché simbolico.
Untitled (Black Books) fa parte della stessa serie dei libri, anneriti, a ricordare i roghi o la perdita di memoria. La dimensione non è enorme ma è comunque 101 x 33 cm, quindi di tutto rispetto.
Christie’s di Londra l’ha offerta il 7 marzo dello scorso anno a Londra ricavandone appena più di 115mila euro, un abisso rispetto alle quotazioni del decennio precedente.
È andata ancora peggio da Phillips di Londra il 20 febbraio di quest’anno quando un’altra identica opera non è andata oltre i 90mila euro, sotto i colpi dell’incertezza generata dall’incipiente pandemia di coronavirus. Certo, le opere della Whiteread impressionano soprattutto quando di grandi dimensioni, che solo poche case possono ospitare, ma la flessione del suo mercato è pure conseguente a quella dei minimalisti americani alla Sol LeWitt, ai quali viene fin troppo legata. I collezionisti vengono ora attratti di più da opere di immediato impatto, ma può convenire invece seguire i valori della creazione artistica che alla Whiteread davvero non mancano, e acquistare proprio adesso una sua opera.


Untitled (Colours) (2002).

ART E DOSSIER N. 377
ART E DOSSIER N. 377
GIUGNO 2020