Nella fase romana, le mura vengono rinforzate: se ne conservano perciò ampi tratti, e al loro interno si conosce un po’ di più rispetto alla fase etrusca. Il Foro era nel sito dell’attuale piazza del Comune, e la struttura a volta in blocchi di peperino (forse risalente al II secolo a.C.) oggi inglobata nel municipio era parte di un ingresso monumentale oggi perduto. Al II secolo d.C. si data invece un piccolo impianto termale, i cui resti sono sotto il duomo.
A sud-est di questo impianto urbano, al di là della Cassia, sono i monumenti romani più importanti, “cuore” del parco di cui si diceva all’inizio. Protagonista, anche qui, è un banco tufaceo, separato però in due parti da un ampio avvallamento. Nella parte più vicina alla città, nota come collina Savorelli, sono ricavati un anfiteatro e un edificio a tre navate, impiegato prima come mitreo poi come chiesa; nella parte più lontana si conserva una bella necropoli rupestre.
L’anfiteatro, databile fra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., è successivo a quello celeberrimo di Pompei (80 circa a.C.), ma più antico del Colosseo inaugurato da Tito nell’80 d.C. e completato dal successore Domiziano. L’edificio non usa quasi altri materiali se non la roccia stessa, scavata come se fosse una cava. È una procedura usata solo in cinque altri anfiteatri (Siracusa, Cagliari, Antiochia, Leptis Magna, Sabratha) fra i tanti che si conoscono (centotrentatre in Italia, duecentocinquantadue nelle province dell’impero).
Non c’è, quindi, una struttura esterna ad arcate
come nei casi “normali”, ma solo, intorno all’arena dove si svolgevano i giochi, la cavea (le gradinate per gli spettatori) dall’andamento ellittico, in gran parte conservata, con due archi di ingresso alle due estremità dell’asse maggiore. Una struttura di raccordo fra l’arena e la parte bassa della cavea è costituita da un ambulacro anulare (provvisto peraltro di dieci porte) entro il quale gli inservienti potevano muoversi durante i combattimenti fra gladiatori, o durante le lotte fra gladiatori e belve, senza troppi rischi. L’edificio, molto semplice, misurava 49 x 40 m, i posti erano circa novemila. Si dimentica quasi che qui si svolgevano spettacoli crudeli: il caldo colore del tufo e, insieme, il verde dell’arena e della vegetazione circostante creano un colpo d’occhio piacevole e suggestivo.Prima di salire sulla collina medesima, dove troveremo importanti testimonianze di epoche più recenti, muoviamoci verso sinistra dall’ingresso principale dell’anfiteatro in direzione della seconda parte del banco di tufo e, sulle sue pareti prospicienti la Cassia, troviamo la necropoli romana. Si conservano sessantaquattro tombe rupestri, allineate a ritmo serrato su più livelli nell’intento di sfruttare al massimo lo spazio. Anche qui il colore rosato del tufo contribuisce, specialmente alla luce delle prime ore del mattino, a rendere gradevole la scena: le tombe a camera, predisposte sia per l’inumazione sia per l’incinerazione, alternano negli interni letti funebri e serie di nicchie. Le facciate sono molto semplificate, anche se le camere funerarie sono spesso precedute da arconi, pure usati per ospitare sepolture: solo una, la n. 64, ha una decorazione architettonica un po’ più complessa, con modanature a dentelli sopra l’ingresso.
Per passare a una fase più recente bisogna tornare all’anfiteatro e dirigerci verso destra, verso un monumento davvero singolare: la chiesa (databile al XIII-XIV secolo) della Madonna del Parto, anch’essa scavata nella roccia, che comprende un piccolo vestibolo e un ambiente absidato lungo e stretto, a tre navate e con banconi laterali. Prima di diventare una chiesa, il luogo era stato usato nel III-IV secolo come mitreo: si dice, pur fra molti dubbi, che venga da qui, e più precisamente dall’abside, un rilievo con Mitra che uccide il toro, reimpiegato in un casale al km 60 della Cassia.