Luoghi da conoscere
Sutri

NEL VERDESULLA ROCCIA

Arroccato su un imponente rilievo di tufo, Sutri, lungo la via Francigena, è un antico borgo del Viterbese appartenuto in origine agli etruschi, conquistato poi dai romani nel IV secolo a.C.
Tra i suoi più prestigiosi reperti ci sono l’anfiteatro, la necropoli, la chiesa della Madonna del Parto, ex mitreo, con affreschi ascrivibili a epoche diverse.

Sergio Rinaldi Tufi

Sutri, cittadina di seimilasettecento abitanti su un pianoro della Tuscia Viterbese, cinquantaquattro chilometri a nord di Roma sulla antica via consolare Cassia (“Francigena” per i tanti pellegrini che nel Medioevo dal Nord scendevano a Roma), conosce una rinnovata notorietà da quando (giugno 2018) ne è diventato sindaco Vittorio Sgarbi. Ospita mostre importanti il bel Museo di palazzo Doebbing, rifacimento neogotico del trecentesco Palazzo vescovile. Joseph Bernard Doebbing era un vescovo tedesco, a cui nel 1900 era stata affidata la diocesi di Sutri e Nepi; un nuovo restauro fu effettuato negli anni Ottanta del secolo scorso. Le mostre sembrano orientare lo sguardo verso il moderno e il contemporaneo, ma non bisogna dimenticare che siamo, essenzialmente, in una città antica: il Palazzo della comunità di Sutri ospita al primo piano e al piano interrato il Museo del Patrimonium, con reperti provenienti dalla diocesi di Civita Castellana e soprattutto da Sutri stessa, come l’Efebo bronzeo, raffinata statuina (alta circa un metro) databile al I secolo d.C.
«Parco dell’antichissima Città di Sutri»: così in effetti si chiama l’area naturale protetta (sette ettari) istituita dalla Regione Lazio nel 1988. Alcuni ritrovamenti, sia pur sporadici, attestano una frequentazione già fra il X e il VII secolo a.C.; ma testimonianze più consistenti (VI-V secolo a.C.) si devono agli etruschi, cui appartenevano queste terre prima della romanizzazione.
Si pensi alle “tagliate” che consentivano alle strade di “intaccare” alture e banchi tufacei, e soprattutto alle poderose mura, in blocchi di tufo squadrati, che racchiudono la sommità del pianoro, su cui però non si hanno altri resti rilevanti attribuibili a questa fase. Con la conquista romana di Veio all’inizio del IV secolo a.C., decisiva per la penetrazione in Etruria, Sutrium, insieme con un’altra “antichissima città” non lontana, Nepet (Nepi), entra nell’orbita dell’Urbe. Nel 389 a.C., quando i tarquiniesi la assediano, accorre Furio Camillo a cacciarli; nel 383 a.C.
Sutri diviene colonia latina; nel corso del III secolo a.C. è teatro di perduranti scontri, che si concludono con la conquista romana della stessa Tarquinia e di Falerii (Civita Castellana); nel II e nel I secolo a.C. si porta avanti l’organizzazione capillare del territorio; nella lotta fra Ottaviano e Antonio, la città parteggia per quest’ultimo, ma dopo la vittoria del primo (che poi diverrà Augusto) non subisce (a differenza di altre città) punizioni troppo dure, ma in pratica solo la “ricolonizzazione” (41 a.C.) con il nome di “Colonia Coniuncta Iulia Sutrina”: nodo stradale importante, la città gode di un certo benessere. 

L’anfiteatro (fine del I secolo a.C. - inizio del I secolo d.C.).

Nella fase romana, le mura vengono rinforzate: se ne conservano perciò ampi tratti, e al loro interno si conosce un po’ di più rispetto alla fase etrusca. Il Foro era nel sito dell’attuale piazza del Comune, e la struttura a volta in blocchi di peperino (forse risalente al II secolo a.C.) oggi inglobata nel municipio era parte di un ingresso monumentale oggi perduto. Al II secolo d.C. si data invece un piccolo impianto termale, i cui resti sono sotto il duomo.
A sud-est di questo impianto urbano, al di là della Cassia, sono i monumenti romani più importanti, “cuore” del parco di cui si diceva all’inizio. Protagonista, anche qui, è un banco tufaceo, separato però in due parti da un ampio avvallamento. Nella parte più vicina alla città, nota come collina Savorelli, sono ricavati un anfiteatro e un edificio a tre navate, impiegato prima come mitreo poi come chiesa; nella parte più lontana si conserva una bella necropoli rupestre.
L’anfiteatro, databile fra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., è successivo a quello celeberrimo di Pompei (80 circa a.C.), ma più antico del Colosseo inaugurato da Tito nell’80 d.C. e completato dal successore Domiziano. L’edificio non usa quasi altri materiali se non la roccia stessa, scavata come se fosse una cava. È una procedura usata solo in cinque altri anfiteatri (Siracusa, Cagliari, Antiochia, Leptis Magna, Sabratha) fra i tanti che si conoscono (centotrentatre in Italia, duecentocinquantadue nelle province dell’impero).
Non c’è, quindi, una struttura esterna ad arcate come nei casi “normali”, ma solo, intorno all’arena dove si svolgevano i giochi, la cavea (le gradinate per gli spettatori) dall’andamento ellittico, in gran parte conservata, con due archi di ingresso alle due estremità dell’asse maggiore. Una struttura di raccordo fra l’arena e la parte bassa della cavea è costituita da un ambulacro anulare (provvisto peraltro di dieci porte) entro il quale gli inservienti potevano muoversi durante i combattimenti fra gladiatori, o durante le lotte fra gladiatori e belve, senza troppi rischi. L’edificio, molto semplice, misurava 49 x 40 m, i posti erano circa novemila. Si dimentica quasi che qui si svolgevano spettacoli crudeli: il caldo colore del tufo e, insieme, il verde dell’arena e della vegetazione circostante creano un colpo d’occhio piacevole e suggestivo.
Prima di salire sulla collina medesima, dove troveremo importanti testimonianze di epoche più recenti, muoviamoci verso sinistra dall’ingresso principale dell’anfiteatro in direzione della seconda parte del banco di tufo e, sulle sue pareti prospicienti la Cassia, troviamo la necropoli romana. Si conservano sessantaquattro tombe rupestri, allineate a ritmo serrato su più livelli nell’intento di sfruttare al massimo lo spazio. Anche qui il colore rosato del tufo contribuisce, specialmente alla luce delle prime ore del mattino, a rendere gradevole la scena: le tombe a camera, predisposte sia per l’inumazione sia per l’incinerazione, alternano negli interni letti funebri e serie di nicchie. Le facciate sono molto semplificate, anche se le camere funerarie sono spesso precedute da arconi, pure usati per ospitare sepolture: solo una, la n. 64, ha una decorazione architettonica un po’ più complessa, con modanature a dentelli sopra l’ingresso.
Per passare a una fase più recente bisogna tornare all’anfiteatro e dirigerci verso destra, verso un monumento davvero singolare: la chiesa (databile al XIII-XIV secolo) della Madonna del Parto, anch’essa scavata nella roccia, che comprende un piccolo vestibolo e un ambiente absidato lungo e stretto, a tre navate e con banconi laterali. Prima di diventare una chiesa, il luogo era stato usato nel III-IV secolo come mitreo: si dice, pur fra molti dubbi, che venga da qui, e più precisamente dall’abside, un rilievo con Mitra che uccide il toro, reimpiegato in un casale al km 60 della Cassia.


Particolare dell’anfiteatro con l’ingresso sud-occidentale nell’arena e resti dell’ambulacro anulare.

Si dimentica quasi che qui si svolgevano spettacoli crudeli: il caldo colore del tufo e il verde dell’arena creano un colpo d’occhio piacevole e suggestivo


La necropoli romana con sessantaquattro tombe rupestri (I-III secolo d.C.).


L’architrave della tomba n. 64.

Tra le pitture spiccano quelle del vestibolo


Il luogo è riccamente decorato da pitture. Quella dell’abside raffigura una Natività da cui la chiesa deriva il suo nome, ma le più notevoli sono quelle del vestibolo: Madonna e santi a sinistra, San Cristoforo a destra e, al centro, scene relative al culto di san Michele al Gargano. Sutri, come s’è detto, era sul percorso della Francigena: non è da escludere che vi fosse un collegamento anche con un altro veneratissimo itinerario, appunto quello micaelico-garganico. La parte centrale, che contiene precise allusioni alla vita e ai miracoli del santo, si impone all’attenzione soprattutto per la raffigurazione, priva di senso prospettico ma efficacissima nella sua chiarezza, di un pellegrinaggio reso come una grande processione di massa.
Il cristianesimo, del resto, si era qui consolidato probabilmente alla fine del III secolo. Già nel IV Sutri diviene sede vescovile (nel XIV secolo sarà unita a quella di Nepi). L’episodio più noto è quello del 728, quando il re longobardo Liutprando, che si era impadronito di ampie aree del Lazio nella sua lotta contro i bizantini, donò Sutri (e, poco più tardi, Bomarzo, Orte e Amelia) al pontefice Gregorio II: forse, secondo una semplificazione abbastanza ripetuta (ma certamente più attendibile rispetto alla leggenda di una più antica donazione da parte di Costantino), è il primo nucleo dello Stato della Chiesa.
Un altro episodio, stavolta sicuramente leggendario, è il passaggio di Carlo Magno nell’800 (anno dell’incoronazione a Roma): cercava il nipote e futuro paladino Orlando, figlio di una sorella ripudiata, Berta, che dopo lunghe peregrinazioni lo aveva partorito in una delle grotte della zona.
L’antica cinta muraria etrusca, modificata e arricchita di porte monumentali, consentiva di potenziare il ruolo di punto di controllo sui percorsi fra Roma e il Nord; qui inoltre si rifugiavano i papi in caso di pericolo o si svolgevano concili, nonché incontri fra pontefici e imperatori. La testimonianza più importante di questi secoli è il duomo o concattedrale di Santa Maria Assunta, cui era annesso il Palazzo vescovile poi divenuto, come si diceva all’inizio, palazzo Doebbing.
Costruita in forme romaniche e inaugurata da papa Innocenzo III nel 1207, la chiesa sorgeva su resti di edifici preesistenti, e soprattutto su una cripta longobarda, ben conservata: tre navate, pareti che si incurvano in numerose absidi o nicchie (cripta confrontata con quella di Spira, celebre cattedrale tedesca). Il duomo era caratterizzato da sei file di colonne provenienti da vari edifici; mentre il campanile è rimasto quello originale, la chiesa fu varie volte rifatta fra Seicento e Ottocento, conservando però il bel pavimento cosmatesco. Altra chiesa notevole è quella di San Francesco: si diceva fondata dallo stesso santo, che però l’aveva dedicata a sant’Angelo; l’originario impianto romanico fu modificato nel Rinascimento.
Al di là degli edifici sacri, scendendo nei secoli, troviamo sulla già ricordata collina Savorelli (dal nome di una nobile famiglia di Forlì) l’omonima, elegante villa settecentesca (restaurata dalla famiglia Staderini nel secondo dopoguerra) che comprende anche una bella chiesa e un giardino all’italiana che si affaccia sull’anfiteatro. Non lontano è un castello in origine trecentesco, ma più volte rifatto, detto (guarda guarda…) “di Carlo Magno”, senza troppa attenzione per le cronologie.

L’interno della chiesa della Madonna del Parto (XIII-XIV secolo). Il luogo era stato usato nel III-IV secolo come mitreo.


Affrescho della chiesa della Madonna del Parto (XIII-XIV secolo).
Madonna e santi, a sinistra, San Cristoforo, a destra e, scene relative al culto di san Michele al Gargano, al centro.


Affrescho della chiesa della Madonna del Parto (XIII-XIV secolo).
Teoria dei pellegrini.

L’interno secentesco della concattedrale di Santa Maria Assunta, che originariamente era stata costruita in forme romaniche e inaugurata da papa Innocenzo III nel 1207.

ART E DOSSIER N. 377
ART E DOSSIER N. 377
GIUGNO 2020