Grandi mostre. 2
Raffaello e la Domus aurea

L’IMMAGINAZIONEAL POTERE

Alla fine degli anni Settanta del Quattrocento, i pittori scoprono e studiano le decorazioni parietali nelle rovine dimenticate del palazzo romano di Nerone sul colle Oppio.
Qualche decennio più tardi sarà Raffaello a elaborare una forma moderna delle “grottesche”, con soluzioni che incontreranno un’enorme fortuna anche nei secoli successivi.

Vincenzo Farinella

La ricorrenza del cinquecentenario della morte di Raffaello ha suggerito di progettare una mostra (Raffaello e la Domus aurea. L’ invenzione delle grottesche) destinata a raccontare la storia della riscoperta della pittura antica sepolta nelle “grotte” dell’originaria Domus aurea: una storia secolare, che si apre alla fine degli anni Settanta del Quattrocento e che ha visto nell’Urbinate uno dei suoi grandi protagonisti. Si tratta di una mostra che avrebbe dovuto aprirsi il 6 aprile all’interno di alcune sale della reggia di Nerone: la Sala ottagona, con i cinque ambienti radiali che da essa si dipartono, e le due sale (119 e 129) dove ancora, sulle volte, si possono ammirare le originarie decorazioni ad affresco e a stucco realizzate dai pittori romani, verosimilmente sotto la guida di quel grande ed eccentrico maestro di nome Fabullo di cui parla Plinio il Vecchio. Ovviamente l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha imposto di rimandare la data di inaugurazione: ma, nelle speranze di tutti, si tratta solo di un rinvio temporaneo, con l’augurio di poter riprendere presto, auspicabilmente prima della scadenza dell’anno raffaellesco, le fila di questo progetto espositivo.
Si tratta di una storia che comincia poco prima del 1480, quando alcuni pittori (Pintoricchio per primo, e poi Filippino Lippi, Signorelli, Domenico Ghirlandaio, Perugino, Aspertini, Macrino d’Alba, Gaudenzio Ferrari, Sodoma, Morto da Feltre e tanti altri) si calano nelle cavità del colle Oppio per recarsi, a lume di torce, ad ammirare le decorazioni pittoriche delle antiche abitazioni romane: pensavano di trovarsi di fronte agli affreschi delle Terme di Tito e invece stavano scoprendo, senza ancora saperlo, le rovine dimenticate dell’immenso palazzo imperiale che Nerone, dopo il disastroso incendio del 64 d.C., aveva voluto far costruire nel cuore di Roma.


Raffaello (e aiuti), Loggetta del cardinal Bibbiena, (1516-1517 circa), Città del Vaticano, Palazzo apostolico.

«La nostra minuscola guida...
ci fa intravedere rospi, ranocchi,
barbagianni e nottole»


Nel 1496 appariva a stampa per la prima volta il termine “grottesche”, coniato probabilmente dagli stessi artisti per definire i diversi sistemi decorativi della pittura antica riscoperti nelle grotte romane; il termine compare nelle Antiquarie prospetiche Romane composte per prospectivo Melanese depictoreil bizzarro poemetto stampato a Roma e dedicato a Leonardo da Vinci da un anonimo artista lombardo che aveva compiuto di persona questa avventurosa gita archeologica: «Strisciamo sotto terra, sul ventre, con pane, prosciutto, frutta e vino, per esser più stravaganti, fino alle grottesche. La nostra minuscola guida è mastro Pinzino, che ci fa abbottare [gonfiare] il viso e gli occhi, venendo ciascuno a sembrare uno spazzacamino. E ci fa intravedere rospi, ranocchi, civette, barbagianni e nottole, mentre ci rompiamo la schiena e le ginocchia » (per citare la parafrasi moderna dei contorti versi quattrocenteschi pubblicata da Giovanni Agosti e Dante Isella). La prima testimonianza visiva di queste spedizioni sotterranee compare in un dipinto di Herman Posthumus del 1536, Tempus edax rerum (Il Tempo divoratore di ogni cosa), dove in un particolare si scorgono due antiquari che si stanno calando con le torce accese nelle grotte romane per ammirare le antiche decorazioni pittoriche.


Domus aurea (I secolo d.C.), Roma, particolare della decorazione della stanza di Ettore e Andromaca.

Fu però Raffaello, nel secondo decennio del Cinquecento, insieme al fidato collaboratore Giovanni da Udine, a comprendere a fondo la logica di questi sistemi decorativi, riproponendoli organicamente, grazie alle sue profonde competenze antiquarie, per la prima volta nella Stufetta del cardinal Bibbiena (1516) e poi, sempre nell’appartamento del Bibbiena entro il Palazzo apostolico, nella Loggetta (circa 1516-1517), vera e propria prova generale per il grande ciclo di stucchi e affreschi all’antica realizzato nelle Logge vaticane (1517-1519).
A partire dalla fine del secondo decennio del Cinquecento la decorazione a grottesca (detta anche “alla raffaellesca”) incontrerà per tutto il secolo, e anche oltre, un’enorme fortuna, dapprima in altri cicli romani (come, ad esempio, nella Volta dorata realizzata da Baldassare Peruzzi nel Palazzo della cancelleria o a villa Madama, a opera dei collaboratori di Raffaello), estendendosi poi a macchia d’olio in tutta Italia (e ben presto anche fuori d’Italia). Un altro momento di rinnovata fortuna delle grottesche si colloca alla fine del Sette cento, quando gli artisti, incitati dal nuovo gusto neoclassico e dalle sensazionali scoperte effettuate nelle città vesuviane, tornano a studiare con passione gli affreschi neroniani e le loro riproposizioni moderne nei cicli decorativi ideati dall’Urbinate e dalla sua scuola.


Herman Posthumus, Tempus edax rerum (1536), particolare con la scoperta delle grottesche, Vaduz, Princely Collections – Liechtenstein Collections.

Per tutto il Cinquecento e oltre la decorazione a grottesca incontrerà un’enorme fortuna

Raffaello (e aiuti), Stufetta del cardinal Bibbiena (1516), Città del Vaticano, Palazzo apostolico.


Giulio Romano e Giovanni da Udine (su progetti di Raffaello), Loggia verso il giardino (1520-1525 circa), particolare della decorazione, Roma, villa Madama.

Nel frattempo, negli scavi di ambienti sotterranei situati nella medesima zona archeologica della Domus aurea, nell’area già occupata dagli Orti di Mecenate (che erano stati inglobati nel perimetro del palazzo neroniano), era stato rinvenuto uno dei capolavori “assoluti” dell’arte classica: il Laocoonte, scoperto nel gennaio del 1506 e ben presto acquistato da papa Giulio II, trasportato in Vaticano e collocato in una posizione centrale nell’“ antiquario delle statue” allestito da Bramante in Belvedere. La scoperta di questo sensazionale gruppo scultoreo ellenistico, destinato a diventare una delle principali pietre di paragone dell’intera tradizione artistica occidentale, avviene alla presenza di Michelangelo e Giuliano da Sangallo, capace di riconoscere nella patetica figura antica il sacerdote troiano cantato da Virgilio nell’Eneide e nella virtuosistica scultura quel capolavoro, opera di tre artisti di Rodi, esaltato nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.
La secolare fortuna di questo genere pittorico, in particolare nell’interpretazione fornita da Raffaello e dai suoi seguaci, può essere documentata anche sul lunghissimo periodo: alcuni dei massimi artisti novecenteschi, come per esempio Paul Klee, hanno infatti subìto il fascino delle grottesche antiche e rinascimentali.
Saranno i principali esponenti del surrealismo (e tra questi in particolare Salvador Dalí, Max Ernst e Joan Miró), a causa della natura fantastica, irrazionale, sostanzialmente irrealistica, di questo sistema decorativo, a essere sedotti dall’“ arte magica” delle grottesche, riproponendo ancora una volta, in chiave onirica e freudiana, quelle invenzioni capaci di scandalizzare il gusto dei classicisti e la falsa coscienza dei moralisti.


Vestigia delle Terme di Tito e loro interne pitture, Parte della volta della camera 23 (1776), Parigi, Musée du Louvre, Département des arts graphiques;


Georges Chedanne, Il Laocoonte nella Domus aurea (circa 1910), Rouen, Musée des Beaux-Arts.

Raffaello e la Domus aurea. L’invenzione delle grottesche

a cura di Vincenzo Farinella, Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio
Roma, Domus aurea
Nel momento in cui andiamo in stampa, la mostra non ha
ancora le date di svolgimento a causa dell’emergenza coronavirus
catalogo Electa
www.raffaellodomusaurea.it

ART E DOSSIER N. 377
ART E DOSSIER N. 377
GIUGNO 2020