Nel frattempo, negli scavi di ambienti sotterranei situati nella medesima zona archeologica della Domus aurea, nell’area già occupata dagli Orti di Mecenate (che erano stati inglobati nel perimetro del palazzo neroniano), era stato rinvenuto uno dei capolavori “assoluti” dell’arte classica: il Laocoonte, scoperto nel gennaio del 1506 e ben presto acquistato da papa Giulio II, trasportato in Vaticano e collocato in una posizione centrale nell’“ antiquario delle statue” allestito da Bramante in Belvedere. La scoperta di questo sensazionale gruppo scultoreo ellenistico, destinato a diventare una delle principali pietre di paragone dell’intera tradizione artistica occidentale, avviene alla presenza di Michelangelo e Giuliano da Sangallo, capace di riconoscere nella patetica figura antica il sacerdote troiano cantato da Virgilio nell’Eneide e nella virtuosistica scultura quel capolavoro, opera di tre artisti di Rodi, esaltato nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.
La secolare fortuna di questo genere pittorico, in particolare nell’interpretazione fornita da Raffaello e dai suoi seguaci, può essere documentata anche sul lunghissimo periodo: alcuni dei massimi artisti novecenteschi, come per esempio Paul Klee, hanno infatti subìto il fascino delle grottesche antiche e rinascimentali.
Saranno i principali esponenti del surrealismo (e tra questi in particolare Salvador Dalí, Max Ernst e Joan Miró), a causa della natura fantastica, irrazionale, sostanzialmente irrealistica, di questo sistema decorativo, a essere sedotti dall’“ arte magica” delle grottesche, riproponendo ancora una volta, in chiave onirica e freudiana, quelle invenzioni capaci di scandalizzare il gusto dei classicisti e la falsa coscienza dei moralisti.