Blow up 


LANGE

di Giovanna Ferri

Stati Uniti: dopo il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929 il paese si trova a fare i conti con una crisi senza precedenti, che prosegue nel decennio successivo con conseguenze devastanti. Oltre alla perdita di denaro da parte degli investitori, molte banche falliscono privando dei depositi i loro clienti. Gli istituti finanziari sopravvissuti alla rovina riducono drasticamente il credito alle imprese costrette così a tirare avanti tra mille difficoltà o a chiudere i battenti. Da qui licenziamenti di massa, disoccupazione dilagante, abbassamento dei salari e contrazione della domanda di beni e servizi. Una situazione drammatica che ebbe gravi ripercussioni su scala mondiale.
Proprio negli anni della Grande depressione, la produzione di Dorothea Lange (1895-1965), fino ad allora concentrata sui ritratti, cambia direzione. Un giorno, nel 1933, la fotografa americana, affacciandosi dalla finestra del suo studio di San Francisco, si sofferma a guardare la gente per strada. Viene attratta da un giovane operaio, probabilmente disoccupato, che dimostra incertezza su dove andare e su cosa fare. L’unico dato inequivocabile è rappresentato dall’essere assorto nei suoi pensieri e nel suo mondo: testa china, spalle al muro e vicino a lui alcuni arnesi da lavoro.
Da quel momento Lange decide di rivolgere il suo interesse a quello che succede fuori del suo ambiente protetto. In quello stesso giorno esce e scatta la prima di una lunga serie di immagini caratterizzate da inquadrature essenziali, da strutture compositive semplici ma dotate di una profonda capacità narrativa. Percorrendo la via dove si trova il suo laboratorio arriva nel centro della zona portuale: un gruppo di persone aspetta di ricevere gratuitamente cibo, distribuito da una donna chiamata “l’angelo bianco”. Il suo obiettivo si posa su un anziano signore, stretto nel suo cappotto logoro come il cappello, calato sugli occhi, che copre gran parte del viso. Appoggiato a una transenna, di spalle agli altri, l’uomo, che custodice tra le braccia un contenitore di latta, è raccolto nella sua silenziosa attesa.
Una testimonianza di concreta disperazione ben adatta a esprimere il senso di fragilità causato dalla destabilizzazione economica dell’epoca.
Quel desiderio di entrare nella realtà delle esperienze individuali, sempre con il dovuto rispetto e sensibilità, si consolida in occasione dell’incontro con Paul Schuster Taylor, economista agrario e secondo marito dell’artista. Lui le propone di documentare quanto accade nelle campagne della California dove i contadini messicani sono sostituiti dagli agricoltori bianchi del Midwest in cerca di lavoro perché costretti a lasciare le loro terre a causa di coltivazioni intensive e di altri disastri ambientali e trasformazioni sociali.


Le fotografie qui riprodotte sono conservate al MoMA - Museum of Modern Art di New York.

Angelo bianco: in fila per il pane, San Francisco (1933).


Raccoglitore migrante di cotone, Eloy, Arizona (1940).

In quell’occasione impara da Taylor a prendere appunti e a scrivere le didascalie così da contestualizzare con precisione le scene fotografate.
Esempio del loro proficuo sodalizio professionale American Exodus (1939), progetto editoriale concepito per raccontare i costi della Depressione nell’Ovest degli Stati Uniti.
L’importanza delle parole unite alle immagini la ritroviamo ampiamente descritta nella mostra del MoMA - Museum of Modern Art, Dorothea Lange: Words & Picturessospesa per l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus ma fruibile online da fine aprile (quando stiamo andando in stampa), nell’ambito del programma Virtual Views (www.moma.org). A cura di Sarah Meister, River Bullock, Beaumont & Nancy Newhall, con la collaborazione di Madeline Weisburg, il percorso espositivo comprende - oltre a lettere, materiali di archivio e pubblicazioni storiche - circa cento scatti conservati nel museo newyorchese.
Di questa raccolta fanno parte sia Angelo bianco: in fila per il pane, San Francisco (1933), di cui abbiamo parlato sopra, sia la celebre Madre migrante, Nipomo, California (marzo 1936), realizzata in un campo che ospitava tantissimi braccianti impiegati nella raccolta di piselli. Qui il focus, sapientemente calibrato in un’armonica distribuzione di luci e ombre, è all’interno di un campo visivo ben circoscritto occupato dalla presenza della donna e dei suoi figli. Nessun elemento ulteriore distrae l’osservatore dalla potenza espressiva di questa “mater” poco più che trentenne ma con un volto già segnato dalla sofferenza. Una sofferenza simbolo di un’intera nazione, che la rende consapevole ma che non le impedisce di mantenere uno sguardo lucido, trasparente e proiettato verso un domani dove vive la speranza di una possibile rinascita.


Madre migrante, Nipomo, California (marzo 1936);

ART E DOSSIER N. 377
ART E DOSSIER N. 377
GIUGNO 2020