Alfiere del mercato dell’arte italiana del dopoguerra, Carla Accardi (1924-2014) sta vivendo un buon momento, seppur non di eccezionale popolarità fra i collezionisti. Il suo nome è legato all’astrattismo, al gruppo Forma 1 di Roma che creò con Consagra, Dorazio, Attardi, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato a fine anni Quaranta, ma la sua ricerca di nuovi modi espressivi non si fermò mai e la portò su un percorso autonomo e personale. Le sue opere trovano così spazio nei grandi musei italiani dedicati all’arte nostrana del dopoguerra, a partire dal Museo del Novecento di Milano. Nei primi anni Cinquanta, mentre in Europa iniziavano a giungere echi dei lavori di Jackson Pollock e degli espressionisti astratti - per i quali il colore era elemento fondamentale della loro creatività -, la Accardi iniziò a utilizzare esclusivamente il bianco e il nero, in modo da creare, di getto, opere in cui l’insieme dei segni dava vita a strutture complesse e imprevedibili, spesso di grande impatto anche estetico. È il caso di Integrazione ovale del 1958 in cui, sullo sfondo monocromo nero, si muove qualcosa che ricorda un cervello umano o forse un bouquet di fiori bianchi e comunque una forma che pare familiare e solletica in modo diverso e personalissimo le associazioni visive e mentali di chiunque la osservi. Integrazione ovale, dopo essere rimasta a lungo in abitazioni private e gallerie milanesi, è stata offerta da Dorotheum di Vienna, casa d’asta con forte presenza sul mercato lombardo. Era il 27 novembre 2018 e il martelletto del banditore scese solo quando l’offerta finale giunse a 295mila euro, cifra record per l’artista. In quella occasione la stima iniziale venne superata, ma non in modo eclatante perché è noto che le opere della seconda metà degli anni Cinquanta sono fra le più richieste della Accardi. Lo stesso accadeva anche nel 2008, quando l’11 marzo Finarte di Milano riuscì ad aggiudicare Grande integrazione del 1958 per quasi 200mila euro, facendo leva sul senso di movimento delle forme bianche sul fondo scuro, il cui ritmo, quasi come una sorta di danza, non può lasciare indifferenti.
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ACCARDI,
LA DANZA DEI SEGNI
di Daniele Liberanome
Non stupisce quindi se, anche fra i disegni, i più cari sono datati nello stesso periodo. Un affascinante Oltre la struttura (1959), con i segni a tempera che volteggiano sul cartoncino, è stato pagato oltre 33mila euro il 26 novembre 2008 da Sotheby’s di Milano e nessun altro lavoro su carta è stato quotato di più in asta. Altre opere della Accardi, popolari fra i collezionisti, risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta e sono state prodotte con il sicofoil, un foglio di plastica (acetato di etile per la precisione) che l’artista increspava e deformava per poi applicarlo sulla tela. È questo il mezzo originale scelto per lavorare sul rapporto fra pittura e scultura, per superare la contrapposizione fra piano e profondità e affiancarsi quindi ai percorsi seguiti da Fontana, Manzoni ma anche da Bonalumi e Castellani, solo per citare i più noti. Biancobianco del 1966 rientra in questo gruppo di opere e colpisce in particolare per l’armonia delle forme che richiama un’arte rigorosa del passato, perfino l’arte antica della Sicilia in cui l’artista era nata. Dorotheum la offrì il 1° giugno 2016 nella sua sede centrale di Vienna, e passò di mano per 234.800 euro, ben al di sopra delle aspettative. Resta a tutt’oggi il sicofoil più caro venduto in asta a dimostrazione che il mercato della Accardi è buono, ma non eccezionale.
Risultati interessanti li raggiungevano opere del genere anche in passato, come dimostra Verderossogiallonero che Christie’s presentò a Londra il 16 ottobre 2014 nell’ambito dell’Italian sale, dove di solito la Accardi non manca. In quel sicofoil, come in molti altri, l’artista recuperò i colori sgargianti della sua infanzia, abbandonando il solo bianco e nero degli anni precedenti. Per acquistarla, ci vollero 213mila euro, cifra di tutto rispetto. Ma da allora è passato del tempo.
ART E DOSSIER N. 376
MAGGIO 2020