La pagina nera


L’EDIFICIO
ABBANDONATO
È UN DISASTRO
GIÀ ANNUNCIATO

Nel centro storico di Salerno sono almeno quarant’anni che nessuno si preoccupa dello stato in cui versa palazzo San Massimo, ormai fatiscente: complice l’incuria. Dopo diversi passaggi di mano, destinazioni d’uso e rimaneggiamenti, negli anni Ottanta del secolo scorso viene ceduto al Comune. È l’inizio della fine. Da quel momento vani sono i tentativi per “salvarlo”. Qualcuno, forse, ci guadagnerà a vederlo crollare? Il conto alla rovescia è già cominciato.

di Fabio Isman

Ènel centro storico della città: nato come chiesa ai tempi dei longobardi, di cui era principe Guaiferio (861-888), che vi è sepolto con i discendenti; lui, combatteva le spinte indipendentiste che volevano separare Capua da Salerno, dove siamo. Poi, nei secoli, l’edificio si è accresciuto; e ha logicamente mutato volto. «Oggi, possiamo leggerne quattro distinte fasi costruttive: quella della fondazione, quelle del Sette e Novecento, e l’ultima, che è verso il 1940», dice Raffaele Bruno Pinto, architetto, Università Federico II di Napoli. Quasi privo di una facciata, dall’esterno sembra solo un immobile imponente, che si eleva sulle altre costruzioni dell’abitato; e frutto di successive sovrapposizioni, composito. Se ne apprezzano, per esempio, le eleganti modanature settecentesche di una sfilata di sette finestre, alcune dal balconcino in ferro battuto, da cui si vedono le costiere amalfitana e del Cilento. Ma all’interno conserva ancora, purtroppo assai malandati, svariati piccoli pregi: affreschi; squarci liberty; perfino - segno dei tempi - qualche fascio littorio.
Tuttavia, ormai da almeno quarant’anni, dal sisma dell’Irpinia, è abbandonato; è quasi vuoto, e nessuno se ne prende cura. Forse, si aspetta soltanto che crolli, per ricavarne una buona (e lucrosa) cubatura: palazzo San Massimo è questo. Già della famiglia Maiuri, è diventato poi anche scuola e sede di uffici comunali; oggi è soltanto una “scatola” inagibile. Qualcuno l’ha descritta così: «Mura perimetrali fatiscenti, putride e incrostate di umidità; erbacce e rifiuti che fanno capolino da ogni angolo; balconi spettrali; vetrate rotte con vista sul vuoto». È tra gli infiniti esempi (e neppure dei peggiori) di un patrimonio troppo dimenticato. Unicamente una parte che era compresa, in origine, nel palazzo è ancora abitata: nel pavimento dello studio rimane un lacerto di una strada d’epoca romana. Ma il resto, è tutto un disastro. Si perde un edificio; e si smarrisce, annullandola, anche un’importante memoria: un “unicum” per la città.


In apertura, lacuna della volta a gavetta incannucciata del piano nobile.
Le immagini di questo articolo riguardano palazzo San Massimo a Salerno, voluto dal principe Guaiferio (861-888) e modificato fino al 1940.

Si perde un edificio e si smarrisce, annullandola, anche un’importante memoria


Il palazzo sta alle pendici del colle sul quale sorge il castello, a due passi dal giardino della Minerva e dal duomo; è alto quattro piani e vasto la bellezza di circa tremilasettecento metri quadrati. L’originaria chiesa esiste ancora, con il pavimento marmoreo e le sue decorazioni; tre navate, perfino capitelli romani di spoglio, corinzi, e uno stemma nobiliare nel frammento di un affresco (però, per vederlo, ci si dovrebbe calare in una botola del pavimento della chiesa, che porta alla cripta: ovviamente, è inaccessibile). Guaiferio l’aveva voluta accanto alla sua casa, e vi accedeva da un andito con volta a botte, tuttora esistente. Se n’è trovata la prova su un blocco di marmo, che racconta la genesi dell’edificio. Dopo il Mille, tutto passa ai benedettini della badia di Cava de’ Tirreni, dono dell’ultimo principe longobardo, Gisulfo II, e vi è ospitato anche un monastero. Fino al Seicento le visite pastorali ne indicano una progressiva crisi: il luogo era sporco e abbandonato, privo di acqua benedetta e di lampade. Nessun restauro, almeno fino al 1580. La chiesa e le sue pertinenze sono cedute nel 1620.


L’aggregato di palazzo San Massimo all’interno del quartiere Plaium Montis.

Nel 1664, il palazzo diventa della famiglia Mauro. E ce n’è una descrizione: ventuno ambienti; dodici ai piani superiori e tre dei nove al piano terra coperti da volte. Esistevano anche logge e scale, e due giardini; nel più piccolo, una fontana con acqua corrente, che è rimasta. Ma il seguito è più confuso e meno documentato: si sa che nel 1725 la chiesa custodiva le reliquie dei santi Massimo ed Eusebio; possedeva anche una cripta, di cui si è perso tutto, ed esisteva un campanile, poiché si chiede che sia imbiancato: sparito anche quello. Tuttavia, il «momento “clou” di questo straordinario palinsesto», dice sempre l’architetto Pinto che ha studiato il monumento, «è proprio il Settecento, soprattutto per la parte di palazzo che guarda verso il mare»: restano abbondanti tracce di «porte e portali, di volte con suggestivi “trompe-l’oeil” e, al piano nobile, di solai decorati a guazzo con paesaggi costieri».

Tuttavia, dal secolo successivo, sparisce il carattere unitario del complesso: nel 1852 viene frazionato, ridotto ad abitazioni da affittare, o vendere, e diventa della famiglia Parrilli. Già nel 1826 si parlava addirittura di cancellare la chiesa; anzi, un documento dava la demolizione come avvenuta; invece, e per fortuna, la cappella è ancora in piedi, quantunque alcuni ambienti retrostanti siano diventati delle docce. E c’erano i giardini; lo scalone monumentale; il salone «con quattro bussole antiche, e dipinti nel soffitto e sui muri di gusto antico, con sfondi e vedute in prospettiva»: il locale esiste ancora, pur se assai male in arnese; le volte sono lacunose, o integrate alla meglio. Perduta invece la loggia, che guardava a sud e a est: oggi, è un misero piccolo terrazzo asfaltato. Alcuni soffitti in legno sono diventati di cemento.
Ancora nel 1908 il palazzo non era soffocato da altre costruzioni. Nove anni dopo, ne diventano proprietari i Maiuri; e spesso, l’edificio è ora ricordato con il loro cognome: se ne vede anche uno stemma lussureggiante in ceramica, composto da quarantotto riquadri. Si costruisce l’ultimo piano; e, negli anni Venti, il complesso diventa, in gran parte, una scuola: lo stemma del convitto Genovesi è nella decorazione in ferro del portale. Sarà quindi sostituito da un liceo artistico e poi da uno classico. Però, con inevitabili e rilevanti trasformazioni interne: tramezzi; nuovi solai; mutamenti nelle quote di calpestio; bagni creati “ex novo”. Due nuovi corpi di fabbrica trasformano l’intero edificio. Nel 1940 Luigi Maiuri lo lascia ai figli; l’ultimo piano di una tra le parti del compendio è datato 1948. Nel 1985 la famiglia lo cede al Comune, che «vi ospiterà anche degli uffici», ricorda l’architetto Pinto.


Aula del corpo novecentesco totalmente distrastrato.

Un’altra immagine della lacuna della volta a gavetta incannucciata del piano nobile.

Ma da allora, è il disastro. Il terremoto; gli impiegati comunali lo abbandonano; si pensa di ripartirlo in tre blocchi; nel 2011 e 2013 va invano due volte all’asta, per una decina di milioni. «Negli Anni Novanta del Novecento esisteva un progetto, che venne perfino presentato in una conferenza stampa; ma non se n’è fatto mai nulla», conclude Pinto. Ormai, «solai deformati; crollata la scala; si vede ancora una fontana liberty con inserti dorati. Ma quanto resta è soprattutto un ricordo». Assai più che un rimpianto, tuttavia, è una vergogna: un’antica ricchezza che va inutilmente sprecata, ogni giorno di più. Finché, probabilmente, non collasserà del tutto; e per farne poi che cosa? Ci vorrebbe, forse, un miracolo di san Massimo confessore (580-662), abate a Costantinopoli, cui l’imperatore fa tagliare la lingua e la mano destra perché aveva difeso l’ortodossia cattolica. Se no, il disastro si compirà del tutto.


La chiesa originaria come oggi si presenta, in uno stato di assoluto degrado.

ART E DOSSIER N. 376
ART E DOSSIER N. 376
MAGGIO 2020