Dentro l'opera


POLVERE E LUOGHI:
L’ARTE COME SEDIMENTO

di Cristina Baldacci

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Luca Vitone, Le ceneri di Milano

Questo monocromo grigio di Luca Vitone (Genova, 1964) non nasce come i dipinti astratti minimalisti, a cui sembrerebbe inizialmente ricollegarsi, da una riduzione o sottrazione, ma dal suo esatto contrario. È di fatto un accumulo di un particolare tipo di polvere: la cenere prodotta da un termovalorizzatore per la combustione dei rifiuti cittadini, che Vitone ha usato come pigmento, fissandola su lastra di alluminio e proteggendola con un box di plexiglass; forse anche per conservare intatta la memoria del luogo a cui si riferisce, per evitare che altra polvere si sedimentasse sulla superficie generando un’intrusione.
Simile a una capsula del tempo, l’opera preserva “le ceneri di Milano” ed è dal punto di vista contenutistico, così come formale, una riflessione sulle possibilità della pittura contemporanea. Vitone sceglie la polvere per presentare, invece di rappresentare, un paesaggio cittadino (la polvere è tra l’altro anche un elemento dannoso per la pittura, che ne mette in discussione la salvaguardia). Mostra Milano nella sua concretezza più tangibile: ciò che resta della vita quotidiana, lo scarto del vissuto, le «cose ultime»(1) diventate cenere. Si tratta di una relazione con la storia (materialista) che ha alle spalle una lunga tradizione, cominciata a inizio Novecento con Walter Benjamin, e che ha portato alla definizione di quella che oggi chiamiamo “cultura dello scarto”.
Come archivio di un passato che non c’è più, ma di cui è rimasta traccia, Le ceneri di Milano è dunque anche un “memento mori”. La cenere, al pari della polvere, è un segno minimo, eppure ben visibile, dello scorrere «inesorabile e accumulatorio»(2) del tempo ed è da sempre associata al ciclo della vita. «Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai», recita la nota locuzione ripresa dalla Genesi (3, 19) e adottata dal rito cattolico proprio nel Giorno delle ceneri.
Con questo valore simbolico che allude all’origine e alla fine della vita, quindi anche alla consunzione del corpo, la polvere è stata rappresentata nella storia della pittura per secoli, finché Marcel Duchamp non ne ha fatto un “ready-made”, elevandola a materia dell’arte in quella che rimane una delle sue opere più enigmatiche. Nel Grande vetro (1915-1923) la usa sia come “colore” per dipingere (si veda la parte bassa dell’opera, dove compaiono i cosiddetti “setacci”), sia come sedimento pulviscolare casuale, che diventa il soggetto di una celebre fotografia dell’opera stessa (Allevamento di polvere, 1920), firmata a quattro mani con Man Ray(3).
Per Vitone la polvere è prima di tutto l’elemento che racconta l’essenza di un luogo e ha pertanto un valore marcatamente “site-specific”. Così come Le ceneri di Milano, anche altri suoi monocromi fatti di polvere presentano spazi reali dal valore simbolico: la Stecca degli artigiani, ex fabbrica del Comune di Milano (Finestre, 2004, serie di sette acquerelli su carta); il Riso - Museo regionale d’arte moderna e contemporanea di Palermo (Piano terra, Piano nobile e Secondo piano, 2005, serie di tre acquerelli su carta)(4); la città di Roma (Io Roma, 2005, serie di tele di lino bianco esposte all’aperto alle polveri sottili della capitale); il Centro studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma (Csac), dove Vitone ha progettato la sua ultima mostra. Intitolata Il Canone, riunisce ventiquattro opere da lui scelte tra quelle della collezione dello Csac(5), più come installazione a se stante nella chiesa del monastero cistercense, il suo nuovo monocromo composto con le polveri dell’archivio-museo, a cui è stato donato(6). Vitone parla poeticamente di questo archivio nell’archivio come di «una sorta di retino, di quelli usati dai bambini seduti sugli scogli, utile alla cattura di granchi e pesciolini, ma spesso portante vuota acqua salata. Il mare, come la polvere, sempre uguale e sempre diverso, serbatoio di vita e testimone del tempo»(7).

(1) G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Bergamo 2013.

(2) E. Grazioli, La polvere nell’arte, Milano 2004, p. 2.

(3) Per uno studio approfondito di questo “allevamento di polvere”, si veda Grazioli, op. cit., pp. 55-88.

(4) Sulla stessa linea si veda la serie fotografica Pictures of Dust (2000) di Vik Muniz, realizzata rappresentando celebri sculture minimaliste con polvere aspirata dalle sale del Whitney Museum of American Art di New York, poi fotografate, come se fossero documentazioni in bianco e nero un po’ sgranate delle opere stesse.

(5) La ricca collezione dello Csac è stata messa insieme da Arturo Carlo Quintavalle, che negli anni si è fatto donare, spesso anche con una certa insistenza, le opere direttamente dagli artisti.

(6) La polvere è per antonomasia legata a un’idea tradizionale di archivio. Cfr. per esempio C. Steedman, Dust: The Archive and Cultural History, New Brunswick (New Jersey) 2002.

(7) Cfr. L. Vitone, testo per la mostra Il Canone, che si sarebbe dovuta inaugurare il 4 aprile allo Csac - Centro studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma, ma che è stata rimandata a causa dell’emergenza sanitaria per coronavirus.

ART E DOSSIER N. 376
ART E DOSSIER N. 376
MAGGIO 2020