Blow up


LARTIGUE

di Giovanna Ferri

«Non sono pensieri quelli che vorrei intrappolare ma l’odore della mia gioia! Vengo assalito da una volontà indefinibile» (J. H. Lartigue, Diario manoscritto, Neuilly, 25 gennaio 1928).
In questa frase Jacques Henri Lartigue (Courbevoie 1894 - Nizza 1986) racchiude la sua principale ossessione: catturare, imprigionare tutto ciò che gli procura piacere, che lo rende felice. Un obiettivo che perseguirà per tutta la vita attraverso la macchina fotografica ma anche attraverso la scrittura. Solo così potrà tentare di rendere duraturo e tangibile qualcosa che di per sé è evanescente, temporaneo. Per “imbalsamare” la bellezza, la spensieratezza di un momento non c’è altro modo che conservarne traccia, memoria.
Abbiamo approfondito questo aspetto centrale nella poetica di Lartigue con Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci di Venezia e curatore, insieme a Marion Perceval e Charles-Antoine Revol, della mostra L’invenzione della felicità programmata nella stessa istituzione veneziana ma sospesa, almeno a fine marzo mentre stiamo andando in stampa, per l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus.

Abbiamo letto nel catalogo della mostra che il primo libro da te acquistato è proprio di Lartigue e che il primo approccio con il fotografo francese l’hai avuto, giovanissimo, durante un’edizione dei Rencontres Internationales de la Photographie di Arles. Ci puoi raccontare quell’esperienza?
Arles è sempre stato un luogo di incontri magici. Ero giovanissimo e lì ho avuto la possibilità di incrociare diversi fotografi come Newton, Cartier-Bresson, Boubat, Koudelka e Lartigue appunto. Il mio approccio iniziale con il fotografo francese, molto acerbo e per niente critico, è stato di pura passione. Sfogliando poi il libro Le Passé Composé: Les 6X13 de Jacques-Henri Lartigue (1984), mi ero innamorato dell’eleganza delle fotografie contenute in quel volume, da me letto successivamente. Ma soprattutto mi aveva colpito molto l’uso che lui faceva dell’inquadratura e del tempo di esposizione, che era sempre molto veloce e che ti faceva vedere un mondo che con gli occhi non riuscivi a cogliere. Quindi la prima cosa che ho capito, o meglio che Lartigue mi ha tradotto in immagine, è che la nostra vista non ha nulla a che fare con la fotografia. La fotografia ha un linguaggio, una modalità di rappresentazione, di narrazione molto differente. Questo lui l’aveva compreso così bene che lo usava di continuo proprio perché aveva il desiderio di costruire un mondo a parte. Il titolo che ho dato al catalogo, L’invenzione della felicità, deriva da una mia riflessione. Lartigue non è il “narratore” della felicità. Non è che lui va a fotografare la felicità intorno al mondo. Lui “inventa” la felicità, la inventa da un punto di vista fotografico. E qual è questa felicità? È quella che sta intorno a lui e che lui fotografa perché ha il terrore che gli scappi via. È così veloce, così fatua, è un sentimento così sfuggente che lui lo vuole fermare, lo vuole immortalare con quel tempo di esposizione brevissimo perché si riferisce proprio a quel momento specifico. L’ossessione per lui era che questa felicità potesse finire e quindi continuava ad accumularla, a “raccontarla”. Una teorizzazione condivisa con Perceval e Revol, curatori dell’intera collezione fotografica donata da Lartigue allo Stato francese nel 1979.


Madeleine Messager detta Bibi durante la sua luna di miele con Jacques Henri Lartigue, Chamonix, Hôtel des Alpes 1920.

Che cosa ha rappresentato per Lartigue la fotografia? E qual è stata la sua genialità rispetto alla generazione di fotoamatori di inizio Novecento?
La tua domanda pone più questioni. Partiamo dalla prima. La fotografia per Lartigue ha rappresentato un lungo momento privato, tant’è che le sue foto non le faceva vedere a nessuno, le teneva per sé. Poi, com’è noto, Lartigue lavorava con l’agenzia francese Rapho, ma lui in realtà, dal punto di vista professionale, era molto più interessato all’illustrazione. Poi c’è l’incontro con Avedon, che non appena vede le sue foto afferma di aver scoperto un genio, e poco dopo la mostra al MoMa di New York nel 1963. Questo succede quando il fotografo francese ha sessantotto anni, quindi un’età avanzata. Possiamo considerare Lartigue un grande fotografo nel momento in cui guardi la sua opera nello sviluppo completo. Lartigue non è un fotografo di intuizioni “una volta ogni tanto”. È un fotografo che ha tracciato una linea coerente di narrazione. La fotografia che ritrae Madeleine Messager chiamata Bibi (la sua prima moglie) alla toilette è una foto che dichiara la sua intenzionalità progettuale in termini di sguardo. Poi è chiaro che le immagini delle partite di tennis, delle gare automobilistiche, dei tuffi in piscina, dei salti sono il frutto di una reazione immediata ma molte altre sono il risultato di un pensiero preciso. Aveva piena consapevolezza di quello che stava facendo. Non è un caso che Scianna, che aveva avuto con lui un grande rapporto di amicizia, arriva a dire che il destino nobile di una fotografia non è quello di finire sulla prima pagina di un giornale ma di finire dentro un album di famiglia. E Lartigue ne ha realizzati più di cento. Erano come diari visivi dove non c’era niente di casuale e dove la scrittura, i suoi appunti, i suoi schizzi avevano un valore pari alle immagini.

Dimmi ancora qualcosa di questi album…
Abbiamo la certezza che lui questi album li fa per guardarli, vuole ritrovare quel presente che ha fotografato durante quel passato per riviverlo, per tenerlo stretto, per avere la conferma quotidiana che nulla è cambiato. Non è un caso che lui firmava con un sole splendente. Nei suoi album troviamo il suo nome e poi un disegno molto banale, infantile del sole come per dire che nella sua vita non c’erano nuvole. Ma è ovvio che non era così.


Richard Avedon, New York 1966.

ART E DOSSIER N. 376
ART E DOSSIER N. 376
MAGGIO 2020