Così, se in mostra non possono ovviamente esserci gli Sposi con la loro Camera, la scelta è quella di chiamare a raccolta una vera e propria corte rinascimentale fatta di ritratti a confronto, tutti in gara l’uno con l’altro a livello qualitativo.
Pregevolissimo è il Ritratto di Francesco Gonzaga realizzato dal raro Francesco Bonsignori: minuzioso, fisiologicamente parlando, eppure squisitamente irrealistico, col suo corpetto in broccato rosso, orlato da nappe d’oro, sopra un raffinato abito celeste a ricami azzurri. E che dire del Ritratto di giovane di Giovanni Bellini, con la sua capigliatura bionda a incorniciare un volto sicuro, un accordo perfetto di gamme cromatiche, carezzevoli e smaglianti? Di Mantegna, tra gli altri, spicca il Ritratto di Cosimo de’ Medici, a testimonianza di un ben documentato rapporto di di plomazia e scambio culturale tra Mantova e Firenze, esplicitati in vari modi e di cui questo ritratto è ottimo esempio, nonché per lo stile del maestro, qui in applicazione del suo rigido grafismo alla ritrattistica, certamente concepita con un gusto antichizzante e a cui fanno eco anche i ritratti di profilo, direttamente ispirati alla medaglistica (il magnifico Ritratto di giovane di Ercole de Roberti vale come esempio perfetto).
Stona (ma si fa sempre perdonare in funzione del suo essere uno dei ritratti più belli nella storia universale dell’arte) in una rassegna così attenta all’accademismo e così fiera della sua precisione, il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Certo, la comoda provenienza dalle collezioni di palazzo Madama è una scusa in più per la sua presenza, ma la differenza di contenuto (e forma) che separa l’anonimo personaggio (messinese?) dai suoi cortesi colleghi padani non potrebbe essere più chilometrica. Comparare gli sguardi classicheggianti, sempre rivolti verso l’infinito, o i profili da moneta tardo antica di personaggi che reimmaginano se stessi come eroi di un tempo antico, con il penetrante - insostenibile - sguardo dell’anonimo “gattopardo” di Antonello, significa essere dimentichi di Jan van Eyck e Petrus Christus, della concezione fiamminga del ritratto e del suo antitetico valore formale e contenutistico rispetto al Rinascimento italiano, o, semplicemente, di non curarsene in chiave riempitiva.
Un problema, questo, che purtroppo emerge in calce alla mostra, dove, pur volendo affrontare il tema dei Trionfi e dello Studiolo di Isabella d’Este (sicuramente la questione di maggiore importanza quando si parla del Mantegna maturo), non è stato possibile portare in mostra nessuna opera realmente significativa a riguardo, sicuramente per problemo legati alle difficoltà dei prestiti, non certo per imperizia o mancanza di volontà. Così, l’assenza cerca di essere sopperita con nutriti carteggi, riproduzioni tarde e anche alcune solidissime opere del periodo, come l’Ecce homo, summa perfetta dello stile maturo del grande maestro. Pur con tali lacune, comunque, anche questa seconda sezione della mostra si rivela valida, perché trasmette con efficacia quel senso di struggente contraddizione che non abbandonò mai Mantegna fino alla fine. Tra Virgilio e Petrarca, tra fede cristiana e difficoltà personali, in Mantegna si ritrova perfettamente la dicotomia tra una passione sincera (quella per la classicità) e un moto esistenziale dell’animo, comune a molti intellettuali dell’epoca e che, allo scadere del XVI secolo, travolgerà le signorie italiane, ricordando loro che rivivere l’antico non sempre è sufficiente a rendere solida la costruzione del mondo moderno.