Grandi mostre. 6
Mantegna a Torino

UN PERCORSO DA MANUALE

Il Rinascimento eccentrico di Andrea Mantegna rivive a palazzo Madama in una mostra capace di ricostruire con efficacia e spettacolarità il contesto cortese in cui si sviluppò il linguaggio originale dell’artista.

Massimiliano Caretto

Lmostra inaugurata alla fine dello scorso anno a palazzo Madama e dedicata ad Andrea Mantegna è una piccola antologia a uso e consumo del visitatore, quasi un vero e proprio manuale.
Esattamente come la mostra su Van Dyck dell’anno scorso, la scelta adottata dalla curatrice è quella di mettere in piedi una rassegna che sappia conciliare divulgazione con precisione scientifica, seguendo una tradizionale lettura critica - da manualistica universitaria - attraverso una serie di confronti e capitoli che, dagli esordi fino al periodo tardo, toccano tutti i temi centrali di una delle più importanti figure del Rinascimento.
Il mondo di Mantegna è quello del “Rinascimento eccentrico” che, fuori da Firenze, seppe creare un linguaggio autenticamente nuovo senza “intoscanirsi” eccessivamente ma, anzi, facendo di ogni influenza un’occasione di confronto consapevole e stimolante.
A chiunque visiti la mostra avendo in mente qualche lettura in materia non possono che sovvenire alla memoria le piacevoli - e giustamente famose - pagine di Giovanni Agosti dedicate proprio al genio padano e capaci di sintetizzare le due anime dell’artista, in costante bilico tra suggestioni di un passato ancora cortese, perché calamitato politicamente in Europa, e un presente che per la riscoperta dell’antico nutre un interesse esaltato, quasi liberatorio.
Si comincia, dunque, dall’inizio padovano, ove dominante è il lavoro di Francesco Squarcione che, con la sua numerosa bottega, può essere considerato il maestro sui cui banchi di scuola hanno sgobbato come alunni Mantegna stesso, Bellini, Crivelli, Cosmè Tura e praticamente tutti i più importanti e singolari artisti norditaliani dell’epoca. La figura dello Squarcione oggi sarebbe quanto meno definita controversa, non fosse altro che per l’espediente con il quale era solito prendere in adozione i propri allievi, evitando così una serie di obblighi finanziari e legali nei loro confronti, ma finendo anche col prendersi una denuncia per sfruttamento di lavoro non retribuito proprio da Mantegna.
Che piacesse o no ai suoi alunni, comunque l’impronta squarcionesca rimase come indelebile timbro sulla produzione giovanile di tutti questi artisti, presenti nelle prime sale della mostra e ben connessi da alcuni confronti ritmati con diligenza. L’atmosfera è quella di un comune sentire in cui si mescolano con fascino gusto antiquario (in bottega erano notoriamente presenti reperti archeologici per studi di composizione) ed eccentricità cortesi, che si declinano di volta in volta in maniera diversa.

Ecce homo (1500-1502), Parigi, Musée Jacquemart-André.

Una vera e propria corte rinascimentale fatta di ritratti a confronto


Se, infatti, una cifra iconografica che quasi mai abbandona tutti questi artisti è la presenza del festone di frutta a inghirlandare la sommità delle composizioni, ognuno di loro -Mantegna in primis - riesce a sviluppare da subito un proprio linguaggio. In tal senso, la mostra confronta con efficacia due San Giorgiouno di Mantegna e l’altro del ferrarese Cosmè Tura. In quest’ultimo l’atmosfera è tinta di toni surreali (come sempre in Tura), dove il santo guizzante è vestito con un’armatura (più simile a un costume) d’un rosa tenue, cristallizzato in un’istantanea di morte, dopo aver decapitato l’orrido drago ai suoi piedi, munito di due ali più funzionali a tagliare e pungere le nervose gambe del santo che a volare effettivamente. Sul fondo, fregi antichizzanti, con colonne rosse e blu. In Mantegna il tema si presenta come un fregio che prende vita: emerge qui una costante del maestro, che mai lo abbandonerà, quella della pittura intesa come scultura animata, che lo ossessionerà per tutta la vita. Del resto, il santo cavaliere, in elegante posa di trionfo dopo aver fracassato la sua lancia nella mandibola del rettile, si sporge da una nicchia dipinta, che è cornice illusoria, marmo all’antica e irruzione dello spazio in chiave metateatrale. Raffinata chiosa è la scelta di far rivolgere lo sguardo di san Giorgio alla città alle sue spalle, sullo sfondo, in una “inversione a U” ottica che lancia l’occhio dello spettatore nelle profondità del dipinto, a chilometri di distanza da quella cornice che il santo stesso si appresta a varcare. Ben ribadita, dunque, è anche l’influenza che Donatello e il suo “stiacciato” ebbero su Mantegna, così come la stessa asprezza donatelliana, che dell’antico assorbì più la severità che l’elegia, più la grandezza che la delicatezza.

Cosmè Tura, San Giorgio (1460-1465), Venezia, Fondazione Giorgio Cini.

San Giorgio (1460), Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Si guardi alla monumentale testa di cavallo in bronzo di Donatello, nervosa, percorsa da vene pulsanti: un titano equino dalle froge spalancate e pronte a lanciare qualche vampata di fuoco, quasi meglio dei due draghi prima citati.
Non manca neanche Bellini, senza il confronto (forse ormai perfino un po’ noioso) delle due presentazioni al Tempio, echi reciproci con tanto di autoritratti e parentele in bella vista, qui invece accennato da una bella Madonna col Bambino in cui Bellini, come sempre in questa fase, gioca a fare il Mantegna, indurendo le sue forme, seccando il colore e finanche copiando quella tipica fisionomia del Bambin Gesù, in cui “mantegnesco” arriva quasi a far rima con grottesco.
Da Padova si passa a Mantova e al rapporto coi Gonzaga, a sua volta diviso in problematiche di vario tipo. Quella del controverso rapporto con la signoria mantovana è un tema che è stato letteralmente sviscerato per anni da studiosi del calibro del citato Agosti e di Giovanni Romano, tra i vari, e si può riassumere nella smania di gloria dei Gonzaga stessi, viaggiante di pari passo solo con la loro endemica mancanza di fondi e l’assoluta convinzione di non volerli utilizzare per retribuire lo stuolo di artisti al loro servizio, Mantegna in primis.
Parliamo di un’epoca in cui avere un artista di corte di questo calibro era meglio che avere un vero esercito, un tempo in cui le signorie italiane si affrontavano prima nel campo dell’arte e poi sui campi di battaglia, un’epoca nella quale tutte assieme fecero immaginare a Carlo V campagne militari impossibili, se gli eserciti della penisola fossero anche solo stati minimamente pari alla forza e alla gloria raffigurate dagli artisti del Rinascimento italiano.


Antonello da Messina, Ritratto di ignoto (1476), Torino, Museo civico d’arte antica, palazzo Madama.

Così, se in mostra non possono ovviamente esserci gli Sposi con la loro Camera, la scelta è quella di chiamare a raccolta una vera e propria corte rinascimentale fatta di ritratti a confronto, tutti in gara l’uno con l’altro a livello qualitativo.
Pregevolissimo è il Ritratto di Francesco Gonzaga realizzato dal raro Francesco Bonsignori: minuzioso, fisiologicamente parlando, eppure squisitamente irrealistico, col suo corpetto in broccato rosso, orlato da nappe d’oro, sopra un raffinato abito celeste a ricami azzurri. E che dire del Ritratto di giovane di Giovanni Bellini, con la sua capigliatura bionda a incorniciare un volto sicuro, un accordo perfetto di gamme cromatiche, carezzevoli e smaglianti? Di Mantegna, tra gli altri, spicca il Ritratto di Cosimo de’ Medici, a testimonianza di un ben documentato rapporto di di plomazia e scambio culturale tra Mantova e Firenze, esplicitati in vari modi e di cui questo ritratto è ottimo esempio, nonché per lo stile del maestro, qui in applicazione del suo rigido grafismo alla ritrattistica, certamente concepita con un gusto antichizzante e a cui fanno eco anche i ritratti di profilo, direttamente ispirati alla medaglistica (il magnifico Ritratto di giovane di Ercole de Roberti vale come esempio perfetto).

Un artista alla ricerca di un equilibrio fra antico e moderno


Stona (ma si fa sempre perdonare in funzione del suo essere uno dei ritratti più belli nella storia universale dell’arte) in una rassegna così attenta all’accademismo e così fiera della sua precisione, il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Certo, la comoda provenienza dalle collezioni di palazzo Madama è una scusa in più per la sua presenza, ma la differenza di contenuto (e forma) che separa l’anonimo personaggio (messinese?) dai suoi cortesi colleghi padani non potrebbe essere più chilometrica. Comparare gli sguardi classicheggianti, sempre rivolti verso l’infinito, o i profili da moneta tardo antica di personaggi che reimmaginano se stessi come eroi di un tempo antico, con il penetrante - insostenibile - sguardo dell’anonimo “gattopardo” di Antonello, significa essere dimentichi di Jan van Eyck e Petrus Christus, della concezione fiamminga del ritratto e del suo antitetico valore formale e contenutistico rispetto al Rinascimento italiano, o, semplicemente, di non curarsene in chiave riempitiva.
Un problema, questo, che purtroppo emerge in calce alla mostra, dove, pur volendo affrontare il tema dei Trionfidello Studiolo di Isabella d’Este (sicuramente la questione di maggiore importanza quando si parla del Mantegna maturo), non è stato possibile portare in mostra nessuna opera realmente significativa a riguardo, sicuramente per problemo legati alle difficoltà dei prestiti, non certo per imperizia o mancanza di volontà. Così, l’assenza cerca di essere sopperita con nutriti carteggi, riproduzioni tarde e anche alcune solidissime opere del periodo, come l’Ecce homo, summa perfetta dello stile maturo del grande maestro. Pur con tali lacune, comunque, anche questa seconda sezione della mostra si rivela valida, perché trasmette con efficacia quel senso di struggente contraddizione che non abbandonò mai Mantegna fino alla fine. Tra Virgilio e Petrarca, tra fede cristiana e difficoltà personali, in Mantegna si ritrova perfettamente la dicotomia tra una passione sincera (quella per la classicità) e un moto esistenziale dell’animo, comune a molti intellettuali dell’epoca e che, allo scadere del XVI secolo, travolgerà le signorie italiane, ricordando loro che rivivere l’antico non sempre è sufficiente a rendere solida la costruzione del mondo moderno.


Madonna col Bambino e i santi Girolamo e Ludovico di Tolosa (1453-1454), Parigi, Musée Jacquemart-André.


Madonna dei cherubini 1485 circa), Milano, pinacoteca di Brera.

Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno

Torino, palazzo Madama
a cura di Sandrina Bandera e Howard Burns
fino al 4 maggio 2020
orario 10-18, giovedì e sabato 10-21, chiuso il martedì
catalogo Marsilio
www.palazzomadamatorino.it

ART E DOSSIER N. 375
ART E DOSSIER N. 375
APRILE 2020
In questo numero: INDOMITA ARTEMISIA: Una mostra a Londra. Una donna da decifrare. COLLEZIONI SUI GENERIS: L'archivio visivo della Fondazione Cirulli. Il Mo Museum si Vilnius. IN MOSTRA: Previati a Ferrara. George IV a Londra. Porcellane cinesi a Milano. Caravaggio e Bernini ad Amsterdam. Mantegna a Torino.Direttore: Philippe Daverio