Perché attira tanto Artemisia? Per il famoso stupro di Tassi e la sua condizione di vittima capace di resuscitare?
In epoca di “me too” il simbolo si rafforza, anche se ormai si è imposta pure l’immagine di una donna meno vittima, in grado di rialzarsi e combattere per la propria professione, come rivelano le lettere polemiche e pugnaci inviate dalla Gentileschi al collezionista siciliano don Antonio Ruffo. Il fatto è che la pittura di una donna non veniva considerata come quella di un uomo ed era pagata meno. Artemisia, giustamente, si arrabbiava.
Ma com’era davvero questa donna? Di una provocante bellezza come quella raffigurata dall’artista nelle sante peccaminose dai seni floridi e le spalle nude, nelle Maddalene lascive, nelle eroine procaci e vendicative?
Certamente Artemisia era dotata di una personalità complessa, forte, moderna e spregiudicata.
Uno spiraglio di realtà emerge da un interessante disegno attribuito a Leonaert Bramer - pittore originario di Delft e attivo in Italia dal 1619 al 1627 -, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, che potrebbe rivelare aspetti sconosciuti della pittrice. Eseguito a penna e inchiostro bruno, tra l’inverno e il giugno 1620, rappresenta i ritratti di alcuni artisti della Bent, la colonia nordica a Roma, cui apparteneva anche Leonaert Bramer.
Gli artisti effigiati sono Nicolas Régnier, Dirck van Baburen, Claude Lorrain, Gerrit van Honthorst, David de Haen e Artemisia Gentileschi. La datazione è precisabile con certezza tra il ritorno di Artemisia a Roma a fine febbraio 1620 e il giugno dello stesso anno quando Van Honthorst è già tornato a Utrecht.
Che ci fa lì, la pittrice appena arrivata a Roma dopo una fuga precipitosa da Firenze, per non aver pagato il costoso azzurro oltremarino al granduca ed essersi macchiata di adulterio con un nuovo amante? Era un’artista della Bent anche lei?
Sembrerebbe, visto che appare trattata alla pari da quei rissosi e goduriosi pittori olandesi, fiamminghi, francesi, che popolavano i bassifondi romani. Travestita, baffuta come un uomo, lo sguardo fiero e ironico, un cappellino fiorito, e un frutto candito in mano, la pittrice sembra guardare i posteri ponendo dilemmi.
I volti caricaturali del disegno sono ripresi dal vero, come hanno dimostrato confronti con i ritratti di ciascun artista. Tutti, meno Gerrit van Honthorst, hanno in mano un oggetto simbolico, un fiore, un bicchiere di vino, un frutto, uno strumento musicale (il flauto di Baburen). Tutto all’insegna dell’ironia e della parodia contro le convenzioni dell’epoca, non solo italiane, ma anche nordiche. Il disegno apre uno spaccato su una nuova immagine di Artemisia, frequentatrice di taverne e di luoghi dalla dubbia fama.
Karel van Mander nel 1604, nel suo Libro della pittura, avvertiva gli artisti stranieri che intendevano visitare Roma della pericolosità di una città bellissima, ma “traviante”.