Studi e riscoperte
Saffo nel Parnaso di Raffaello

LA DECIMA
MUSA

Nel Parnaso, l’affresco realizzato da Raffaello nella Stanza della Segnatura dei Musei vaticani - insieme alla Scuola di Atene e alla Disputa del sacramento -, tra i diversi poeti, sulla cui identità il dibattito continua, compare la figura di Saffo, che offre interessanti spunti di riflessione.

Luigi Senise

Chiunque entri nella Stanza della Segnatura, rimane avvinto dalla olimpica armonia della Scuola di Atene e dall’arioso paesaggio in cui si anima la Disputa del sacramento, affrescati da Raffaello tra 1508- 1509. Sulla parete che raccorda queste due celebri opere, l’Urbinate dipinge inoltre il Parnaso (1510), il monte sacro ad Apollo che domina la città di Delfi. Il dio che presiede alla poesia, alla musica e alle arti è raffigurato, al centro, mentre suona una lira da braccio, contornato dalle nove muse. A sinistra, riconosciamo Omero, cieco e ritratto col volto levato al cielo, mentre detta le gesta di Ulisse a un giovane scrittore, il cui capo non è ancora cinto di lauro. Mentre, al fianco di Omero scorgiamo Dante, di profilo, che guarda il volto del maestro Virgilio.

A destra, Raffaello rappresenta diversi poeti: nel primo volto barbuto, uno studio recente vi identifica Jacopo Sadoleto, il quale nel 1510 aveva appena pubblicato il Laocoonte, un testo in cui celebrava il rinnovato umanesimo di Giulio II(1). Accanto a lui intravediamo il profilo di Boccaccio: e via via altri poeti, sulla cui identità ancora oggi si dibatte. Diversi studiosi concordano nell’intravedere in quel volto dal compiaciuto sorriso (sul margine destro della composizione) il ritratto di Jacopo Sannazaro. In basso, a destra, sembrerebbe plausibile che Raffaello abbia rappresentato i tre grandi poeti tragici: Eschilo, Sofocle ed Euripide.

Più semplice, sarebbe l’identificazione di alcune delle cinque figure, in basso, a sinistra: i poeti lirici. La donna dal volto triste, che impugna un cartiglio, su cui vi leggiamo il proprio nome e che con l’altra mano sfiora una elegante lira, è la poetessa Saffo, colei che Platone chiamò «la decima musa».

Di Saffo, sopravvivono questi celebri versi, ch’ella compose nel tiaso dell’isola di Lesbo, quel collegio di fanciulle sacro ad Afrodite in cui s’insegnavano la grazia e la poesia: «Simile a un dio mi sembra quell’uomo / che siede davanti a te, e da vicino / ti ascolta mentre tu parli / con dolcezzae con incanto sorridi. E questo / fa sobbalzare il mio cuore nel petto. / Se appena ti vedo, subito non posso più parlare: / la lingua si spezza: un fuoco / leggero sotto la pelle mi corre: / nulla vedo con gli occhi e le orecchie mi rombano: / un sudore freddo mi pervade: / un tremore tutta mi scuote: / sono più verde dell’erba; / e poco lontana mi sento dall’essere morta. / Ma tutto si può sopportare [...]».

Il monte sacro ad Apollo, il dio che presiede alla poesia, alla musica e alle arti


Raffaello ritrae nella figura di Saffo il tormento ch’ella canta in questa commovente lirica: la camicia malmessa illustra il verso: «un tremore tutta mi scuote»; le nere pupille traducono: «nulla vedo con gli occhi»; le gote arrossate corrispondono a: «un fuoco sotto la pelle mi corre»; infine, l’Urbinate tratteggia il flessuoso ciuffo di capelli accanto all’orecchio della poetessa simile a un’onda marina, come se il fragore da questa generato trasfigurasse il verso: «e le orecchie mi rombano».

Nella Biblioteca vaticana è conservato, sin dal 1400, un manoscritto del I secolo d.C., Del sublime, un trattato di retorica, scritto in greco, in cui l’anonimo autore stila un compendio di regole che un buon oratore dovrebbe seguire, perché la propria esposizione risulti efficace ed elegante.

Nel manoscritto, la lirica di Saffo è considerata inarrivabile modello poetico: «Non provi meraviglia come in una sola volta essa vada ricercando l’anima sua, il corpo, l’udito, la lingua, gli occhi, la pelle, quasi fosse a lei estranea e dispersa ogni parte?»(2).

Raffaello avrebbe potuto conoscere la traduzione, dal greco, del manoscritto, grazie a Tommaso Inghirami, detto Fedra, il prefetto della Biblioteca vaticana, che il pittore avrebbe riprodotto almeno una volta, qualche anno dopo il ciclo delle Stanze (il ritratto è conservato oggi nella Galleria palatina di palazzo Pitti a Firenze), e la cui figura è presente, nelle vesti di un sacerdote orfico, nell’affresco della Scuola di Atene(3).


Apollo tra le muse.

(1) Pseudo-Longino o Anonimo del Sublime, Del sublime, cura e trad. di F. Donadi, Milano 2016, pp. 178-181 con la poesia in originale greco con testo a fronte. Si veda anche: I poeti lirici, cura e trad. di E. Romagnoli, Bologna 1963, pp. 350-351; A. Paolucci, Michelangelo e Raffaello in Vaticano, Città del Vaticano 2013; C. Strinati, Raffaello, Dossier Art n. 97, Firenze (1995) 2016.

(2) A. Casaidei, V. Farinella, Il “Parnaso” di Raffaello: criptoritratti di poeti moderni e ideologia pontificia, in “Ricerche di Storia dell’arte”, Roma 2017, pp. 59-73.

(3) G. Reale, Le tre vie al Vero. Così Raffaello sconfigge il tempo, in “Corriere della sera”, 27 febbraio 2012. Dello stesso autore: Raffaello. Il Parnaso, Milano 1999. Sul ritratto di Lucrezio: M. Beretta, Immaginare Lucrezio. Note storiche sull’iconografia lucreziana, in Il culto di Epicuro. Testi, iconografia e paesaggio, Firenze 2014, pp. 193-225.

È altrettanto noto in quale misura, per alcuni poeti latini, la lirica di Saffo divenga autentica fonte d’ispirazione: nel Carme 51, Catullo, dedicandola all’amata Lesbia, la riscrive pressoché identica: «Simile a un dio mi sembra che sia / e forse piú di un dio, vorrei dire, / chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi / ti ascolta ridere / dolcemente; ed io mi sento morire / d’invidia: quando ti guardo io, Lesbia, / a me non rimane in cuore nemmeno / un po’ di voce, / la lingua si secca e un fuoco sottile / mi scorre nelle ossa, le orecchie / mi ronzano dentro e su questi occhi / scende la notte».

E Catullo non è l’unico poeta che trae ispirazione dalla poesia di Saffo. Tito Lucrezio Caro si rifà agli stessi versi per descrivere i sintomi manifestati dal corpo umano e dall’anima (che per lui sono la medesima entità) in uno stato di accentuata tensione: «Negli uomini è solito manifestarsi una sensazione di paura attraverso il pallore ed il sudore dell’intero corpo, la secchezza della lingua, la mancanza della voce, l’accecamento degli occhi, il fragore nelle orecchie, il dolore agli arti» (De rerum natura, libro VI).
Tornando agli altri personaggi presenti nel Parnaso, nel gruppo di poeti, in basso, a sinistra, la figura abbigliata con una tunica giallo ocra s’è sovente creduto essere Alceo, sia perché di Saffo fu maestro, sia perché fu l’inventore della strofa che tuttavia prese il nome dalla poetessa di Lesbo.
La strofa saffica, infatti, consiste in tre endecasillabi e un adonio (un verso di cinque sillabe). Fu questo un metro ampiamente adottato dal latino Catullo, il quale potrebbe essere stato raffigurato proprio nello stesso giovane (identificato, come già detto, con Alceo) mentre volge il capo verso l’eterea fanciulla, che rappresenta non solo colei che ispirò Saffo nel comporre la splendida lirica, ma anche la donna amata da Catullo medesimo. Quella Lesbia, nel cui pseudonimo (il vero nome era Clodia) l’autore rivelava il debito creativo che doveva alla poetessa di Lesbo, riscrivendone, come abbiamo visto, quasi identica una celebre lirica. Raffaello raffigura il giovane con la cartilagine tiroidea (il cosiddetto “pomo d’Adamo”) evidentemente accentuata, dettaglio anatomico proprio d’un corpo in erba e che dunque si rivela un brillante espediente figurativo per indicare la giovane età di Catullo, che morì appena trentenne.

È noto in quale misura, per alcuni poeti latini, la lirica di Saffo divenga autentica fonte d’ispirazione


Il distinto personaggio, appoggiato all’albero di lauro, che indossa un abito rosso cremisi, potrebbe invece raffigurare Tito Lucrezio Caro (anziché l’altro grande poeta lirico, Anacreonte, come peraltro legittimamente s’è ritenuto), nel quale il portamento d’altero distacco con cui osserva la giovane e ridente fanciulla rivelerebbe quell’impronta tutta scientifica con cui Lucrezio avrebbe attinto dai versi di Saffo.

Uno dei rari ritratti di Lucrezio, su una pietra d’agata nera, la cui ubicazione dall’Ottocento risulta sconosciuta, ma che autorevoli filologi ed esperti di glittica hanno considerato autentica, ci rivela un volto ornato da un barba con un naso lievemente camuso, tratti che potrebbero sovrapporsi al profilo dipinto da Raffaello, il quale avrebbe potuto conoscere un ritratto dello scrittore latino, esemplato appunto su questa celebre pietra, oggi perduta. Tenendo a mente, oltretutto, che in quei primi anni del Cinquecento, il testo più noto di Lucrezio, il De rerum natura, era ampiamente studiato all’interno della curia romana poiché il celebre manoscritto, che si credeva fosse andato smarrito, era stato invece trovato nell’abbazia benedettina di San Gallo (in Svizzera), attorno al 1417, dall’umanista toscano Poggio Bracciolini.


Profilo di uomo barbato inciso su agata nera con l’iscrizione LVCR (I secolo a.C.), da M. Beretta, Immaginare Lucrezio. Note storiche sull’iconografia lucreziana, pp. 193 - 215, in Il culto di Epicuro. Testi, iconografia, paesaggio, Firenze 2014.


È uno dei rari ritratti di Lucrezio, la cui ubicazione dall’Ottocento risulta sconosciuta. Autorevoli studiosi hanno ritenuto che i suoi tratti somatici potessero essere sovrapposti con quelli del personaggio, raffigurato nel Parnaso di Raffaello, appoggiato all’albero di lauro (qui a fianco dell’incisione) e identificabile, probabilmente, con lo stesso Lucrezio.


Dante, Omero e Virgilio.

S’intravede infine il viso di Petrarca (dietro la giovane donna, sempre nel gruppo di poeti, in basso, a sinistra), il ritratto del quale (così come quello di Boccaccio, a destra) Raffaello aveva senza dubbio visto nel Cappellone degli spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze, eseguito da Andrea di Bonaiuto. Utliizzando l’endecasillabo, l’autore del Canzoniere, avendo forse in mente la lirica di Saffo, compose questo sonetto (Rerum vulgarium fragmenta, CLXXXIII): «Se’l dolce sguardo di costei m’ancide, / et le soavi parolette accorte, / et s’Amor sopra me la fa sì forte, sol quando parla, / ovver quando sorride, [...] / Però s’i’ tremo, et vo col cor gelato, / qualor veggio cangiata sua figura, / questo temer d’antiche prove è nato. / Femina è cosa mobil per natura: / ond’io so ben ch’un amoroso stato / in cor di donna picciol tempo dura».

La sorridente fanciulla dai capelli dorati, che scorgiamo tra i due poeti, sarebbe l’incarnazione della Lesbia di Catullo e della Laura di Petrarca: l’eterno modello poetico creato dalla delicata mente della poetessa di Lesbo, nel cui corpo sofferente, intravediamo l’anima che trascende la sfera sensoriale, poiché la via che porta alla pura poesia passa necessariamente per una privazione. «Amare l’anima di una donna significa non pensare questa donna in funzione dei propri piaceri», scrisse mirabilmente Simone Weil, nei primi del Novecento: parole che potrebbero far da pendant alla figura di Saffo, affrescata da Raffaello.
IN MOSTRA

Le celebrazioni per i cinquecento anni dalla morte di Raffaello culminano con la mostra romana alle Scuderie del Quirinale (dal 5 marzo al 2 giugno, orario 10-20, venerdì e sabato 10-22.30, www.scuderiequirinale.it), a cura di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi con il contributo di Vincenzo Farinella e Francesco Paolo Di Teodoro. Nell’evento più significativo dedicato all’artista urbinate, realizzato in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi e approvato dal Comitato ministeriale presieduto da Antonio Paolucci, troviamo oltre cento opere tra dipinti e disegni provenienti da collezioni quali la Pinacoteca nazionale di Bologna, la Fondazione Brescia Musei, il Louvre, la National Gallery di Londra, l’Albertina di Vienna, l’Ashmolean Museum di Oxford, oltreché, naturalmente, dagli Uffizi, custode del maggior numero di lavori prodotti dal maestro del Rinascimento. Il percorso espositivo, con un comitato scientifico guidato da Sylvia Ferino e composto da un team di specialisti (Nicholas Penny, Barbara Jatta, Dominique Cordellier, Achim Gnann e Alessandro Nova), è centrato in particolare sul periodo romano di Raffaello e comprende capolavori quali la Madonna del granduca, la Velata (entrambi agli Uffizi), la Madonna Alba (National Gallery of Art di Washington). Catalogo Skira.


Raffaello, La velata (1512-1515 circa), Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

ART E DOSSIER N. 374
ART E DOSSIER N. 374
MARZO 2020
In questo numero: RISCOPERTE E RIFLESSIONI: Daverio: La luce di La Tour in un'Europa in guerra. Saffo nel Parnaso di Raffaello. La scultura performativa di Mary Vieira. . RESTAURI A FIRENZE: La Porta sud del battistero. IN MOSTRA: 3 Body Configutations a Bologna, Gio Ponti a Roma, Divisionismo a Novara, Tissot a Parigi, La Tour a Milano.Direttore: Philippe Daverio