Nella capitale, esiste(va) anche un altro palazzo insigne: quello del Servizio geologico, voluto da Quintino Sella e inaugurato da Umberto I, in largo di Santa Susanna: pieno centro. Nell’ex convento di Santa Maria della Vittoria, dal 1873 al 1881, lo realizza l’ingegnere Raffaele Canevari, con tecnologie innovative: riutilizza i muri del Seicento e, per il museo, crea sale sorrette da pilastri in ghisa, un ballatoio che sormonta il salone maggiore, urne, vetrine e scaffali. Tutto chiuso dal 1995. Poi nel 2010, durante i lavori di ristrutturazione, viene trovato nel sottosuolo un tempio del VI secolo a.C. Sentiamo ancora La Regina: «Dei musei geologici esistono a Londra, Parigi, Berlino, San Pietroburgo; ma questo è stato smantellato, e i materiali sono finiti in casse, privando così l’Italia di una gloria scientifica ». Come mai? Banale: per vendere l’immobile, nel quadro delle dismissioni dell’allora ministro Tremonti, era il 2004. Quindici anni più tardi, dopo infinite discussioni, si è deciso che sarà la sede del nuovo Fondo nazionale Innovazione, voluto dal ministro Di Maio. Però un altro bellissimo edificio liberty è stato svilito; quindicimila materiali di rilevante interesse paleontologico, mineralogico, petrografico, e numerosi plastici sono rimasti nelle cantine fino al 2012, poi sparpagliati in varie zone della città, e infine accumulati (e invisibili) all’Ispra - Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
A questi piccoli omicidi urbanistici se ne può aggiungere almeno un altro, non meno grave e anche più annoso: palazzo Nardini, in via del Governo Vecchio. Il nome della strada deriva proprio dalla funzione che l’edificio ha avuto per centotrent’anni, fino al 1755. È un raro esempio di architettura del Quattrocento, abitato da parecchi celebri porporati, sede della pretura e poi della Casa delle donne, da tempo in stato di terribile abbandono. Se ne era perfino iniziata la vendita (probabile destino, l’ennesimo hotel di lusso), però scongiurata in extremis dalla Soprintendenza; ma il suo futuro resta tenebroso. Ed è un vero peccato. Lo vuole, nel 1475, Stefano Nardini, cardinale e arcivescovo di Milano e poi governatore di Roma. Aveva già chiesto a papa Paolo II Barbo di acquistare una residenza sull’allora via Papalis, ma i proprietari non volevano cederla.
Impone la vendita il neoeletto Sisto IV della Rovere, e il cardinale spende trentamila ducati d’oro, una fortuna, nei lavori. Dona il tutto all’Ospedale lateranense del Santissimo Salvatore. Lo ricorda una targa marmorea sulla facciata di palazzo Nardini.
L’atto ne proibisce la vendita e con i proventi degli affitti obbliga a conservare il collegio nato con il palazzo e soppresso però nel 1760. Il portale era in via del Governo Vecchio «tra i più grandi, belli e ricchi del Rinascimento, per la purezza dei profili, il buon gusto e gli ornamenti», dice Paul Letarouilly, architetto e incisore francese (1795-1855), che illustra i tesori di Roma in un’opera celebre. Palazzo Nardini occupa un intero isolato, ventottomila metri quadrati: stanze, saloni, scale, gallerie; più volte rimaneggiato secondo gli inquilini e le destinazioni d’uso, e in modo sostanziale nell’Ottocento da Francesco Vespignani. Dal 1627 al 1755 era la sede del Governatorato di Roma, con gli uffici del tribunale, portati poi a palazzo Madama (già dei Medici: dove vivevano il cardinal del Monte e Caravaggio) insieme alla polizia e al fisco. E subito iniziano gli anni bui. Tutto è frazionato in appartamenti. Decade: lo mostra anche un acquerello di fine Ottocento di Ettore Roesler Franz. Vincolato dal 1954, era in vendita quando, a inizio 2019, la Soprintendenza aggiorna il vincolo.
La cessione dello stabile, che era stato pure sede della pretura, almeno quella, è annullata; ma adesso, che ne sarà? Tre casi soltanto, per celebrare la capitale d’Italia.
O dell’incuria?