«Navigare è indispensabile, non lo è sopravvivere ». Fu Pompeo Magno, proconsole romano, a gridarlo ai marinai che, per timore di una tempesta, ritardavano la partenza di un carico di cereali verso Ostia. Poche parole che condensano i rischi e insieme l’importanza di solcare i mari in epoca antica. Ma se nella vasta area dell’impero romano restano tracce imponenti del dominio dei grandi conquistatori, proprio il mare ha distrutto inesorabilmente il racconto di un pezzo fondamentale della loro storia, quello dei traffici marittimi con le lontanissime colonie. Per questo quando, nel 1998, lo scafo di una grossa imbarcazione del II secolo d.C. apparve, del tutto inaspettatamente, all’interno di un cantiere per la costruzione del nuovo centro direzionale delle Ferrovie, Stefano Bruni, allora archeologo della Soprintendenza, capì subito di essere di fronte a un evento eccezionale. Lì, a Pisa, nell’area dell’attuale stazione di San Rossore, numerose altre imbarcazioni vennero alla luce una dopo l’altra, molte di queste intatte, nonostante i duemila anni trascorsi a diversi metri di profondità. E con loro ricomparivano gli alberi, le vele, le ancore e i carichi, fatti di anfore piene di vino, di grano o di pesce conservato.