Musei da conoscere
Museo delle navi antiche a Pisa

LA POMPEIDEL MARE

Inaugurato il 16 giugno scorso, il Museo delle navi antiche accoglie negli Arsenali medicei sette imbarcazioni di età romana e molti reperti venuti alla luce durante un eccezionale scavo durato vent’anni. Tutto cominciò nel 1998 quando, durante i lavori della stazione ferroviaria di San Rossore, riemerse una nave del II secolo d.C.

Valeria Caldelli

«Navigare è indispensabile, non lo è sopravvivere ». Fu Pompeo Magno, proconsole romano, a gridarlo ai marinai che, per timore di una tempesta, ritardavano la partenza di un carico di cereali verso Ostia. Poche parole che condensano i rischi e insieme l’importanza di solcare i mari in epoca antica. Ma se nella vasta area dell’impero romano restano tracce imponenti del dominio dei grandi conquistatori, proprio il mare ha distrutto inesorabilmente il racconto di un pezzo fondamentale della loro storia, quello dei traffici marittimi con le lontanissime colonie. Per questo quando, nel 1998, lo scafo di una grossa imbarcazione del II secolo d.C. apparve, del tutto inaspettatamente, all’interno di un cantiere per la costruzione del nuovo centro direzionale delle Ferrovie, Stefano Bruni, allora archeologo della Soprintendenza, capì subito di essere di fronte a un evento eccezionale. Lì, a Pisa, nell’area dell’attuale stazione di San Rossore, numerose altre imbarcazioni vennero alla luce una dopo l’altra, molte di queste intatte, nonostante i duemila anni trascorsi a diversi metri di profondità. E con loro ricomparivano gli alberi, le vele, le ancore e i carichi, fatti di anfore piene di vino, di grano o di pesce conservato.


Alkedo, l’ammiraglia della flotta, dalla prua ancora provvista di tagliaflutti appuntito per solcare il mare con più velocità


È stato lo “scavo delle meraviglie”, con tredicimila anfore recuperate, frammentate o intere, e trenta relitti individuati, oltre alle monete, al vasellame, ai vestiti e a tutti gli altri oggetti di uso quotidiano nella vita di bordo. La tecnica ha fatto la sua parte permettendo il restauro di sette imbarcazioni, oggi esposte in un museo scenografico sulle rive dell’Arno a Pisa. I cinquemila metri quadrati di superficie espositiva ricavati nei cinquecenteschi Arsenali medicei raccontano mille anni di storia, quelli compresi tra il III secolo a.C. e il VII d.C. È un altro mondo che ci viene incontro, un mondo lontano, ma reale, quasi da toccare con mano. «Abbiamo voluto eliminare il “feticismo del reperto”, rimuovendo il più possibile le barriere visive che separano il visitatore dall’oggetto, così da renderlo anche psicologicamente più vicino a noi e quindi di più facile comprensione», spiega Andrea Camilli, archeologo, per vent’anni direttore dello scavo, curatore del museo e responsabile del progetto per la Soprintendenza di Pisa e Livorno.

Alkedo (0-15 d.C.). Il nome della nave, che in greco significa Gabbiano, è stato ritrovato inciso su una tavoletta.


Nave D (VI secolo d.C.), grande barcone fluviale adibito al trasporto della sabbia, è la più antica attestazione della tecnica costruttiva navale a scheletro.

Eccoci, allora, su Alkedo, l’ammiraglia della flotta, dalla prua ancora provvista di tagliaflutti appuntito per solcare il mare con più velocità. Sui sei banchi di voga sedevano i dodici rematori, quasi sicuramente schiavi; uno di loro indossava una giacca di pelle rattoppata. Il proprietario dell’imbarcazione, probabilmente un ricco signore che la usava nel tempo libero per brevi viaggi, amava la velocità e il bel vivere. Vista la sua forma di nave da guerra, la più “spinta” che i romani conoscevano, poteva raggiungere, infatti, anche i trenta chilometri orari. Nella cambusa venivano custodite salse di pesce, vino cotto e olive da offrire agli ospiti. Aguzzando gli occhi, su una fiancata della prua, Alkedo ha ancora i segni dell’occhio portafortuna che i romani usavano dipingere sulle loro imbarcazioni per ingraziarsi le divinità. E quando innalzarono l’albero maestro, lasciarono la consueta monetina nella scassa, altra tradizione marinaresca dell’antichità. Come per miracolo quella monetina era ancora lì con impressi i volti di Augusto e Livia: ci dice che il varo avvenne nel 14 d.C. e che dunque la nave affondò nella devastante alluvione al termine dell’età augustea o negli anni immediatamente successivi. Alkedo, cioè Gabbiano, è la parola incisa a sgorbia con caratteri greci su una tavoletta. «Abbiamo dedotto che si trattasse del nome dato all’imbarcazione », dice Camilli. «Ma siamo aperti ad altre spiegazioni. Tutta la scienza è fatta di continue modifiche». Se Alkedo è una imbarcazione da diporto e potrebbe essere considerata l’antenata dei moderni yacht, il primo relitto tornato alla luce nel 1998 sembra essere invece il progenitore dei grossi mercantili. Navigava nel II secolo d.C. e ormeggiava con una meravigliosa e gigantesca ancora di legno in cui è inciso un pesce angelo.

Altri relitti sono stati già individuati, ma nuove scoperte si attendono ampliando l’area indagata

Nei suoi quaranta metri di lunghezza trasportava un carico di conserve di frutta contenute in anfore riciclate: una di queste era ancora piena di fichi. D’altronde il commercio era l’anima dell’impero e l’importazione di cibo e bevande assolutamente vitale per Roma. Facendo un passo indietro e raggiungendo il II secolo a.C. incontriamo un’altra nave - detta ellenistica - che faceva la spola tra la Spagna e la Campania, toccando vari porti del Mediterraneo. Dell’imbarcazione sono rimaste solo piccole parti ed è il carico che trasportava a parlare. Oltre trecento le anfore e molte le scapole di suino, tutte destre, quindi - secondo le stime dell’epoca - della migliore qualità. Un dente di leonessa attaccato a un pezzo di mandibola fa pensare che la barca, lunga quattordici metri, fosse partita dalle coste dell’Africa, dove si caricavano le bestie feroci destinate ai combattimenti con i gladiatori. Poco distante, sepolto dal carico di un’altra nave, nelle cui anfore veniva trasportata sabbia per la smerigliatura di pietre e marmi, è emerso lo scheletro di un uomo alto e robusto, quarant’anni, forse addetto alle sartie o ai carichi, e , accanto a lui, quello di un cane di piccola taglia, spesso utilizzato nelle imbarcazioni per la caccia ai ratti. Morirono nella stessa alluvione che affondò Alkedo, all’inizio del I secolo d.C.


Alkedo (0-15 d.C.), particolare della prua.

Alkedo (0-15 d.C.), vista da poppa.

Era dura la vita in mare. Non solo perché faticosa. Ci si orientava alla meglio col sole durante il giorno e con le stelle nella notte. Ma un cielo nuvoloso bastava a far perdere la rotta. Le tempeste arrivavano improvvisamente, potevano alzarsi venti svantaggiosi e imperversare uragani. A volte ci si salvava gettando il carico in mare, in altri casi (non pochi) la barca affondava con tutti gli uomini. Per questo bisognava in tutti i modi ottenere il favore degli dèi. Un grosso fallo a forma di membro di cane, antenato del nostro corno, è stato trovato su una nave del III secolo d.C. Piccoli mestoli, oggetti molto ricercati e costosi, erano un po’ dappertutto: ci rimandano al culto egiziano di Iside, quando il sacerdote vi raccoglieva le acque del Nilo per aspergere i navigli in segno di benedizione. Se poi succedeva di ammalarsi o di ferirsi con un chiodo o con una cima, allora per curarsi si usava una pomata nera, a base di catrame, che si pensava servisse a chiudere le ferite. Un barattolo di questa pomata era custodito gelosamente nella cassetta di un marinaio, forse il comandante, che viaggiava su una imbarcazione non ancora individuata. Frugando al suo interno è apparso un sacchetto di fibra vegetale con centosettanta sesterzi - la paga mensile di un marinaio -, un acciarino con la pietra focaia, un astuccio per le penne e il bastoncino su cui si arrotolava una lettera. Non c’è da stupirsi: i marinai erano uomini liberi e spesso, in particolare i comandanti, sapevano leggere e scrivere. Però facevano parte delle caste più basse e si vestivano, come ricorda Plauto nella sua commedia Miles gloriousus, con cappellacci, cinture e mantelle scolorite, portate allacciate su una spalla. Dalla terra di San Rossore ecco allora ricomparire la fibbia della cintola, il ciuffo finale della cuffia, i sandali di legno.

È la potenza narrativa dell’archeologia che ci porta anche a condividere i loro giochi, dal “tris” al “ludus latrunculorum”, che era una sorta di dama, mostrandoci le pedine e i dadi, spesso truccati, girati dentro le fritille, piccoli vasetti di ceramica, prima di essere lanciati. Davvero una “Pompei del mare” quella racchiusa nei quattrocento metri quadrati dello scavo di San Rossore, che in epoca romana accoglievano il passaggio dell’Auser, l’antico nome del Serchio, mentre più a valle e poco distante scorreva l’Arno. Era dunque un porto fluviale, ad alcuni chilometri dalla costa, quello dove le navi attraccarono per oltre mille anni; un bacino considerato sicuro e facilmente raggiungibile grazie a una fitta rete di canali navigabili creati dall’uomo con cui i due fiumi erano collegati. Ma in particolari condizioni climatiche, quando le piene dell’Arno non venivano assorbite dal mare, il fiume esondava e una sorta di tsunami si riversava sulle barche in porto, inabissandole. Le disastrose piene avvenivano con cadenza ciclica, all’incirca ogni sessant’anni, ma nessuno pensò mai di recuperare i relitti, né di spostare altrove quel facile approdo. Così, seppellite dal fango delle alluvioni, le navi sono rimaste per secoli in una sorta di sottovuoto privo di ossigeno in cui funghi e batteri non si sono diffusi, permettendo al legno di conservarsi. Proprio perché il porto era ricavato nel bacino naturale di un fiume, l’area era frequentata anche da battelli fluviali, usati per il trasporto locale. Il più piccolo ha una forma affusolata, è lungo nove metri e veniva manovrato con una pertica, remando da un solo lato, come oggi si fa con le gondole. A fare le spese della violenta ondata di marea del III secolo d.C. fu invece un traghetto a fondo piatto e dalla struttura larga, con la chiglia rinforzata per affrontare i fondali bassi. Era guidato da riva con un argano, attraverso un complicato sistema di funi e clavicole. Il più “giovane” relitto è infine un barcone fluviale usato per trasportare la sabbia. L’albero e il pennone ci sono ancora e il ponte è perfettamente conservato. Siamo nel VII secolo: è l’ultima funesta alluvione conosciuta, che sposterà anche il corso dell’Auser. Lo scavo, invece, non è mai arrivato alla conclusione.
Non solo altri relitti sono stati già individuati, ma nuove scoperte si attendono ampliando l’area indagata. Tuttavia gli archeologi hanno fermato la ricerca. «Abbiamo migliaia di reperti da esaminare: dobbiamo studiare e capire ciò che è già tornato alla luce prima di riprendere l’esplorazione», ammonisce Camilli. Grazie a un finanziamento statale di diciassette milioni di euro, il Museo delle antiche navi di Pisa è oggi il più grande museo di imbarcazioni antiche esistente. La conservazione dei beni culturali vale anche più di una scoperta. Il futuro può attendere.


L’evoluzione delle forme delle anfore attestate a Pisa dal IV secolo a.C. al VI sec. d.C.;

Monete e riproduzione del sacchetto in fibre vegetali che le contenevano.


Museo delle navi antiche

Museo delle navi antiche
Pisa, Arsenali medicei, lungarno Ranieri Simonelli
progetto a cura della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Pisa e Livorno
direttore dello scavo, curatore del progetto e del museo: Andrea Camilli
orario 10.30-18.30, mercoledì 14.30-18.30
chiuso lunedì, martedì e giovedì
info: info@navidipisa.it, telefono 050-8057880
per gruppi e scuole: prenotazioni@navidipisa.it, telefono 050-47029
Guida del museo edita da Pacini Editore
www.navidipisa.it

ART E DOSSIER N. 372
ART E DOSSIER N. 372
GENNAIO 2020
In questo numero: VALLOTTON Il lato ombroso dei Nabis; RESTAURI Doppio Angelico a Firenze; IMPRESSIONISTI DISPERSI Il Monet parmigiano, I Cézanne fiorentini; IN MOSTRA: Boltanski a Parigi. Medardo Rosso a Roma. Gauguin a Londra. La Mellon Collection a Padova. Valadier a Roma. Direttore: Philippe Daverio