Grandi mostre. 2 
Betye Saar a New York


LA SCIAMANADEL RIUSO


Alla veneranda età di novantatre anni, l’afroamericana Betye Saar approda al MoMA con la sua prima personale. Vicina alle lotte per i diritti dei neri in America, con particolare attenzione alle donne, l’artista, militante del Black Arts Movement, ha fatto delle sue opere (realizzate perlopiù attraverso l’assemblaggio di oggetti di scarto) frammenti di storie reali, intrise di contenuti mistici e simbolici.


Riccarda Mandrini

Betye Saar è nata a Los Angeles nel 1926. L’artista appartiene a quella generazione di autori afroamericani moderni lasciati da parte per una questione di razza, come aveva fatto notare qualche tempo fa Nigel Freeman – specialista di Swann Auctions Galleries (l’unica casa d’aste in America con un dipartimento dedicato a questo segmento) – in occasione di una presentazione di opere per l’incanto African-American Fine Art (la prima vendita dello stesso genere risale al 2006).
Nel caso degli autori afroamericani, il mercato dell’arte, come spesso succede, ha fatto bene la sua parte. Grazie alle vendite di Swann artisti già scomparsi o molto anziani hanno riscosso una notorietà inattesa. Tra questi, “must” quali Alma Thomas (1891-1978), la scultrice Augusta Savage (1892-1962), Norman Lewis (1909-1979), Charles White (1918-1979), Elizabeth Catlett (1915-2012), Jacob Lawrence (1917-2000).
Nei musei statunitensi l’arte afroamericana moderna è una delle categorie tra le più “underrepresented”. Anche se nei caveau si trovano numerose opere, la loro presenza nelle sale è esigua e ancora più ridotto è il numero di mostre che le vede protagoniste. Emblematico il fatto che Betye Saar abbia inaugurato solo all’età di novantatre anni la sua prima personale al MoMA di New York.
L’artista ha fatto parte di una straordinaria generazione di autori afroamericani (oltre a quelli appena menzionati) del calibro di Sam Gilliam (1933), Faith Ringgold (1930) e Romare Bearden (1911-1988).
La sua biografia ci dice che Betye era di famiglia agiata. I suoi genitori si erano conosciuti alla California University di Los Angeles, la stessa università dove lei otterrà un diploma in design.
Saar subito dopo la laurea inizia una carriera come insegnante di design, mentre quella di artista richiederà un tempo maggiore di maturazione. In questo ambito, i suoi primissimi riferimenti culturali furono Joseph Cornell e Simon Rodia, entrambi virtuosi sperimentatori della pratica dell’“assemblage” di “discarded object”, l’oggetto di scarto. L’esperienza della costruzione delle Watts Towers (Los Angeles) da parte di Rodia, di cui Saar fu testimone, fu determinante nella formazione di quell’estetica dell’“assemblage” che ne caratterizzerà buona parte del lavoro.

Inaugurata di recente la più imponente scritta al neon, Sentences. Time, Past, Present and Future, realizzata da Maurizio Nannucci per illuminare i muri del cortile principale del palazzo della Pilotta di Parma



La scelta della pratica del riuso come strumento, intesa come “critical appropriation”, appartiene culturalmente a più di un artista afroamericano, sia della generazione di Saar che di quelle successive.
Faith Ringgold – il cui lavoro è stato ignorato per decenni, tanto dall’aver wavuto solo all’età di ottantanove anni la prima personale europea alla Serpentine di Londra (6 giugno - 7 settembre 2019) – alla fine degli anni Sessanta scelse di usare ritagli di stoffa per creare i “quilt”, le classiche trapuntine in cui rappresentava veri e propri paesaggi, espressione del mondo che la circondava e che ogni giorno aveva di fronte ad Harlem.
I “quilt”, nella casistica del design, sono considerati Folk Art. Nel lavoro di Ringgold sono l’espressione della creatività e del lavoro femminile collettivo, quello che le donne di colore svolgevano insieme, dando nuova vita a ritagli di stoffa che qualcun altro avrebbe gettato.
Il “quilt” come oggetto è emblematico di un certo mondo afroamericano del passato, tanto che un artista come Sam Gilliam, che della sua afroamericanità non ha mai fatto una bandiera, dopo aver sperimentato l’arte astratta nelle più eccelse forme concettuali, l’ha adottato in alcuni lavori come medium.
La tecnica del ritaglio di carta, nella forma del collage, invece, fu usata da Romare Bearden per creare opere in cui l’artista rappresentava la storia e la vita degli afroamericani. Gli stessi temi, sul modello di una “imagery” simile, sono stati ripresi da Kerry James Marshall (1955) nelle sue enormi tele.
Saar realizzerà il suo primo vero e proprio gruppo di opere a Los Angeles tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. La scelta personale, a tratti intima, dell’uso dell’“assemblage” come tecnica, sposerà i temi forti legati alla protesta sociale in difesa dei diritti della gente di colore, temi condivisi con gli artisti che facevano parte del Black Arts Movement. Ufficialmente periodizzabile tra il 1965 e il 1976, il movimento diede un forte impulso alla creazione di una nuova estetica in termini di African-American Fine Arts.
Los Angeles in quegli anni fu uno degli epicentri del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Vi aderirono musicisti, attori e artisti quali Charles White, pioniere del realismo sociale, che dal 1956 si stabilì a Los Angeles con la moglie, la scultrice Elizabeth Catlett, per insegnare all’Otis College of Art and Design; Noah Purifoy (1917- 2004) fondatore del Watts Towers Arts Center, situato in prossimità delle Watts Towers di Simon Rodia; John Outterbridge (1933), John Thomas Riddle (1934-2002).
Nel sobborgo di Watts, a Los Angeles (dove Saar aveva vissuto), crearono una vera e propria “community”. Qui, attraverso la pratica artistica, esplorarono le narrazioni proprie della cultura afroamericana e seppero darle una forma compiuta attraverso l’utilizzo di un “up and down” di tecniche che andavano dalla pittura al disegno, alle diverse forme dell’“assemblage”, con la pretesa e l’obiettivo di ridefinirne l’interpretazione storica.


Tutte le opere di Betye Saar riprodotte in questo articolo sono conservate al MoMA - Museum of Modern Art di New York.


Michele Mattei, Betye Saar (2012), New York, MoMA - Museum of Modern Art Archives.


Black Girl’s Window (1969).

Certo, la semplice appropriazione della Folk Art sarebbe stata poca cosa se al loro lavoro non avessero associato l’impegno sociale come attivisti del Black Arts Movement.
La mostra al MoMA prende il titolo da un’opera emblematica di Betye Saar, Black Girl’s Window (1969). Questo lavoro poggia appieno sulle tematiche che diventeranno una presenza costante nella sua produzione artistica: l’utilizzo dell’oggetto di scarto nella forma dell’“assemblage” come “tool” narrativo e la presenza dell’aspetto mistico quale fonte di fascinazione immateriale e di costante ispirazione per la poetica dell’artista.
In Black Girl’s Window, Saar usa per la prima volta una cornice della finestra come elemento portante dell’opera/quadro. Quella cornice era di fatto un “found object” che aveva trovato mentre camminava durante una vacanza a Big Bear Lake a San Bernardino (California).
Il supporto-finestra verrà riempito ogni volta e in ogni nuovo successivo lavoro per creare un’antologia di storie al centro della quale domina l’immagine della donna di colore, a cui l’artista dedicherà negli anni una narrazione ricca di sfumature.


Anticipation 1961).

Saar si è sempre schierata contro la repressione sociale e in difesa dei diritti degli afroamericani e puntualmente si è espressa contro la strumentalizzazione dell’immagine del corpo della donna a fini commerciali.
Quando le fu chiesto di partecipare alla mostra Black Heroes (1972) che sarebbe stata ospitata al Rainbow Sign Cultural Center, uno spazio situato nella Black Panthers Community di Berkeley (California), l’artista presentò The Liberation of Aunt Jemima, dove invece della sorridente massaia di colore rappresentata sulla scatola dei “pancakes”, era raffigurata una domestica afroamericana che reggeva sia la scopa che il fucile e poggiava i piedi su una nuvola di cotone. La data dell’opera era 1972.


To Catch a Unicorn (1960).

In breve:

Betye Saar: The Legends of Black Girl’s Window
New York, MoMA - Museum of Modern Art
a cura di Christophe Cherix, Esther Adler, Ana Torok e Nectar Knuckles
fino al 4 gennaio 2020
orario 10-17.30, venerdì e il primo giovedì del mese 10-21
catalogo Paperback
www.moma.org

ART E DOSSIER N. 371
ART E DOSSIER N. 371
DICEMBRE 2019
In questo numero: L'ANNO CHE VERRA'. Le celebrazioni di Raffaello. CURIOSITA' ICONOGRAFICHE. Un occhio ci guarda dal cielo. MAGONZA. Una capitale per molti imperi. IN MOSTRA Training Humans a Milano; Betye Saar a New York; Blake a Londra; Da Artemisia a Hackert a Caserta; De Hooch a Delft; Maes all'Aja; Giulio Romano a Mantova; La collezione Alana a Parigi.Direttore: Philippe Daverio