Studi e riscoperte. 1
Linee rette, linee curve

LA CURVA
DELLA BELLEZZA

Rette e curve, rigide geometrie e giocose rotondità si sono inseguite nel corso della storia dell’arte collegandosi all’alterno prevalere di diversi atteggiamenti mentali, gusti estetici, inclinazioni morali. E definendo il concetto di bellezza in differenti contesti culturali.


Rossana Mugellesi, Stefania Landucci

Così recita una frase di Aristotele messa in relazione alla felicità: «La guerra è in vista della pace, il lavoro è in vista del riposo, le cose utili sono in vista delle cose belle». Se ne deduce che, per essere felici, bisogna privilegiare la pace, il riposo e la bellezza. Colpisce l’accostamento di felicità e bellezza, in un’ottica diversa dal concetto romano espresso nel “carpe diem” di Orazio: qui la felicità non è duratura, non è una linea ma una sequenza discontinua di punti che vanno colti al volo per sperare in una vita meno grama. L’intreccio di questi concetti, con probabile richiamo al filosofo greco, sembra emergere dalle riflessioni di uno dei più importanti architetti del Novecento, Le Corbusier: «Lo spirito creativo si afferma dove regna la serenità». La sua formazione si basava su fondamenta idealistiche ma presentava molte idee razionaliste e potremmo dire che proprio dall’amalgama di queste due filosofie risulta parte della grandezza di questo artista.

Le Corbusier era svizzero e in Svizzera aveva sviluppato il suo stile razionalista, tutto linee e angoli retti: «Ciò che io amo è la linea retta, la linea più breve fra due punti, la linea creata dall’uomo, la linea dei boulevard […]. La vita della città moderna è tutta impostata, praticamente, sulla linea retta […].

Tortuosa è la strada dell’asino, dritta quella dell’uomo. La strada a curve è un risultato arbitrario, frutto del caso, della noncuranza, di un fare puramente istintivo. La strada rettilinea è una risposta a una sollecitazione, è frutto di un preciso intervento, di un atto di volontà, un risultato raggiunto con piena consapevolezza.


Il bello si presenta come qualcosa di enigmatico, sfuggente, che si deve continuamente rincorrere


È una cosa utile e bella». Il suo pensiero si contrappone a quello del giovane allievo (con cui progettò il palazzo delle Nazioni Unite di New York) Oscar Niemeyer, maturato nella cultura latinoamericana, diametralmente opposto al razionalismo elvetico di Le Corbusier: «Ciò che io amo non è la linea retta, dura e inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che io amo è la linea curva, libera e sensuale. La linea che incontro nei fiumi e nei monti del mio paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo: l’universo curvo di Einstein»(1).
È la stessa linea di Friedensreich Hundertwasser, artista poliedrico, pittore e soprattutto architetto che, influenzato dalla sensualità del Barocco austriaco e dalla sinuosa ornamentazione dello Jugendstil, dichiara la più totale avversione per la razionalità rettangolare: egli sostiene che la linea retta fa ammalare l’uomo perché non esiste in natura e ancora che la natura della linea retta è aliena all’uomo, alla vita, all’intero creato. Ne sono testimoni le sue opere architettoniche dalle rotondità quasi fantastiche.


Le Corbusier, Unité d’habitation (1947-1952), Marsiglia.

L’arco, inventato dagli etruschi e poi mutuato dai romani, è il primo elemento a linea curva che compare nella storia dell’architettura, una sorta di contrasto alla severa eleganza della retta. Una simile opposizione potrà ritrovarsi, per esempio, nell’architettura barocca o anche nell’architettura organica di Wright, Aalto e Saarinen, le cui curve avvolgenti rispondono, per contrasto, proprio al rigore della scuola di Le Corbusier.
Fin dall’antichità la scienza si era interessata alla linea curva (onda, linea dell’orizzonte, corpo umano) ma spesso solo per ricondurla alla retta (quadratura del cerchio, rettificazione della circonferenza, cubatura della sfera): in effetti una curva a S sembrava rivestirsi di forte negatività rispetto alla regolarità di una retta(2), quasi possedesse una particolare forza di seduzione, una bellezza pericolosa attraverso le sue vie tortuose(3).
Non sfuggì però agli antichi poeti il fascino della prodigiosa linea curva rappresentata dall’arcobaleno e personificazione di Iride, messaggera degli dèi dotata di caduceo, ali, calzari alati e vesti svolazzanti. Così scrive Virgilio in Eneide, IV, 700-701: «Iride rugiadosa con crocee penne, nel cielo traendo mille vari colori dal sole»; e in IX, 14-15: «Disse e si levò nel cielo ad ali tese, e sotto le nubi tracciò nella fuga un arco immenso»; la bellezza dell’arcobaleno su un cielo dopo la tempesta mantiene intatto il suo fascino in Turner, Lago di Buttermere, Cumberland, un acquazzone (1798).

Un aneddoto di Plinio, nella sezione della sua Storia naturale dedicata all’arte, sembra ricondurre al potere della linea curva: «Tra Protogene e Apelle accadde un divertente episodio. Protogene viveva a Rodi, e Apelle, appena sbarcato là, subito si diresse verso la sua bottega, ansioso di conoscere direttamente le opere di quell’artista, che gli era noto soltanto di fama. Protogene era assente e una vecchia era l’unica custode di un quadro di notevole grandezza posto sul cavalletto. Essa rispose che Protogene era fuori e gli chiese chi dovesse dirgli che lo aveva cercato. “Questo”, disse Apelle, e, preso un pennello, tracciò nel quadro una linea colorata estremamente sottile. Al ritorno la vecchia raccontò a Protogene ciò che era successo. Raccontano che l’artista, vista la sottigliezza della linea, dapprima disse che era venuto Apelle - nessun altro poteva fare nulla di così perfetto -; poi, all’interno di quella, tracciò una linea ancora più sottile di altro colore e, andandosene, le ordinò, se quello fosse tornato, di mostrargliela e di aggiungere che questo era l’uomo che lui cercava. E così fu. Infatti Apelle ritornò e vergognandosi di essere stato vinto, con un terzo colore tracciò un segno interno alle linee esistenti, non lasciando spazio a un tratto più sottile. Ma Protogene, riconoscendosi vinto, si precipitò al porto a cercare l’ospite e decise, così com’era, di lasciare ai posteri quel quadro oggetto di ammirazione per tutti, ma in particolare per gli artisti»(4).

Certo non viene esplicitato il tipo di linea capace di identificarne con tanta chiarezza l’artefice, ma se fosse stata una semplice linea retta, seppure straordinariamente sottile, non avrebbe rivelato le capacità di un grande pittore, cosa che invece avrebbe potuto fare una linea particolare, originale, rara come quella serpentina.


Lago di Buttermere, Cumberland, un acquazzone (1798), Londra, Tate.

Così ipotizza William Hogarth nel suo trattato L’analisi della bellezza (1753) e indica nel precetto di Michelangelo (comporre sempre una figura piramidale a forma di serpente e moltiplicarla per uno, due e tre) il mistero dell’arte, «poiché la somma grazia e vita che un dipinto possa acquisire risiede nel fatto che esprime il movimento: ciò che i pittori chiamano lo spirito di un quadro»(5). Hogarth divide dunque le linee in quattro classi individuando nella terza, quella ondeggiante, la linea della bellezza, e nella quarta, quella serpentina, la linea della grazia: «La linea ondeggiante, o linea della bellezza, poiché varia ancor di più, essendo composta di due curve che si contrappongono, diventa ancora più ornamentale e bella nella misura in cui la mano compie un movimento animato nel tracciarla a penna o a matita. E la linea serpentina, per il suo ondeggiare e contorcersi allo stesso tempo in modi diversi, conduce l’occhio in modo piacevole lungo il flusso continuo della varietà(6)».

Kandinskij, in Punto Linea Superficie (1926), sostiene che la linea curva è essenzialmente la linea retta che, forzata da pressioni esterne, cambia movimento e direzione, fino a formare una o più curve dall’andamento morbido. Subentrano così le sensazioni di libertà, morbidezza, irregolarità, vivacità, caratteristiche che offrono varie sensazioni: questo tipo di linea indossa tutta la gamma di colori che variano dal giallo al blu(7).

Viene così riconsiderato il legame classico tra bellezza e proporzione a favore di una bellezza inafferrabile e insieme reale, la cui varietà sembra corrispondere a un ordine grammaticale e filosofico del mondo, a una geometria delle passioni. “Variety” è una parola che compare nel dialogo tra Mecenate ed Enobarbo in Antonio e Cleopatra di William Shakespeare e definisce l’incanto e la misteriosa eternità della bellezza: «L’abitudine non può rendere insipida la varietà indefinita della bellezza», varietà indefinita che forse è tale anche per quel certo “non so che” cui già Platone aveva alluso nell’erotica del bello, quell’“allo ti” che coinvolge l’animo degli amanti senza che sappiano cosa sia o siano capaci di esprimerlo: «Il “non so che” è importante perché, ponendo l’accento proprio sull’incalcolabilità dell’opera d’arte, esige un elemento di creatività non programmabile in anticipo.


Pierre-Hubert Subleyras, Nudo femminile di schiena (1740), Roma, Galleria nazionale d’arte antica.

Il bello, sia nella natura che nell’arte, si presenta come qualcosa di enigmatico, sfuggente, che si deve continuamente rincorrere (“Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, scriveva De Chirico in calce ai suoi quadri tra il 1908 e il 1911)»(8).

Questo tipo di bellezza “intricata”(9), tipica dei percorsi rampicanti o dei fiumi serpeggianti o di altri elementi della natura si riflette anche nella capigliatura femminile dai riccioli fluenti: l’occhio è come rapito dalle loro pieghe ondulate specie se mosse da una lieve brezza. I poeti, così come i pittori, hanno subìto il fascino dei riccioli che ondeggiano al vento: lo scriveva Leonardo nel Trattato sulla pittura («Fa tu adunque alle tue teste gli capegli scherzare insieme col finto vento intorno agli giovanili volti, e con diverse revolture graziosamente ornargli») testimoniandolo con La Scapiliata e lo ritroviamo in Picasso, Portrait de Françoise (1946), e nella capigliatura aerea fotografata da Avedon in Twiggy, hair by Ara Gallant (1968).

Accanto alla morbidezza dei riccioli, il corpo femminile con la sua elegante rotondità e tutta la grazia delle sue linee, le curve di un seno che allatta - Erwitt, Scatti personali, New York City (1977) - o il potere di attrazione irresistibile di una schiena e di due fianchi secondo l’eterno modello della Venere distesa.

Velázquez, Venere allo specchio (1648 circa): rappresentare la dea nuda e supina non avrebbe costituito una novità ma dipingerla di schiena fu un’innovazione iconografica che, seppur dettata in parte dal timore dell’Inquisizione, avrebbe avuto lunga fortuna. Priva degli accessori mitologici (gioielli, rose, mirtilli) con cui era tradizionalmente ritratta fin dall’antichità, Venere sta fissando uno specchio retto da Cupido e, pur rivolgendo lo sguardo all'osservatore del dipinto mediante la sua immagine riflessa nello specchio, il suo volto è confuso e non ben identificabile. Le pieghe delle lenzuola su cui è adagiata la dea riproducono, quasi enfatizzandole, le curve del suo corpo, la cui carnagione, dai toni rossi, bianchi, grigi, è evidenziata dal contrasto cromatico fra i toni caldi dei tendaggi e quelli freddi delle lenzuola. La dea appare languidamente distesa per tutta la larghezza del quadro ed è descritta dal pittore con una linea elegante e sinuosa che modula sapientemente forme quasi sfuggenti.

La loro morbidezza sensuale racconta un intimismo lirico che suggestionerà molti pittori successivi, dallo splendido Nudo femminile di schiena di Pierre-Hubert Subleyras (1740) al Nudo di donna visto di schiena di Pierre-Auguste Renoir (1909), un grande omaggio alla bellezza del corpo femminile.


Elliott Erwitt, Scatti personali, New York City (1977).

(1) D. De Masi, Il mondo è giovane ancora. Conversazioni sul futuro con Maria Serena Palieri, Milano 2018, pp. 278-279.

(2) Nel 1730 Serpentine denominava il progetto di un lago a Hyde Park, a Londra, che la regina Caroline fece realizzare al posto di un lago rettangolare: uno specchio d’acqua curvo in grado di rispecchiare le naturali ondulazioni del terreno e, attraverso il nome, quasi alludere a qualcosa di diabolico, di luciferino.

(3) A. McRobie, The seduction of curves. The lines of beauty that connect mathematics, art and the nude, Princeton (N. J.) 2017.

(4) Plinio, Storia naturale, XXXV, Torino 1988, pp. 380-383.

(5) W. Hogarth, L’analisi della bellezza, Milano 2001, p. 34.

(6) Ivi, p. 67.

(7) W. Kandinskij, Punto Linea Superficie, Milano 1968.

(8) R. Bodei, Le forme del bello, Bologna 2017, p. 58.

(9) E. Burke, in U. Eco, Storia della bellezza, Milano 2012, p. 257: «Dove la bellezza trovasi al più alto grado, cioè nel sesso femminile, porta quasi sempre seco un’idea di debolezza, e di imperfezione».

ART E DOSSIER N. 370
ART E DOSSIER N. 370
NOVEMBRE 2019
In questo numero: Palazzo Grimani La collezione del patriarca. Eros e Bellezza Giù le mani da Susanna. Elogio della curva. Se la grottesca accende la fantasia. In mostra:Bacon a Parigi. Chagall, Picasso, Mondrian ad Amsterdam. Goncarova a Firenze. Rembrandt e Velázquez ad Amsterdam. Gli aztechi a Stoccarda.Direttore: Philippe Daverio.