Grandi mostre. 5
Tessuti ebraici a Firenze

I COLORI
DELL’ITALIA EBRAICA

Fin dal XV secolo, in Italia, tessuti sontuosi erano donati alle sinagoghe come paramenti liturgici dalle famiglie ebraiche più in vista: erano pesso scampoli recuperati dai cenciaioli del ghetto, poi ricamati con eccelsa maestria dalle donne di casa. Questa è una fra le storie raccontate da un’affascinante mostra in corso agli Uffizi, attraverso arte, moda e collezionismo, persecuzioni e imprenditorialità, sacro e profano.


Dora Liscia Bemporad

Il lusso dei paramenti sinagogali e in particolare di quelli romani non deve trarre in inganno. Molti sono solo la rielaborazione di abiti, tendaggi, arredi tessili ormai dismessi, che in origine facevano parte dei complementi di case, palazzi e chiese. La moda degli abiti si è sempre svolta in parallelo con quella dei tessuti ed aveva una vita di circa trenta o quarant’anni. Montare un telaio da velluti e da broccati era un lavoro complesso che comportava tempi lunghissimi e un’alta specializzazione. Organizzare gli orditi, che potevano raggiungere il numero di cento fili a centimetro, e preparare lo schema con cui questi si intrecciavano alle molteplici trame era un lavoro di alta capacità e assai laborioso. Le trame d’oro e d’argento erano a tal punto preziose che in alcuni e non rari episodi i tessuti venivano bruciati per recuperare i metalli preziosi. Gli abiti dismessi della nobiltà e dei ceti più facoltosi che erano dati in pegno o si accumulavano nelle botteghe dei cenciaioli e degli straccivendoli ebrei finivano per essere apprezzati al di là delle voghe vestimentarie. Infatti, una conseguenza della bolla emanata nel 1555 da papa Paolo IV contro gli ebrei e che infliggeva loro la pena, essendo colpevoli di deicidio, di essere rinchiusi nei ghetti e di esercitare il solo mestiere di «cenceriae seu strazzeriae» fu che essi avevano a disposizione una grande quantità di materiale di pregio che impararono ben presto ad apprezzare. La medesima condanna li rendeva, secondo gli intenti dei legislatori, una classe non disutile alla società, perché il riciclo dei cenci non colorati, meglio se bianchi e di origine vegetale (cotone, lino, canapa), avrebbe alimentato una delle industrie maggiormente in espansione nel Cinquecento, ossia la produzione della carta per l’editoria che in pochi anni contava un incredibile numero di titoli.

Tra i tanti manufatti raccolti dai cenciaioli ci potevano essere anche abiti sontuosi


Quello dei cenciaioli era un lavoro orribile, perché molti dei cenci provenivano da vesti, biancheria, “sciugatoi” e lenzuola usate negli ospizi, negli ospedali, nei lazzaretti, intrisi quindi di ogni lordura, tanto che si pensava che il puzzo che aleggiava nei ghetti, specie in quello di Roma, fosse intrinseco alla natura stessa degli ebrei. Tuttavia, tra i tanti manufatti tessili che venivano raccolti, ci potevano essere anche abiti sontuosi. Un esempio tra tutti è costituito da una serie di arredi sinagogali costruiti utilizzando un tessuto con le armi di Cristina di Svezia, la quale, si era stabilita a Roma nel 1655 dopo essersi convertita al cattolicesimo. Vi morì nel 1689 e alcuni drappi, tra cui quello che probabilmente ricopriva l’interno della carrozza reale, furono acquistati da alcuni mercanti ebrei e utilizzati per la realizzazione dei paramenti donati dal rabbino Tranquillo Corcos nel 1704 alla Scola Quattro Capi, una delle sinagoghe del ghetto romano. Il tessuto, tecnicamente uno “spolinato”, reca nel modulo disegnativo lo stemma dei Vasa, casa regnante a cui apparteneva la sovrana. Si tratta, quindi, di un tessuto araldico, tra i più preziosi, e soprattutto rivelatore della ricchezza e del potere di chi lo possedeva. La difficoltà e l’impegno finanziario, in termini di tempo e di materiale, per la preparazione del telaio non avevano un’adeguata proporzione rispetto all’uso che ne poteva essere fatto. Il tessuto infatti aveva ben pochi esiti: in alcuni abiti, nelle carrozze, nelle livree dei servitori, nei paramenti dei luoghi sacri sotto il patronato del committente.


Stella, moglie di Isacco Perugia, Paròkhet detta “di Gerusalemme” (prima del 1675), particolare, Venezia, Museo ebraico.

Ricamatrice romana, Mappàh Zaddik (1629-1630), particolare, Roma, Museo ebraico di Roma.

tessuti araldici hanno rappresentato nel corso dei secoli il simbolo stesso del potere, più ancora dei gioielli e degli edifici, poiché erano visibili ovunque i possessori si trasferissero, manifestando pubblicamente la loro identità e il loro ruolo.

Gli stemmi nei tessuti ebraici sono invece sempre ricamati e mai intessuti non avendo il medesimo significato. Fin dal Rinascimento, molte famiglie ebraiche adottarono un simbolo araldico, sebbene non potessero ambire a diventare nobili. Lo stemma non aveva alcun titolo per essere identificato come aristocratico, ma apparteneva a quella categoria che cade sotto la definizione di “stemma parlante”. In sostanza ogni ceppo familiare adottava una struttura araldica che richiamava alla mente il cognome, ma che poteva essere differente da nazione a nazione o anche da città a città. Ad esempio, a Roma la famiglia Mieli costruì il proprio stemma con tre api che volano attorno a un barile di miele, alludendo, tra l’altro, a quello della famiglia Barberini, una delle più potenti casate romane, che ugualmente recava delle api, così come le api sono tra gli emblemi di Ferdinando I de’ Medici. Il miele, infatti, è simbolo di dolcezza e di fecondità tanto da essere uno dei cibi rituali della cena imbandita per Rosh ha-Shanà, il capodanno ebraico.

Differente dai tessuti araldici è il caso dei velluti cesellati quattrocenteschi, con il cosiddetto motivo a “gricce”, che, come trascrive Girolamo Gargiolli da un trattato del XV secolo, «son que’ bastoni che uscivano di sotto le pigne, e andavano torculando dai lati verso i cordoni a mo’ di serpe che si divincola».


Ricamatrice romana, Me’ìl Di Segni (inizio del XVIII secolo), particolare, Roma, Museo ebraico di Roma.

La valorizzazione dei tessuti antichi ha aperto la strada al collezionismo ottocentesco


Nella maggior parte dei casi sono velluti a due altezze intessuti in corrispondenza della pigna o della melagrana centrali enfatizzate da fili d’oro, che, come dice ancora il medesimo trattato, devono essere eseguiti di argento dorato con oro zecchino ottenuto dalla fusione dei fiorini, la moneta simbolo per eccellenza della prosperità fiorentina. Il disegno si ripete identico a distanza di circa un metro e venti centimetri, che poteva essere letto, per la sua natura, in un’unica direzione, rendendo impossibile utilizzare gli eventuali scarti. È forse il simbolo stesso del Rinascimento fiorentino in campo tessile e ha avuto una vita relativamente lunga coprendo i decenni centrali del Quattrocento. Per questo motivo è curioso che Jehudà Malach abbia donato nel 1703 alla Scola catalana di Roma una tenda da porre di fronte all’armadio sacro eseguita con frammenti recanti il medesimo disegno ma provenienti da pezze diverse. Più recente è l’acquisizione da parte della sinagoga di Pisa di una tenda con il medesimo disegno ancora più ricco per l’abbondanza di filati d’argento e d’oro che spiccano sul fondo rosso e giallo.

La valorizzazione dei tessuti antichi, che i donatori apprezzavano per il loro splendore, per i colori brillanti e per il disegno, indipendentemente dalle mode correnti, ha aperto la strada al collezionismo ottocentesco, di cui l’esponente più significativo è stato Giulio Franchetti; egli ha capito, al pari di altri collezionisti, l’importanza sia storica, sia storico-artistica dei tessuti tanto da offrire la sua raccolta al Museo del Bargello di Fienze, consapevole che i tessuti appartenevano a un capitolo fondamentale dell’arte, una chiave in più per capire le vicende dei secoli passati.


Ricamatrice romana, Me’ìl Fiano (1764), Roma, Museo ebraico di Roma.

Ricamatrice romana, Mappàh Ambron (XVIII secolo), particolare, Roma, Museo ebraico di Roma

LA MOSTRA
Tutti i colori dell’Italia ebraica. Tessuti preziosi dal Tempio di Gerusalemme al prêt-à-porter è il titolo dell’importante mostra fiorentina che ripercorre la storia del rapporto tra il mondo ebraico italiano e l’arte tessile (Gallerie degli Uffizi, Aula magliabechiana, piazzale degli Uffizi 1; telefono 055-294883; orario 8.15-18.50, chiuso il lunedì; www.uffizi.it; fino al 27 ottobre), a cura di Dora Liscia Bemporad e Olga Melasecchi. Tra le oltre cento opere esposte, con rilevanti prestiti italiani e internazionali, troviamo tessuti, merletti e ricami di manifattura ebraica, tessuti e tappeti di origine mediorientale, manufatti a destinazione liturgica derivati dal riutilizzo di tessuti di pregio dal XVI al XVIII secolo - colpiscono per sfarzo e per l’eccelsa qualità del ricamo i paramenti sacri come “mappòt” e parokhiyyot” del Museo ebraico di Roma e della collezione della comunità ebraica di Firenze, donati alla sinagoga nel tempo dalle famiglie più in vista -, fino a esempi più recenti di moda e design con stoffe per l’arredamento dell’impresa Magnoni e Tedeschi e capi firmati da Roberta di Camerino, al secolo Giuliana Coen, e da Gigliola Curiel. In primo piano anche l’“aròn ha-qòdesh” (armadio liturgico) cinquecentesco di Pisa, recentemente restaurato, la vivace e poetica “paròkhet” di Lele Luzzati conservata al Museo di arte e storia ebraica di Casale Monferrato, oltre allo spettacolare pizzo a tombolo di oltre otto metri, sempre di Lele Luzzati, del Museo di Rapallo. Catalogo Giunti Editore.

Ricamatrice ligure, Paròkhet (prima metà del XVIII secolo), particolare, Casale Monferrato (Alessandria), Museo di arte e storia ebraica.

ART E DOSSIER N. 369
ART E DOSSIER N. 369
OTTOBRE 2019
In questo numero: Save Italy Una villa torinese, misteriosa e abbandonata. L'intervista Cesare Viel, performer. Trea gioco e design La lunga storia dei libri aniimati. Van Gogh inatteso L'artista si diverte. Le forme del caso Paraeidolia: quando l'arte inganna il cervello. In mostra: Le fotografie di Eve Arnold ad Abano Terme, Peggy Guggenheim a Venezia, De Chirico a Milano, Signorini a Firenze, Tessuti ebraici a Firenze.Direttore: Philippe Daverio