Grandi mostre. 2
Peggy Guggenheim a Venezia

L’ULTIMA
DOGARESSA

Figura propulsiva e carismatica nel panorama artistico del suo tempo, Peggy Guggenheim, anche se non sempre amata e spesso non capita, come a volte accade ai visionari e agli innovatori, è ora celebrata dal “suo” museo, nel quarantennale della morte, con una mostra che ricostruisce la storia del suo speciale rapporto con la città lagunare.


Sileno Salvagnini

Scorrendo il titolo della mostra, ci immaginiamo Peggy Guggenheim (New York, 1898 - Camposampiero, Padova, 1979), di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa, come l’“ultima dogaressa”, una sorta di musa di Venezia, come la città protettrice delle arti e della cultura che dipinsero Paolo Veronese nel Cinquecento o Michelangelo Morlaiter nel Settecento. «Credo», afferma la nuova direttrice della Collezione Peggy Guggenheim, nonché nipote di Peggy, Karole Vail, «che l’appellativo di “dogaressa”, vale a dire di moglie del doge, si adatti bene a lei. Anche perché ebbe un rapporto speciale sia con Venezia, che le conferì nel 1962 la cittadinanza onoraria, sia con l’Italia, che la proclamò commendatore della Repubblica nel 1967».

Ma come era giunta a Venezia la grande collezionista? Fuggita rocambolescamente nel 1941 da Parigi, allora occupata dai nazisti, negli Stati Uniti, l’anno dopo a New York - metropoli in cui nel 1937 lo zio Solomon R. Guggenheim aveva costituito l’omonima Fondazione per favorire l’arte moderna - Peggy aprì la celebre galleria Art of This Century, di cui sarebbe diventata «una specie di schiava», come spiegherà nella sua autobiografia Una vita per l’arte, traduzione italiana di Out of This Century (1946), aggiornata poi nel 1960 col titolo Confession of an Art Addict, e uscita nel 1979 con quello definitivo Out of This Century. Confessions of an Art Addict.

Terminato il conflitto mondiale, Peggy volle tornare in Europa. E durante il viaggio, racconta, «decisi che Venezia sarebbe stata la mia patria futura: l’avevo sempre amata più di ogni altro posto su questa terra e sentii che lì da sola sarei stata felice». Quell’anno, il 1946, incontrò Emilio Vedova e Giuseppe Santomaso al ristorante All’Angelo. L’occasione fu offerta dalla Biennale del 1948. A quella data Peggy non era ancora entrata in possesso di palazzo Venier dei Leoni; nondimeno, decise di imbarcare tutta la propria collezione, costruita parte in Europa e parte negli Stati Uniti. Ma una volta giunta alla Biennale attraverso i buoni auspici di Santomaso presso il segretario generale, Rodolfo Pallucchini - che, peraltro, dovette superare con un’abile strategia l’ostilità di Roberto Longhi, fiero avversario dell’arte contemporanea, fu accolta assai tiepidamente, se non con molte polemiche.

Una volta giunta alla Biennale, fu accolta assai tiepidamente, se non con molte polemiche


Fece eccezione il grande critico d’arte veneto Giuseppe Marchiori, che già in marzo aveva scritto un significativo articolo dal titolo Un palazzo per Peggy e che, a proposito della collezione esposta negli spazi del padiglione concesso dalla Grecia, assente quell’anno a causa della guerra civile, dopo aver asserito che degli americani «i più validi sono Jackson Pollock e William Baziotes», mentre dei francesi «malgrado l’origine tedesca, Hans Hartung», così concluse: «[Dobbiamo] essere grati a Peggy Guggenheim, che ha offerto a tutti la possibilità di un utile aggiornamento culturale. Chi lo rifiuti a priori, abbia anche il coraggio di dichiararsi incivile».

All’inizio dell’anno dopo Peggy finalmente entrò nella propria dimora. La collezione però non poté esservi accolta subito per un problema burocratico non da poco sull’importazione delle opere d’arte, transitando dapprima alla Strozzina di Firenze, voluta da Carlo Lodovico Ragghianti, quindi a Palazzo reale di Milano. Dopo fu ospitata a Ca’ Pesaro - essendosi Peggy impegnata a donarla a Venezia alla sua morte - per cui fino al 1951 fu costretta paradossalmente a chiedere “in prestito” le proprie opere alla direzione della Galleria internazionale d’arte moderna quando voleva portarne alcune nella nuova abitazione.


Francis Bacon, Studio per scimpanzè (1957).

Dal 1949 Peggy iniziò a collezionare anche artisti nuovi. Qualche italiano, ovviamente, a partire da Vedova e da Santomaso. E poi Tancredi e Bacci. Ma, ricorderà deluso dopo la sua morte Santomaso, non arrivò a fare dell’Italia un centro propulsivo per i giovani artisti al pari di quanto aveva realizzato in America. Continuò tuttavia ad acquistare opere. Per esempio, per ricordarne qualcuna, Studio per scimpanzé di Francis Bacon, comprato a Londra nel 1957, e Il coccodrillo piangente cerca di afferrare il sole di Karel Appel, acquisito a Parigi sempre nel 1957 (il quadro era dell’anno prima), entrambi presenti nella mostra attuale; oppure Dinamismo di un cavallo in corsa + case di Umberto Boccioni (1915), del quale entrò in possesso nel 1958 comprandolo direttamente dalla moglie di Marinetti, Benedetta. E ancora, lavori di Ben Nicholson, Graham Sutherland, Arman, César. E fra gli italiani, di Luciano Minguzzi, Mirko Basaldella, Pietro Consagra. Quindi acquistò un nucleo importante di opere Op Art e Arte cinetica comprendenti lavori di Victor Vasarely (Jak, 1965) e di italiani del Gruppo N come Alberto Biasi (Dinamica visuale, 1964) e Manfredo Massironi (Ipercubo Plexiglass, 1963), o tedeschi del Gruppo Zero come Günther Uecker (Struttura tattile rotante, 1961) e Heinz Mack (Cardiogramma di un angelo, 1964, opera donata dall’autore che sostituì La gioia di Calvino, dell’anno prima, in cattive condizioni conservative).


Alberto Biasi, Dinamica visuale (1964).


Umberto Boccioni, Dinamismo di un cavallo in corsa + case (1915).

Voglio solo produrre ricerche sull'arte senza aggettivi


Anche tutte queste, solitamente non esposte - e, aggiungo, spesso con poche notizie pure nel ricco catalogo ragionato della collezione, pubblicato nel 1985 da Angelica Zander Rudenstine - saranno esposte nella mostra attuale. «Voglio valorizzare la Collezione sempre di più», continua Karole Vail. «Essa infatti non è un mausoleo, ma un qualcosa di dinamico e vivo, per cui si possono creare dei nuovi rapporti tra le opere, anche se alcuni possono sembrare inconsueti. Io non mi voglio legare a un genere, uomo, donna, o a un paese, Sud America, Italia, e così via, ma solo produrre ricerche sull’arte senza aggettivi. Nondimeno abbiamo programmato mostre anche su italiani: per esempio una su Edmondo Bacci, sul quale l’ultima di rilievo, Universi del colore, è stata fatta a Milano nel lontano 1989. Ma, lo ribadisco, voglio che sia sempre un programma assai vario, e non solo su artisti famosi, ma anche su quelli poco o nulla conosciuti, purché di qualità ». Per esempio, saranno esposti nella mostra della “dogaressa” due giapponesi come Kenzo Okada e Tomonori Toyofuku, che confermano, sottolinea Karole, come Peggy «non guardasse solo all’arte occidentale, europea o americana, ma anche a quella giapponese. È vero che Okada andò in America, però era nato e sarebbe morto in Giappone».


Günther Uecker, Struttura tattile rotante (1961).

Una sorpresa è anche la presenza di un grande collage di Gwyther Irwin, Serendipity 2 (1957). Karole, che ricorda come la prima mostra internazionale sul collage negli Stati Uniti fosse stata realizzata ad Art of This Century nel 1943 - che ne riprendeva una fatta dalla stessa Peggy con Roland Penrose a Londra nel 1938 -, a proposito di Irwin dice: «Peggy acquistò quest’opera nel 1957 a Roma a una mostra alla Rome New York Art Foundation intitolata New Trend in the British Art. Peggy infatti ha sempre amato gli scultori e i pittori britannici, e ciò anche per il suo rapporto di amicizia con Herbert Read». Il quale ne era stato il mentore allorché Peggy aveva aperto nel gennaio 1938 la sua prima galleria, Guggenheim Jeune, a Londra, nome che ovviamente aveva ripreso dalla celebre Bernheim- Jeune di Parigi. Oltre a opere notissime come L’impero della luce di Magritte (1953-1954), la mostra ne propone altre poco esposte di artisti come Marina Apollonio, Arnaldo Pomodoro, Piero Dorazio, René Brô, Pierre Alechinsky, Alan Davie, Asger Jorn, Lynn Chadwick, Kenneth Armitage, Martha Boto.


Manfredo Massironi, Ipercubo Plexiglass (1963).


Heinz Mack, La gioia di Calvino (1963).

Peggy Guggenheim. L’ultima dogaressa

fino al 27 gennaio 2020
a cura di Karole P. B. Vail, con Gražina Subelyte
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
telefono 041-2405411
orario 10-18
www.guggenheim-venice.it

ART E DOSSIER N. 369
ART E DOSSIER N. 369
OTTOBRE 2019
In questo numero: Save Italy Una villa torinese, misteriosa e abbandonata. L'intervista Cesare Viel, performer. Trea gioco e design La lunga storia dei libri aniimati. Van Gogh inatteso L'artista si diverte. Le forme del caso Paraeidolia: quando l'arte inganna il cervello. In mostra: Le fotografie di Eve Arnold ad Abano Terme, Peggy Guggenheim a Venezia, De Chirico a Milano, Signorini a Firenze, Tessuti ebraici a Firenze.Direttore: Philippe Daverio