Studi e riscoperte. 1 
Enrico Accatino e il suo studio d’artista

LA MEMORIA
DI UN OUTSIDER

La riscoperta di un maestro del Novecento si intreccia con la storia del suo studio e solleva il tema di come tutelare gli atelier d’artista. Un percorso tra figurativo e astratto raccontato, pochi mesi fa, alla Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea di Roma.


Alfredo Accatino

Lo studio di un artista è molto più di uno spazio fisico. E quando si svuota, l’energia si disperde nel tempo e nello spazio. Avviene da sempre in Italia, e continuerà ad accadere se le istituzioni non comprenderanno l’importanza di proteggere un’eredità culturale che, tranne casi eccezionali, non sopravvive ai propri artefici.

Si contano sulle dita di una mano gli studi dei grandi maestri rimasti intatti, capaci di raccontare percorsi, associazioni mentali, frequentazioni. O pronti a ospitare al proprio interno nuove generazioni di artisti, come avviene, per esempio, in Francia. Se fosse successo, forse avremmo una percezione più viva della storia dell’arte, e Margutta, Brera, “Diladdarno” non sarebbero diventati giganteschi bed & breakfast.

Qualcosa è stato fatto. Molto c’è da fare. Il Consiglio di Stato il 5 dicembre 2017 ha, infatti, definito lo studio d’artista come «universitas rerum» della vita professionale: «Traccia visibile dell’unicità delle sue attitudini individuali di produzione e ricerca», contestualizzando il decreto 2004/articolo 51, che si limitava a tutelare solo spazi già notificati. Con situazioni grottesche, come quella che colpì lo studio di de Chirico, non ritenuto tale perché non corrispondeva «alla tradizionale tipologia “a lucernario” » come decretò l’allora Soprintendenza comunale. Forme di salvaguardia ancora insufficienti, che richiedono nuove tutele giuridiche, finanziamenti certi, strutture dedicate.

Di questo si è parlato in un bellissimo e inusuale incontro, svoltosi a giugno presso la Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea di Roma, conclusosi con le chiavi dello studio di mio padre, Enrico Accatino, poggiate sul tavolo in segno di resa, dopo sette allagamenti e un contenzioso legale che noi figli abbiamo dovuto sostenere, senza alcun supporto, prima di riuscire a dare vita a un nuovo “contenitore della memoria”. Un’iniziativa coraggiosa, voluta dalla direttrice Cristiana Collu, sempre pronta a sparigliare le carte, che ha visitato lo studio e ha chiamato gli storici dell’arte Giuseppe Appella, Marcella Cossu e Claudio Strinati, già soprintendente per il Polo museale romano, per raccontare la figura di un maestro anomalo e le atmosfere del grande atelier di via Agri nel quartiere Trieste (Roma), che ha ospitato negli anni una sperimentazione continua. Un furore espressivo che ho voluto raccontare nell’ultimo capitolo di Outsiders (pubblicato da Giunti nel 2017), storia di un artista che considerava l’atto creativo una necessità inderogabile.


Un percorso da autodidatta, pieno di fughe alla ricerca di sé


E per formazione e percorso “outsider” lo è stato sicuramente Enrico, pittore, scultore, incisore, innovatore dell’arte tessile e teorico dell’educazione artistica, passato dal figurativo all’astratto in settant’anni di attività. Figlio di contadini piemontesi, nato nel 1920, da adolescente avverte una irrazionale voglia di rappresentare il mondo che lo circonda, fatto di persone semplici che lavorano la campagna. E poi, quando si trasferisce a Genova, di marinai e gente di mare. Un percorso da autodidatta, pieno di fughe alla ricerca di sé, che lo condurrà nello studio privato di Felice Casorati, dal quale apprenderà il gusto della visione e la passione per la tecnica pittorica.
Nel dopoguerra va a Roma, si iscrive all’Accademia di belle arti e nel 1947 riesce finalmente a partire per Parigi. Vi rimarrà un anno, condividendo la casa con lo scultore Lorenzo Guerrini. Un’esperienza fondamentale, che gli permette di entrare in contatto con un mondo libero e cosmopolita, e di frequentare artisti del livello di Severini, Giacometti, Laurens, di visitare lo studio di due vecchi leoni come Brâncu¸si e Matisse, che ama invitare giovani artisti e offrire loro cioccolata calda, per farsi adorare.


Composizione, Arazzeria Pennese (1969), Archivio Enrico Accatino.

Stabilitosi a Roma nel 1951 sposa Ornella Angeloni. Nonostante il felice momento privato continua a esplorare una figurazione rigorosa di valenza sociale: «Una pittura secca, essenziale, senza compiacimenti», dirà Pier Paolo Pasolini. Il tracollo economico nel 1949 dei genitori, coinvolti in investimenti sbagliati, lo obbliga a raddoppiare le ore di lavoro. Nascono fondamentali cicli come Pescatori, Mattanza, ispirati dai lunghi soggiorni presso le tonnare di Carloforte (Sardegna), dove era fuggito da ragazzo alla ricerca della propria identità, lavorando come “tonnarotto” tra i pescatori.
Nel 1953 si aggiudica con Primo Levi il Premio Marzotto, il più importante per le arti figurative in Italia. Renato Guttuso, che lo ospita nel suo studio al Ferro di Cavallo di via Ripetta, sarà il primo acquirente della sua prima mostra all’Obelisco, a Roma. Ha identificato in Enrico un’arte senza compromessi e gli scrive: «Vorrei vederti più spesso, e se credi di farmi vedere la grande pittura che stai facendo te ne sarei grato. Abbiamo bisogno, per questa grande battaglia di rinnovamento dell’arte italiana, di tutte le forze nostre migliori. Una nuova fase è incominciata, superato il momento delle polemiche e della confusione dei termini». 


La mattanza (1948).

Attraversa l’Europa confrontandosi con le neoavanguardie. Il figurativo gli diventa angusto e nel 1957 avviene la frattura definitiva: «Il passaggio è stato lento e sofferto, una sorta di sazietà per certe forme, non soltanto mie, mi fece entrare in polemica con me stesso». Il motivo caratterizzante diventa la “circolarità”: cerchio, disco, ellisse, con colori minimali: «Neri e bianchi rappresentano un dialogo costante, un’infinta possibilità di comunicazione».
Una ricerca che affianca la pittura ai collage (Carte costruite), l’incisione alla scultura. Infine, affascinato dalla tradizione tessile, dal 1965 si dedica al recupero dell’arazzo come linguaggio espressivo, inventando soluzioni nuove come il “diaframma”, trasparenze sospese attorno alle quali si può girare: «Fin da giovane ho avvertito il fascino della parete come sede di immagini e colori. Ho poi scoperto il valore del tessuto come materia per assorbire la luce. E come scrissi in una discussa “Proposta agli Architetti” la facilità di trasporto di immagini in tessuto può essere utile al nostro tempo, come era stato per i nomadi».
Riscopre e rilancia laboratori artigiani in tutta Italia - Abruzzo (facendo rinascere la celebre Arazzeria Pennese), Lazio, Sardegna, Puglia, Lombardia, Friuli - e tra il 1966 e il 1979 produce centotrenta tra arazzi e tappeti, molti dei quali andati purtroppo distrutti.


Lo studio di Enrico Accatino in via Agri a Roma.

Nel 1959 riceve dalla Rai l’incarico di curare una nuova impostazione dell’insegnamento artistico sino allora limitato al “disegno”. Nasce l’esperienza di Telescuola e Non è mai troppo tardi, programmi televisivi sperimentali (1958-1964), che sopperendo alle lacune formative del dopoguerra, permettono grazie a “centri di ascolto” sparsi in tutta Italia di ottenere la licenza media. Un percorso che porta alla produzione di quattrocento trasmissioni e di testi fondamentali per la disciplina (Forma-Colore-Segno), che rappresenteranno l’ossatura su cui verrà costruita l’educazione artistica della riforma della scuola media del 1962.

Dagli anni Novanta, in concomitanza con la mostra antologica di palazzo Rondanini a Roma, la sua pittura si apre a un nuovo cromatismo e all’utilizzo di acrilici e perspex. La morte della moglie nel 2005 porta un improvviso decadimento neurologico che, solo in quello studio, sembra fermarsi.
Muore a Roma il 16 luglio del 2007.


L’atelier di Enrico Accatino chiude, ma parte un nuovo progetto nel popolare quartiere di San Basilio per restaurare e catalogare le opere, ricostruendo con attenzione filologica il tavolo da lavoro, con oggetti, pennelli, addirittura la polvere del vecchio atelier, su modello di quanto fatto per lo studio di Bacon. Con la volontà di condividere nel tempo con la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, che già conserva due sue opere, l’archivio e i diari, ora in fase di stesura critica. Toccante il brano trovato tra gli appunti di Enrico, letto alla fine dell’incontro romano: «Cosa farò tra qualche anno? Quando sarò così vecchio da non potere più esprimere i miei sogni? Lo ignoro. Ma so che solo nel mio studio sono stato (e sarò) veramente a mio agio. La mia casa. E mi piacerebbe, come certi animali, rinchiudermi per sempre nella tana. O sparire, un giorno, allontanandomi dalla capanna, come certi sciamani».

ART E DOSSIER N. 368
ART E DOSSIER N. 368
SETTEMBRE 2019
In questo numero: Ottocento tra scienza e mistero: Seurat e la fisica quantistica; I miti arcani di Péladan. Save Italy Bologna: da Monte di pietà a supermercato; trento : salviamo le facciate dipinte. In mostra: Burtynsky a Bologna; Stingel a Basilea; Isadora Duncan a Firenze; Preraffaelliti a Milano.Direttore: Philippe Daverio