Grandi mostre. 1 
Edward Burtynsky a Bologna

UN PIANETA
SOTTO ASSEDIO

Siamo arrivati a un punto di non ritorno? Se la nostra terra continua a essere sottoposta a uno sfruttamento sconsiderato delle sue risorse e a essere violentata, in nome di un progresso tecnologico ed economico spesso fuori controllo, sì. Su questi temi si concentra l’attenzione del fotografo Burtynsky, in questi mesi in Italia col suo progetto Anthropocene.


Edward Burtynsky

Ho sempre amato stare in mezzo alla natura ed è stato grazie a questa mia passione che ho iniziato a capire il tempo profondo e il rapporto che abbiamo con la storia geologica del nostro pianeta. Da adolescente amavo andare a pescare, percorrendo in canoa i corsi d’acqua sperduti e incontaminati delle Haliburton Highlands nell’Ontario. Quel contatto con la natura selvaggia influenza ancor oggi il modo in cui mi rapporto al paesaggio. Ho imparato ad apprezzare una realtà che esiste senza l’intervento o il disagio causati dall’uomo. Ricordo di aver scoperto, per esempio, che dodicimila anni prima, al posto degli alberi e dei laghi nei quali gettavo le mie esche, c’era stato un solido strato di ghiaccio, spesso tre chilometri, che ricopriva il territorio. Mi sono reso conto che non solo questi luoghi ma l’intero pianeta sono stati, sono e sempre saranno un sistema dinamico, che cambia continuamente.

Il nostro mondo è stato testimone di cinque grandi estinzioni di massa provocate da cause diverse: un tremendo impatto con una meteora, enormi eruzioni vulcaniche e attività dei cianobatteri marini che rilasciarono tossine mortali nell’atmosfera.

Si trattava di fenomeni che accadevano naturalmente e che determinavano il flusso della vita. Ora sta diventando sempre più evidente come il genere umano con la sua esplosione demografica, l’industria, la tecnologia sia diventato in brevissimo tempo la causa di ingenti cambiamenti globali. Si potrebbe dire che siamo sul punto di diventare (se non lo siamo già) i responsabili della sesta estinzione di massa. Esiste una forza, potente quanto una qualsiasi altra catastrofe generale che si manifesta naturalmente, che si abbatte sul nostro pianeta e che è nata dalle attività di una sola specie: la nostra.

Tra il 1900 e il 2000, l’aumento della popolazione mondiale è stato di tre volte superiore a quello di tutta la precedente storia dell’umanità: una quadruplicazione che ha portato la popolazione da 1,5 a 6,1 miliardi in soli cento anni. Questa crescita fenomenale ha coinciso con un periodo di grandi conquiste scientifiche, culturali ed economiche.


Oil Bunkering #4, Delta del Niger, Nigeria 2016.

Utilizzando droni, aeroplani ed elicotteri ero in grado di raggiungere la prospettiva a volo d'uccello


Tuttavia, mentre acquisiamo un numero sempre maggiore di nozioni in un lasso di tempo sempre più breve, ci rendiamo conto che il progresso offre non solo risposte ma anche nuove domande. Si allarga inoltre il divario tra chi vive in una condizione di estrema povertà e impotenza e chi invece gode di situazioni di irraggiungibile agio, ricchezza e potere. Forse questa polarizzazione estrema è sempre stata inevitabile nel corso dell’evoluzione umana, se si considera l’innata predisposizione sociale all’avidità, a causa della quale lo stesso pianeta è ora sotto assedio. Nel secolo scorso l’utilizzo integrale di risorse è aumentato di otto volte. L’umanità usa quasi sessanta miliardi di tonnellate (gigatoni) di materiale ogni anno: biomassa, vettori energetici fossili, minerali grezzi, industriali e da costruzione. Il metabolismo industriale in espansione è senza dubbio il fattore numero uno del cambiamento ambientale globale(*).


Tyrone Mine #3, Silver City, New Mexico, Stati Uniti 2012.

Considero la mia attenzione verso l’Antropocene - i segni indelebili lasciati dal genere umano sugli strati geologici del nostro pianeta - come un’estensione concettuale di quelli che sono i miei interessi primari e fondamentali di fotografo.

Fin dall’inizio dei miei viaggi negli anni Ottanta ho sempre tentato di posizionare l’obiettivo su qualcosa di sopraelevato. Nei miei primi lavori sulla vasta influenza che le strutture ferroviarie, gli impianti edilizi, le cave, le miniere, i cantieri di smantellamento navale avevano sull’ambiente circostante ho cercato di trovare una postazione (banchina, ponte, tetto o cavalcavia) su cui collocare il mio treppiede e che potesse offrirmi grandi vedute d’insieme.

Il 2006 ha portato un importante cambiamento nella tecnologia digitale e un nuovo modo di produrre i miei lavori. Potevo montare e controllare elettronicamente la macchina fotografia da un monopiede pneumatico alto circa dodici metri.


Makoko #2, Lagos, Nigeria 2016.

Utilizzando droni, aeroplani ed elicotteri ero in grado di raggiungere la prospettiva a volo d’uccello e rendere in modo più ampio soggetti come le vie di comunicazione, le miniere, l’agricoltura, e le infrastrutture industriali, catturando panorami che mi erano sfuggiti fino ad allora. Il mio lavoro non era più limitato dalla topografia o dalle strutture create dall’uomo; ora i miei obiettivi potevano letteralmente volare.

Negli ultimi anni la tecnologia fotografica digitale è diventata il mio principale strumento di lavoro permettendomi di esplorare procedimenti più complessi. Per il progetto Anthropocene, realizzato con i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier (autori di filmati e videoinstallazioni estremamente esplicativi), ho potuto creare grandi immagini di circa tre metri per sette scattando prima diversi fotogrammi per poi “cucirli” insieme attraverso un software grazie al quale, infine, ho creato enormi file da stampare. Questo è il metodo che ho usato di recente per documentare luoghi straordinari: dalle distese urbane di Lagos alle cave di marmo di Carrara, dalle lussureggianti e primitive foreste della Columbia britannica fino alle barriere coralline del Komodo National Park in Indonesia.


Uralkali Potash Mine #4, Berezniki, Russia 2017

Ogni spazio ha una propria storia da raccontare e una reazione da suscitare


Anche Internet è diventato uno strumento preziosissimo, che mi ha permesso non solo di approfondire le mie esplorazioni sui luoghi da fotografare ma anche di vedere e catturare soggetti da distanze sempre maggiori. Usando immagini satellitari ad alta risoluzione, ho iniziato a realizzare composizioni che sono un’estensione del mio iniziale interesse per l’agricoltura e i suoi interventi geometrici sul paesaggio, evidente nelle mie fotografie di campi irrigati a perno centrale scattate nel 2011. Ogni spazio ha una propria storia da raccontare e una reazione da suscitare. Per esempio, mentre lavoravo alla serie più recente sul “bunkeraggio” del petrolio (Oil Bunkering) nel Delta del Niger, mi sono ritrovato di fronte ad alcuni tra gli scenari più inquietanti che abbia mai visto. Era dal 1996, da quando avevo lavorato sugli scarti di nickel a Sudbury (nella provincia canadese dell’Ontario), che non provavo brividi del genere. Toccante e commovente è stato invece vedere il presidente Uhuru Kenyatta dare ufficialmente fuoco a una catasta di avorio, una delle undici che sono state incendiate durante lo storico “Ivory Burn” avvenuto al Nairobi National Park nel 2016. Queste pire funerarie composte da zanne d’elefante sono state “immolate” per impedire che entrassero in commercio, un intervento che forse cambierà il futuro ma che non potrà porre rimedio ai danni del passato.


Clearcut #1, Palm Oil Plantation, Borneo, Malesia 2016.

Nelle caverne di potassio sotto Berezniki, in Russia, ho dovuto confrontarmi con l’estrema oscurità. È stato solo grazie all’utilizzo delle tecniche d’illuminazione Led che sono riuscito a osservare gli incredibili motivi e colori psichedelici delle pareti. I miei colleghi hanno camminato avanti e indietro lungo i tunnel con le luci in mano mentre io scattavo foto. In questo modo siamo stati in grado di produrre una miriade di immagini che abbiamo successivamente messo insieme, comprimendo l’esperienza temporale in forma statica. Questa miniera, una delle cinque che ho fotografato in Siberia, consiste in un tunnel che si stima essere della lunghezza di tremila chilometri.
Certe fotografie del progetto Anthropocene mostrano invece alcuni tra i luoghi più verdeggianti e incantevoli in cui mi sia imbattuto, ecosistemi in via di estinzione simbolo della biodiversità e della meraviglia che stiamo rischiando di perdere.


Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italia 2016.

Questo si è rivelato particolarmente significativo nel 2016, durante il mio primo tentativo con la fotografia subacquea sull’isola indonesiana di Komodo (patrimonio dell’Unesco), per immortalare alcune tra le barriere coralline più pure ancora in vita. Usando una macchina fotografica dotata di unità flash ad alta potenza e con l’assistenza tecnica di dodici sommozzatori ho trascorso diversi giorni a mappare specifiche sezioni dell’ambiente marino realizzando centinaia di foto ad alta risoluzione da “cucire” poi insieme per formare un’unica immagine continua, curata nei minimi dettagli, che misurasse tre metri per sei, il più vicino possibile alla dimensione reale. Questo corallo si trova circa diciotto metri al di sotto della superficie dell’oceano. A quella profondità appare di un color blu, uniforme e sbiadito. È stato solo quando abbiamo iniziato a visionare gli scatti che l’ampia gamma dei colori e delle varie sfumature è diventata evidente in modo stupefacente. Il lavoro svolto a Komodo ha rappresentato, probabilmente, la sfida più grande di tutta la mia carriera ma è stato anche un tuffo in uno degli ecosistemi più complessi e affascinanti del pianeta. Tanta bellezza mi ha spinto a trovare soluzioni sempre più sperimentali per poterla testimoniare, nella speranza, anche, condivisa da Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, di poter smuovere con il nostro lavoro le coscienze e di contribuire al crescente dibattito sull’ambiente.

Questo articolo è un estratto del saggio scritto da Edward Burtynsky per il catalogo della mostra Anthropocene (Bologna, Fondazione Mast, 16 maggio - 6 ottobre 2019), a cura di Urs Stahel, Sophie Hackett e Andrea Kunrad, Toronto 2018.

Per tutte le foto © Edward Burtynsky, cortesia Admira Photography, Milano/Nicholas Metivier Gallery, Toronto.


(*) K. Fridolin, S. Gingrich, N. Eisenmenger, K-H. Erb, H. Haberl e M. Fischer-Kowalski, Growth in Global Materials Use, GDP and Population during the 20th Century, in “Ecological Economics”, 68, n. 10, 2009, pp. 2696-2705.

Anthropocene

Bologna, Fondazione Mast
a cura di Urs Stahel, Sophie Hackett e Andrea Kunard
fino al 6 ottobre
orario 10-19, chiuso lunedì
catalogo Ago - Art Gallery of Ontario in collaborazione
con National Gallery of Canada, Musée des Beaux-Arts du Canada e Fondazione Mast
https://anthropocene.mast.org, https://theanthropocene.org

ART E DOSSIER N. 368
ART E DOSSIER N. 368
SETTEMBRE 2019
In questo numero: Ottocento tra scienza e mistero: Seurat e la fisica quantistica; I miti arcani di Péladan. Save Italy Bologna: da Monte di pietà a supermercato; trento : salviamo le facciate dipinte. In mostra: Burtynsky a Bologna; Stingel a Basilea; Isadora Duncan a Firenze; Preraffaelliti a Milano.Direttore: Philippe Daverio