Camera con vista


MERIDIANO
TARR

di Luca Antoccia

C'è una linea sghemba, una sorta di largo meridiano cinematografico, che attraversa l’Europa da nord a sud e che va dalla Finlandia alla Grecia e passa dalla Lituania, dalla Polonia, sfiora la Russia e trova nel cinema ungherese di Béla Tarr il punto di snodo, con possibili derivazioni a sud in Turchia (Nuri Bilge Ceylan). Si tratta di una certa idea di cinema contemplativo, sospeso (a volte estenuante come nel caso del lituano Šarūnas Bartas), fatto di piani sequenza lentissimi quasi impercettibili ma memorabili (elegiaci nel russo Sokurov, o maestosi nel maestro ellenico Anghelopoulos). Con rari momenti di bizzarra, grottesca, quasi farsesca allegria (il finlandese Aki Kaurismäki, lo svedese Roy Andersson), più spesso intrisi di un’angoscia esistenziale che a volte si fa cosmica o metafisica. Su tutti e in tutti una volontà di dominio estetico e visivo totali propri solo dei grandi della fotografia e della pittura: il caso più noto è Cold War del polacco Pawel Pawlikowski. Questo meridiano cinematografico ha il suo snodo più estremo, come si è già detto, in Ungheria col grande Béla Tarr di cui non molto tempo fa è uscita in Italia, finalmente in un unico cofanetto, la quasi intera opera filmica in dieci dvd.


Il cavallo di Torino (2011) - Film di Béla Tarr

Il regista ungherese è famoso per aver realizzato uno dei più lunghi e mitici film di finzione della storia del cinema, Sátántangó (1994): sette ore e mezzo di contemplazione pura al servizio di una peculiare idea di cinema. Grande fotografia, padronanza cinematografica assoluta del tempo e dello spazio, della recitazione e della musica, così come della trasformazione del testo letterario omonimo di partenza del connazionale László Krasznahorkai: quasi sempre dai suoi romanzi sono tratte le pellicole di Tarr come Il cavallo di Torino (2011, omaggio criptico al cavallo che, nel capoluogo piemontese, frustato da un vetturino nella pubblica via perché si rifiutava di muoversi, scatenò la follia di Friedrich Nietzsche). In questi film si possono trovare tracce dei rigori del cinema del danese Dreyer o del teatro dei polacchi Kantor e Grotowski ma il dolore senza rimedio lo affratella anche alla scrittura affilata di Ágota Kristóf. E tuttavia il film più equilibrato e insieme immaginifico è forse Le armonie di Werckmeister (2000), sorta di polifonica rappresentazione della violenza insensata dell’umanità e dei suoi sogni, commovente frutto della carriera di un regista che più di ogni altro, a cavallo tra XX e XXI secolo, ha creduto nelle risorse ineguagliabili del bianco e nero, con una fede cieca e al tempo stesso, è il caso di dire, visionaria.


Sátántangó (1994) - Film di Béla Tarr

ART E DOSSIER N. 367
ART E DOSSIER N. 367
LUGLIO-AGOSTO 2019
 In questo numero: Donne oltre l'ostacolo; I magi al femminile; Dulle Griet all'assalto dell'inferno; La divina Franca Florio; Le strategie esistenziali di Berthe Morisot; Varda/JR: la regista e lo street artist. In mostra: Eliasson a Londra; Tuymans a Venezia; Dalí a Montecarlo; Ex Africa a Bologna. Direttore: Philippe Daverio