Per chiarire maggiormente l’essenza del film può servire un’altra sequenza decisiva. Arrivata al porto di Le Havre, su cui JR aveva in precedenza lavorato, la regista nota l’assenza di donne in questo universo maschile e sceglie di fotografare le mogli di tre “dockers”. Le tre donne, le quali peraltro lavorano nell’indotto del porto, vengono ritratte e le loro immagini stampate in dimensioni enormi. Poi le foto sono applicate su tanti container impilati e colorati come fossero mattoncini Lego. Le tre donne vengono poi collocate con una gru all’interno di tre vuoti lasciati nella costruzione, andando a occupare lo spazio che nelle rispettive gigantografie corrisponte più o meno al cuore di ciascuna. In questa sequenza la fotografia forse indica una sua quarta dimensione e cioè la potenza di un’immagine statica a generare una messa in inquadratura e un’intera sequenza cinematografica di grande effetto visivo e commozione.
Un cinema umanista (e femminista), quello di Agnès Varda, che riflette in modo a volte magico sul rapporto tra luoghi e persone e tra l’anima dei primi e delle seconde. Questo è la vera scommessa del film, cui la fotografia si offre come complice compagna di viaggio del cinema. E nell’omaggio al postino, che amava intrattenersi coi suoi clienti e che la regista aveva conosciuto nella sua giovinezza, sembra di scorgere un omaggio nemmeno troppo velato, con la sua bicicletta e i calzoni a sbuffo, al personaggio di Jacques Tati: leggerezza e acutezza di sguardo.
Il film è stato girato, un po’ come Sans toit ni loi (Leone d’oro a Venezia nel 1985), solo sulla base di un vago itinerario e di preesistenti contatti con luoghi e persone. Inoltre, anche a causa delle sue condizioni di salute Agnès non ha seguito un piano ferreo di lavorazione, che ha lasciato e ripreso più volte, e ciò ha finito per consolidare un andamento rapsodico. «Di fatto arruoliamo il caso, lo assumiamo come assistente», dice Varda a JR in una conversazione raccolta da Olivier Père e presente nel libretto a corredo del film. Se il cinema (e la fotografia) non possono essere mero rispecchiamento naturalistico, il caso invece (e il viaggio che ne è il massimo veicolo) sembra essere al contrario l’antidoto a un’immagine troppo costruita, un antidoto a una volontà di dominio sempre in agguato su uomini e cose.
Ma chiudiamo con una notazione sulla pittura che non per la prima volta compare in un film della Varda in maniera strategica (un precedente non banale è costituito dal quadro Le spigolatrici di Jean-François Millet, che ispira anche il film Les Glaneurs et la Glaneuse, 2000, insieme alla tela Spigolatrici a Chambaudoin di Edmond Hédouin). In Visages, Villages una sequenza molto interessante è quella in cui viene citata la celebre sequenza della corsa al Louvre di Bande à part (Godard, 1964). Qui il terzetto è diventato un duetto: JR con gli inseparabili occhiali neri e lei, che non può correre perché è in sedia a rotelle. Ma passando davanti alle opere degli artisti italiani Varda nomina in estasi Giovanni Bellini e Domenico Ghirlandaio. Si ferma però davanti ad Arcimboldo (L’estate). Credo che Arcimboldo, nella maestria del suo doppio registro di immagine mimetica e insieme alchemica, realistica e nello stesso tempo costruita, sia un ottimo emblema finale della poetica del cinema cercato, amato, e, specialmente da ultimo, realizzato dalla regista belga.