Arte e cinema 
Agnès Varda e JR: Visages, Villages


LA STRANA COPPIA
A BORDO
DI UN CAMION


Un congedo in grande stile: Agnès Varda, la più nota regista della Nouvelle Vague, scomparsa di recente, ha realizzato il suo ultimo film, Visages, Villages, con il giovane artista JR. Un progetto ambientato in Francia che punta sul recupero di un rapporto autentico tra luoghi e persone e che ha visto soprattutto nella fotografia un’insostituibile compagna di viaggio.


Luca Antoccia

Agnès Varda, Oscar alla carriera nel 2018, prima regista donna a conseguirlo, ha piazzato forse il suo più bel colpo a ottantotto anni, poco prima di lasciarci (Bruxelles, 30 maggio 1928 - Parigi, 29 marzo 2019), con il suo ultimo film, Visages, Villages con cui ha ottenuto la nomination agli stessi Oscar e in Francia, oltre a diversi riconoscimenti, ha incassato sia in termini di consenso cinefilo sia commerciale. In Italia è uscito nelle sale cinematografiche in sordina nella primavera 2018 ma ora possiamo riparlarne grazie al dvd e al libro curati dalla Cineteca di Bologna. Il film merita davvero di essere visto e rivisto, non solo come omaggio alla più grande regista della Nouvelle Vague, di cui Varda è stata per certi versi levatrice, ma per la freschezza, la leggerezza e la passione con cui lei stessa ha inseguito il suo progetto.

Un intervento attivo sulla memoria collettiva di una comunità
e di un paesaggio


Un progetto per la prima volta a quattro mani, condiviso con il giovane artista visivo JR, fotografo itinerante, capace con le sue gigantografie di ridare un cuore e un’anima a paesi e persone che sembrano sul punto di perderli. La Francia rurale, certo. Ma anche Le Havre. Il film acquista ancora più valore in questo contesto per le complesse relazioni che intrattiene con la fotografia e la pittura ed è una “summa” di tutta l’opera della regista.

Varda nasce come fotografa e la fotografia sembra davvero il suo nume tutelare anche sul piano simbolico-esistenziale, se è vero che ha abitato per quasi tutta la vita nell’appartamento di rue Daguerre a Parigi (a cui dedicò nel 1976 il film Daguerréotypes) e le sue prime foto sono a volte citate o riprese nei film come avviene anche in Visages, Villages. Non solo: nell’ultima parte della sua vita la regista ha usato la fotografia all’interno di un percorso di videoinstallazioni: basti per tutte la sua partecipazione alla 50. Biennale di Venezia del 2003.

Anche in Les plages d’Agnès (2008) le sue foto sono al servizio di una ricerca sul filo della memoria personale e dei luoghi. Ma in quest’ultima pellicola il discorso sulla fotografia viene tematizzato in modo molto più rilevante. Intanto la scelta del compagno di viaggio: JR è un fotografo e artista franco-tunisino noto per i suoi interventi nelle zone di confine più calde del mondo, come quando convinse israeliani e palestinesi a posare per grandi foto da attaccare ai due lati del famigerato muro. O come quando issò la foto gigantesca di un bambino latinoamericano sul muro tra Messico e Stati Uniti.


Varda e JR sul set di Visages, Villages (2017).

Dunque i due - lui trentatre anni, lei ottantotto - si ritrovano a percorrere la campagna francese a bordo di un camioncinolaboratorio fotografico in cui entreranno le persone incontrate lungo il viaggio e da cui usciranno le gigantografie che verranno incollate ai muri come un vero intervento di Street Art (Inside Out è il titolo del progetto preesistente al film).




Ogni documentario è in parte, inevitabilmente, un tradimento della realtà

La fotografia è davvero la terza protagonista dell’opera, dopo la strana coppia e la Francia, e per tre diverse ragioni. È presente, come enorme manufatto estetico collettivo: le immense foto di JR ai muri, gli scatti di scena che fermano e insieme rilanciano la narrazione cinematografica. Esse sono un intervento attivo sulla memoria collettiva di una comunità e di un paesaggio, come nella bellissima sequenza del villaggio di minatori semiabbandonato nel Nord della Francia o come nei “docks” di Le Havre. Inoltre, foto in formato normale, perlopiù della Varda, circolano nelle mani dei protagonisti e spesso li ispirano per la realizzazione degli interventi sul paesaggio. È il caso della foto di un giovanissimo Guy Bourdin, amico di gioventù della Varda, che poi a sua volta diventerà importante fotografo di moda. Il suo scatto viene ingrandito, poeticamente ricontestualizzato e attaccato su un bunker della seconda guerra mondiale crollato sulla spiaggia dalla scogliera soprastante. In questa che è la sequenza centrale del film si saldano alla perfezione memoria personale e storica, e non è privo di implicazioni il fatto che l’installazione scompaia poche ore dopo a causa dell’alta marea. Solo il cinema (e le foto che lo documentano) resistono. L’omaggio al fotografo Guy Bourdin precede di poco quello a Henri Cartier-Bresson sulla cui tomba Agnès va a posare un sassolino in evidente e commosso omaggio.


Le mogli di tre “dockers” di Le Havre

Ma insomma che cos’è questo Visages, Villages che sembra oscillare di continuo tra documentario e finzione, tra Lumière e Méliès, e non si risolve in nessuno dei due. Ci si può ricordare che Varda aveva coniato l’espressione Documenteur (un complesso film del 1981) con un gioco di parole in francese tra “documentario” e “mentitore”, come a dire che ogni documentario è in parte, inevitabilmente, un tradimento della realtà e insieme una costruzione: niente di ingenuo o di naturalistico. E allora la bellezza fotografica di alcune inquadrature (giochi di ombre e di luci, composizione, luoghi e momenti particolari) non tragga in inganno sul complesso statuto dell’immagine nel XXI secolo, di cui questo film si fa testimonianza.


Una delle gigantografie che caratterizzano il documentario.

Per chiarire maggiormente l’essenza del film può servire un’altra sequenza decisiva. Arrivata al porto di Le Havre, su cui JR aveva in precedenza lavorato, la regista nota l’assenza di donne in questo universo maschile e sceglie di fotografare le mogli di tre “dockers”. Le tre donne, le quali peraltro lavorano nell’indotto del porto, vengono ritratte e le loro immagini stampate in dimensioni enormi. Poi le foto sono applicate su tanti container impilati e colorati come fossero mattoncini Lego. Le tre donne vengono poi collocate con una gru all’interno di tre vuoti lasciati nella costruzione, andando a occupare lo spazio che nelle rispettive gigantografie corrisponte più o meno al cuore di ciascuna. In questa sequenza la fotografia forse indica una sua quarta dimensione e cioè la potenza di un’immagine statica a generare una messa in inquadratura e un’intera sequenza cinematografica di grande effetto visivo e commozione.

Un cinema umanista (e femminista), quello di Agnès Varda, che riflette in modo a volte magico sul rapporto tra luoghi e persone e tra l’anima dei primi e delle seconde. Questo è la vera scommessa del film, cui la fotografia si offre come complice compagna di viaggio del cinema. E nell’omaggio al postino, che amava intrattenersi coi suoi clienti e che la regista aveva conosciuto nella sua giovinezza, sembra di scorgere un omaggio nemmeno troppo velato, con la sua bicicletta e i calzoni a sbuffo, al personaggio di Jacques Tati: leggerezza e acutezza di sguardo.

Il film è stato girato, un po’ come Sans toit ni loi (Leone d’oro a Venezia nel 1985), solo sulla base di un vago itinerario e di preesistenti contatti con luoghi e persone. Inoltre, anche a causa delle sue condizioni di salute Agnès non ha seguito un piano ferreo di lavorazione, che ha lasciato e ripreso più volte, e ciò ha finito per consolidare un andamento rapsodico. «Di fatto arruoliamo il caso, lo assumiamo come assistente», dice Varda a JR in una conversazione raccolta da Olivier Père e presente nel libretto a corredo del film. Se il cinema (e la fotografia) non possono essere mero rispecchiamento naturalistico, il caso invece (e il viaggio che ne è il massimo veicolo) sembra essere al contrario l’antidoto a un’immagine troppo costruita, un antidoto a una volontà di dominio sempre in agguato su uomini e cose.

Ma chiudiamo con una notazione sulla pittura che non per la prima volta compare in un film della Varda in maniera strategica (un precedente non banale è costituito dal quadro Le spigolatrici di Jean-François Millet, che ispira anche il film Les Glaneurs et la Glaneuse, 2000, insieme alla tela Spigolatrici a Chambaudoin di Edmond Hédouin). In Visages, Villages una sequenza molto interessante è quella in cui viene citata la celebre sequenza della corsa al Louvre di Bande à part (Godard, 1964). Qui il terzetto è diventato un duetto: JR con gli inseparabili occhiali neri e lei, che non può correre perché è in sedia a rotelle. Ma passando davanti alle opere degli artisti italiani Varda nomina in estasi Giovanni Bellini e Domenico Ghirlandaio. Si ferma però davanti ad Arcimboldo (L’estate). Credo che Arcimboldo, nella maestria del suo doppio registro di immagine mimetica e insieme alchemica, realistica e nello stesso tempo costruita, sia un ottimo emblema finale della poetica del cinema cercato, amato, e, specialmente da ultimo, realizzato dalla regista belga.

ART E DOSSIER N. 367
ART E DOSSIER N. 367
LUGLIO-AGOSTO 2019
 In questo numero: Donne oltre l'ostacolo; I magi al femminile; Dulle Griet all'assalto dell'inferno; La divina Franca Florio; Le strategie esistenziali di Berthe Morisot; Varda/JR: la regista e lo street artist. In mostra: Eliasson a Londra; Tuymans a Venezia; Dalí a Montecarlo; Ex Africa a Bologna. Direttore: Philippe Daverio