Arte contemporanea/Intervista a Nishan Kazazian


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di Cristina Baldacci

In occasione della prossima uscita del suo libro, Connecting the Dots, abbiamo intervistato Nishan Kazazian, architetto newyorchese di origini libanesi, che lavora all’incrocio tra arte e architettura.

Ama definirsi un architetto-artista che crea opere d’arte. Che cosa accomuna, nella sua esperienza, questi due ruoli professionali e sociali?

L’arte per me trova compimento nell’architettura e, viceversa, la sensibilità architettonica nell’arte. La mia arte è pura espressione e vale per sé ma assolve anche ai bisogni funzionali degli spazi che creo. Ho come obiettivo il trasformare e mescolare i confini tra espressività e funzionalità attraverso sensazioni osmotiche di forma, scala, luce, colore e trama; provocatorie, poetiche e ironiche.

Ritiene architettura, design e arte «inseparabili». C’è anche il Bauhaus tra le sue fonti di ispirazione?

Fin da giovane, le mie frequentazioni dei siti archeologici di Byblos, dell’Acropoli e di Yazd in Iran, mi hanno abituato alla sovrapposizione di diversi periodi storici. A Yazd le antiche cisterne zoroastriane, con le caratteristiche torri del vento, sono state poi tramutate in forme iconiche religiose prive di funzionalità. Non sorprende che la cultura zoroastriana e indù abbia ispirato il lavoro di Johannes Itten al Bauhaus.

In quale dei suoi progetti è particolarmente evidente la relazione tra arte, architettura e design?

Nella Amphibian Concert Hall ho studiato diverse esperienze sensoriali legate alla vista e all’udito. La struttura richiama le forme di una creatura anfibia parzialmente immersa nell’acqua, che non si capisce se stia uscendo o entrando in mare. I suoi montanti assolvono varie funzioni, sia come sostegni architettonici, sia come elementi multimediali. Quando vengono colpiti dalle onde e dalle maree, generano in risposta “pattern” di luce e suono.

Amphibian Concert Hall (2017-2018), rendering.

«Ho come obiettivo il trasformare e mescolare i confini». Nishan Kazazian, architetto newyorchese di origini libanesi, si racconta in occasione della prossima uscita del suo libro Connecting the Dots


Connecting the Dots è un progetto paradigmatico perché ispirato alla storia della sua famiglia e alla diaspora armena. Può raccontarci qualcosa in più?

Per ora è il titolo provvisorio del mio prossimo libro, che tratta di arte e architettura ma anche di questioni sociali, come la guerra, il genocidio, i rifugiati e i danni economici. Vorrei diffondere l’esempio della resistenza e resilienza armene del post-genocidio. In molti dei miei lavori, il gesto del rompere i pezzi e poi rimetterli insieme si rifà alla personale esperienza del cadere e risollevarsi, così come alla trasformazione spaziale, sociale e individuale. Gerard Drive mette a confronto foto storiche con un luogo reale mostrando i membri della famiglia della città armeno-ottomana Marash. Alcuni sono morti, altri sopravvissuti ed emigrati a Parigi, Boston, Baghdad, Rio, Beirut. Tutti si ricongiungono, come se fosse una forma di resilienza, in un nuovo luogo “virtuale”: una veduta dallo studio di Jackson Pollock.

La trasparenza è per lei un modo consueto di includere l’«altro nascosto»?

Sì, le trasparenze consentono allo spettatore di vedere attraverso e di scorgere l’«altro nascosto». Sono cresciuto in una società multiculturale e multilingue circondato da ambienti in cui storia e archeologia si sovrappongono su più livelli. Spazi e forme stratificati producono ombre e riflessi che consentono molteplici interpretazioni. Inoltre, spesso ci scontriamo con l’altro nascosto dentro di noi. Arshile Gorky si serviva degli altri nascosti: pare abbia dichiarato che non portava mai a conclusione un dipinto, lasciava che l’occhio lo finisse! Nella casa Rietveld Schröder, progettata da Gerrit Rietveld (Utrecht, 1924), l’angolo invisibile della finestra diventa un altro nascosto nella struttura. Io invece creo parti che non si estendono nello spazio in tutte le direzioni, ma attirano l’attenzione sulla loro trasparenza superficiale e sul colore dipinto, con gli attacchi a viti di varie forme e dimensioni in vista, fissati su plexiglass, completamente liscio e levigato.

Fare progetti responsabili e sostenibili è un altro dei suoi principali obiettivi. Quali materiali e criteri sceglie per ridurre l’impatto sull’ambiente?

Uso gli ambienti naturali come modelli per i miei disegni. Sperimentando coi materiali, ho potuto comprendere e apprezzare le strutture naturali, che ho cercato di imitare. Sto anche aggiungendo un’altra dimensione alla discussione sull’architettura e l’uso di materiali sostenibili. Per il rivestimento del Virtual Aquarium ho scelto materiali tecnologicamente avanzati e pannelli solari trasparenti che producono energia autoalimentando la struttura.

Phantas(it)y è una città utopica dove ho immaginato adattamenti ambientali. Questi progetti esprimono la speranza in futuri materiali, spazi e metodi di sopravvivenza ancora da scoprire.

Ha spesso criticato il cambiamento della sua professione, che da manuale si fa sempre più computerizzata. Quali sono le future sfide per gli architetti?

Nel mio lavoro mostro come si passa dal fatto a mano al digitale. I miei disegni esprimono stati d’animo, espressioni e sentimenti, che poi rielaboro e adatto con diversi software, senza però permettere che mi controllino. Gli architetti devono essere più sensibili agli ambienti e alle pratiche locali, e anche più consapevoli e critici delle tecnologie già disponibili di per sé dannose per il nostro ecosistema.


Virtual Aquarium (2009).

ART E DOSSIER N. 367
ART E DOSSIER N. 367
LUGLIO-AGOSTO 2019
 In questo numero: Donne oltre l'ostacolo; I magi al femminile; Dulle Griet all'assalto dell'inferno; La divina Franca Florio; Le strategie esistenziali di Berthe Morisot; Varda/JR: la regista e lo street artist. In mostra: Eliasson a Londra; Tuymans a Venezia; Dalí a Montecarlo; Ex Africa a Bologna. Direttore: Philippe Daverio