Le opere di Burri (1915-1995), a partire dall’abbandono delle primitive esperienze figurative, e pertanto dai Catrami (1948) ai Sacchi (1949-1950), marcano un primordio generativo di tensione poetica che fa affidamento su un “étant donné” autoreferenziale nudo e crudo, scevro da preoccupazioni verso un esterno da compiacere, concentrato sui principi inalienabili della propria identità, memoria, coscienza e volontà di sovvertimento delle condizioni esistenziali e l’affermazione del proprio fuoco immaginario.
La preoccupazione compositiva e il rigore ideativo di forma, spazio ed equilibrio nella concezione dell’immagine, che governano da subito le sue opere, sono talmente evidenti e poderosi da indicare obiettivi ben diversi da quelli suggeriti dalle supposte metafore della “ferita”, del sangue e degli atti chirurgici (come ipotizzate reminiscenze della passata professione di medico e conseguenze di un trauma che l’artista avrebbe subito negli anni di guerra e di prigionia) o da altre sofisticate ma poco attendibili analisi, di fatto riduttive della piena coscienza dei suoi atti artistici. La pittura di Burri, a mio parere, risulta essere l’esito di una elaborazione consapevole di una tensione poetica molto lucida e di una precisione dichiarata “infallibile” dall’artista stesso in ordine all’obiettivo, realmente infine conseguito, di rivoluzionare la tradizione pittorica di cui, da un certo momento in poi della propria vita, si è riconosciuto depositario storico.
Una tale impresa è meditato processo di una tenace coscienza che non ha avuto cedimenti, ma ha osservato senza mai esitare sugli adempimenti che una fermezza nell’idealità dell’arte richiedeva a uno dei suoi maggiori interpreti.