Grandi mostre. 1 
Alberto Burri a Venezia

LA TRASFORMAZIONE
DELLA MATERIA

Interprete rivoluzionario dell’arte del secolo scorso, Alberto Burri ha portato avanti con tenacia le sue idee, assecondando, senza mai alcuna esitazione, la sua tensione poetica, sempre volta a considerare i diversi materiali come puri espedienti funzionali all’atto creativo. Scopriamo qui i dettagli con il curatore del progetto espositivo.


Bruno Corà

Le opere di Burri (1915-1995), a partire dall’abbandono delle primitive esperienze figurative, e pertanto dai Catrami (1948) ai Sacchi (1949-1950), marcano un primordio generativo di tensione poetica che fa affidamento su un “étant donné” autoreferenziale nudo e crudo, scevro da preoccupazioni verso un esterno da compiacere, concentrato sui principi inalienabili della propria identità, memoria, coscienza e volontà di sovvertimento delle condizioni esistenziali e l’affermazione del proprio fuoco immaginario.

La preoccupazione compositiva e il rigore ideativo di forma, spazio ed equilibrio nella concezione dell’immagine, che governano da subito le sue opere, sono talmente evidenti e poderosi da indicare obiettivi ben diversi da quelli suggeriti dalle supposte metafore della “ferita”, del sangue e degli atti chirurgici (come ipotizzate reminiscenze della passata professione di medico e conseguenze di un trauma che l’artista avrebbe subito negli anni di guerra e di prigionia) o da altre sofisticate ma poco attendibili analisi, di fatto riduttive della piena coscienza dei suoi atti artistici. La pittura di Burri, a mio parere, risulta essere l’esito di una elaborazione consapevole di una tensione poetica molto lucida e di una precisione dichiarata “infallibile” dall’artista stesso in ordine all’obiettivo, realmente infine conseguito, di rivoluzionare la tradizione pittorica di cui, da un certo momento in poi della propria vita, si è riconosciuto depositario storico.

Una tale impresa è meditato processo di una tenace coscienza che non ha avuto cedimenti, ma ha osservato senza mai esitare sugli adempimenti che una fermezza nell’idealità dell’arte richiedeva a uno dei suoi maggiori interpreti.

Per comprendere cosa abbia davvero significato l’azione di Burri in quell’immediato dopoguerra, basterebbe rileggere le affermazioni di Salvatore Scarpitta (1919-2007), figura artistica emblematica delle esperienze che tra l’Europa - in particolare l’Italia - e gli Stati Uniti si venivano compiendo con travasi e assunzioni di stimoli e novità dalle diversità che intanto si manifestavano nei due continenti: «La mia storia non è estetica, è ricerca di contenuti […] il mio è un cammino individuale. Sai cosa ha fatto Burri? Ha stabilito una dignità che per noi era d’esempio. Non era necessario neanche guardare i suoi quadri, perché il suo aiuto è stato a un tale livello morale, in un momento in cui c’erano tanti pittori sedotti dall’espressionismo astratto, che bisogna ammettere che senza l’esempio morale di quell’uomo lì la vita non sarebbe stata possibile. L’etica che lui ha portato nell’arte italiana è di gran lunga superiore a qualunque altra cosa».


Rosso plastica M3 (1961), Città di Castello, Fondazione Burri - palazzo Albizzini.

Una lingua idonea a visualizzare gli impronunciabili drammi attraversati nel secondo conflitto mondiale


Di questa qualità, di cui Scarpitta evidenzia il peso recato da Burri nell’arte del dopoguerra, si è poco parlato e soprattutto non si è a sufficienza posto in relazione il valore dell’etica artistica in quegli anni e successivamente con la produzione linguistica di Burri e di altri artisti. Ma il peso di quella dignità, anzitutto rilevabile nell’opera di Burri come pure nei suoi rifiuti di compromesso poetico e comportamentale, dev’essere stato assai incisivo se artisti del calibro di Lucio Fontana e, in seguito, di Jannis Kounellis o Fabio Mauri e altri non hanno smesso di porlo in evidenza. Se il problema etico appare dunque essere nella pittura di Burri un fondamento inseparabile da quello di un’esperienza radicale che riconsidera la pittura “ab origine”, fondando l’azione sulla trasformazione dello “scarto del mondo” e comunque sulla sua manifestazione universale - la materia - sarà necessario e opportuno definire la spazialità concepita da Burri e riosservarne soprattutto i principi e le modalità impiegate nel considerare le sperimentazioni su di essa, così come furono da lui “presentate”, al vivo e al vero.


Cretto G3 (1975), Città di Castello, Fondazione Burri - palazzo Albizzini.

Dopo l’evocazione nella pittura di Caravaggio, che rappresenta l’apostolo Tommaso nell’atto di mettere il dito nel costato di Cristo, Burri riformula, stavolta senza metafora, quella drammaturgia con la “presentazione” di una materia reale su cui compiere un’esperienza analoga. A tale proposito, ancora prima di avanzare nella riflessione sulla spazialità ideata da Burri, non sembra inutile soffermarsi su un episodio che sancisce l’incontro e, si potrebbe anche dire, l’apprezzamento e l’intesa poetica tra Lucio Fontana e Burri. L’artista italo-argentino - già da alcuni anni impegnato nella concezione di una spazialità pittorica e plastica riferibile a una scala cosmica, con il Manifiesto blanco (1946) prima e successivamente con i Concetti spaziali denominati “buchi” (1949) - in occasione della 26. Biennale di Venezia (1952), alla quale Burri partecipa per la prima volta con due sole opere, Disegno per rattoppo e Studio per lo strappo (entrambe del 1952), attratto dalla seconda, la acquista.


Sacco (1952), Firenze, Collezione Casamonti.

Appaiono del tutto chiare le ragioni dell’interesse di Fontana per quell’opera di Burri, supplente di una tela da lui realizzata in cui lo “strappo” è realmente esistente al centro dell’opera.

Alla coscienza di un giovane pittore qual è Burri, all’indomani di una tragedia di inedite proporzioni come il secondo conflitto mondiale, per la sua condizione di “vinto”, nonostante la sua tempra orgogliosa, che lo ha sottoposto a umiliazioni e privazioni, s’impone l’individuazione di una “Weltanschauung” che gli consente di concepire una lingua idonea a visualizzare ed esprimere gli impronunciabili drammi attraversati, i sentimenti e le pur necessarie ragioni di una ripresa dell’esistenza, dimostrando, in una continua sfida attuata con l’arte, quanto indicibili siano i processi del pensiero e dell’immaginario che attraversano l’animo di un uomo.

Se Fontana con la sua opera, mediante i “buchi” e in seguito i “tagli”, inventa le coordinate concettuali di una spazialità che considera il vuoto come una dimensione a cui rivolgere il pensiero formatore (entità che nel dopoguerra lo stesso Gruppo Gutai ritrova nella propria tradizione taoista), Burri, attraverso l’ostensione della materia in pittura, ne rovescia ogni precedente valenza rappresentativa, presentandone, all’opposto, la forma nel registro di un equilibrio spaziale rabdomantico ma assoluto divenuto immagine.


Alberto Burri nel 1978 circa in uno scatto di Aurelio Amendola.

La possibilità di accedere e perfino di concepire un grado nuovo dello spazio della forma


La posta in gioco è il riscatto da ogni condizione obbligante a soggiacere, limitante la libertà, inibitiva di un immaginario aperto; è la possibilità di accedere e perfino di concepire un grado nuovo dello spazio della forma e della bellezza che ristabilisca tutti i parametri di un diverso confronto antropologico dopo la caduta, la perdita, la deriva subite. Sfida e scommessa che sottendono una protesta muta ma non meno presente quando a darle voce è un’immagine che Burri compone con una determinazione che rasenta la brutalità di un grido, certamente priva di qualsiasi filtro estetico che ne attutisca l’urto nella coscienza di chi osserva le sue immagini.


Legno Sp (1958), Città di Castello, Fondazione Burri - palazzo Albizzini.

Tra il dipinto a olio su tela Texas (1945) e il citato Studio per lo strappo (1952) acquistato da Fontana nell’ottobre di quell’anno alla Biennale di Venezia, si colloca l’epifania della pittura di materia di Burri. Nel periodo 1948-1951 l’apparizione e lo sviluppo dei Catrami, nel 1950-1951 delle Muffe, ma già nel 1949 l’affacciarsi dei Sacchi nella composizione a collage di alcuni oli, soprattutto in quella Composizione (1949) a olio, acrilico e sacco su tela e in SZ1 (1949), in olio e sacco su tela (che oltre a ostentare lacerti della bandiera americana reca altresì scritte a caratteri capitali rivelatrici degli aiuti alleati disposti dal Piano Marshall, nell’immediato dopoguerra, ai paesi europei e nella fattispecie all’Italia), costituiscono l’impalcatura di una nuova concezione di creare lo spazio pittorico affiancando alla pittura la materia nuda e cruda, o addirittura spesso sostituendola ormai al colore stesso.

Nonostante l’assiduità nell’impiego della materia, avendo ricavato componenti diverse la medesima forza espressiva ed esiti linguistici coincidenti, Burri non ha mai esaltato la materia in quanto tale, cioè come finalità a cui ascrivere la sua poetica, piuttosto egli l’ha considerata l’elemento con cui raggiungere una qualità di spazio e una forma che non ha esitato a definire di «squilibrato equilibrio», fino a sancirne nell’immagine la sua essenza. Così, il susseguirsi nel tempo di materie diverse nell’elaborazione delle sue opere ha significato il suo interesse per ciascuna di esse, ma anche l’abbandono di una materia per un’altra quando quel tipo di rapporto, perdendo di attrazione e intensità nel suo modo di sentire, si esauriva. Ciò a dimostrazione, una volta di più, che la materia, pur essendo centrale nella preparazione dell’opera, è sempre stata al servizio della creazione di un’idea di spazio che ne riscattava, attraverso sapienti atti di formalizzazione, la congenita inerzia e gravità. Tale intendimento appare evidente quando, a metà degli anni Cinquanta, dopo aver concepito e dato vita ad alcune delle più significative fasi della sua sperimentazione con materiali come catrame, pietra pomice, vinavil, sacco, oro, cellotex, segatura, stoffa, corda, sabbia, stoppa, porporina argentea, gesso e olio, Burri decide di impiegare il fuoco nell’azione formatrice dell’opera, in una modalità determinante per la sostanza e l’immagine del quadro.


Cellotex (1979), Città di Castello, Fondazione Burri - palazzo Albizzini.

Burri la pittura, irriducibile presenza

Burri, la pittura, irriducibile presenza
Venezia, isola di San Giorgio Maggiore, Fondazione Giorgio Cini a cura di Bruno Corà
la mostra è organizzata dalla Fondazione Burri
in collaborazione con Tornabuoni Arte e Paola Sapone
fino al 28 luglio
orario 11-19
catalogo Fondazione Burri
www.cini.it

ART E DOSSIER N. 366
ART E DOSSIER N. 366
GIUGNO 2019
In questo numero: Le anime del Novecento: Kounellis: le radici; Lee Miller tra fashion e guerra. In mostra: Burri a Venezia, Haering a Liverpool, Lygia Pape a Milano. Rinascimenti in mostra: Verrocchio a Firenze, Il Mediterraneo a Matera. Il mito dell'odalisca: Orientalismi in mostra a Parigi.Direttore: Philippe Daverio