Grandi mostre. 3
Vilhelm Hammershøi a Parigi

LA SOLITUDINEDI UN NUMERO UNO

Immagini spoglie, essenziali dove tutto è immobile.
Figure di spalle, perlopiù femminili, ritratti, paesaggi, interni privi di esseri umani in un silenzio assordante carico di mistero.
Così il danese Vilhelm Hammershøi ha espresso la sua poetica, geometrica, malinconica, enigmatica.

Valeria Caldelli

Parigi. Il suono del silenzio nella perfezione della solitudine. Eppure non è un senso di pace quello che trasmette Vilhelm Hammershøi, pittore danese vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo scorcio del Novecento. Semmai ci comunica ansia, inquietudine, insieme a una sottile malinconia e al mistero che accompagna sempre tutto ciò che non è razionalmente comprensibile. Come quella figura femminile, abito nero e capelli raccolti sulla nuca, che ci volta le spalle, in piedi davanti a una finestra che immaginiamo possa esserci ma non si vede. Nelle due stanze entra una luce incerta, nebbiosa, e si diffonde attraverso tonalità che vanno dal grigio al bruno. Lo sguardo supera lo spazio delimitato dalla porta aperta e si concentra sulla donna, per fermarsi subito dopo sull’altra porta, questa volta chiusa. Le stanze sono spoglie, tranne due piccoli quadri alle pareti e un tavolo in angolo, seminascosto alla vista. Tutto è rigorosamente fermo, l’atmosfera opprimente, senza tempo. 

Inutile chiedersi quali spazi l’artista sta dipingendo e perché la signora in abito nero è ritratta in quella posizione. Hammershøi non ce lo dice nemmeno nel titolo: Interno con donna in piedi. A indicare una scena universale, dalla quale qualsiasi caratteristica privata o confidenziale è stata scrupolosamente estromessa in una sorta di purificazione dell’immagine. 

Figure solitarie, quasi sempre femminili e spesso di spalle, “congelate” in eventi inesistenti o incomprensibili dentro spazi vuoti o disadorni, dai colori tenui e monotoni sono un tema costante e fondamentale dell’arte di Hammershøi. Lo ritroviamo, tra le molte altre volte, in Interno, dipinto nel 1899, dove la stessa donna dell’opera precedente, quasi certamente la moglie Ida, ha il viso rivolto verso la nuda parete a cui è appoggiata una stufa. Le porte sono tutte chiuse e il tavolo, totalmente privo di suppellettili, è senza sedie. Nuova composizione, stessi enigmi. Più tardi, in epoca più matura, donne e uomini scompaiono definitivamente in molte delle sue opere, qualche volta sostituiti da un mobile, lasciando spesso la scena a una sequenza di stanze spoglie. In realtà non sembrano essere mai state le persone a interessare l’artista, quanto, piuttosto, un’armonica connessione tra spazi, mobilio ed eventuali figure umane, non importanti in sé, ma solo come parti della elaborazione artistica.


Interno con donna in piedi (senza data).

Figure solitarie, “congelate” in eventi
inesistenti o incomprensibili


Nel bel palazzo che ospita il Musée Jacquemart- André in boulevard Haussmann a Parigi si apre una grande retrospettiva dedicata al maestro della pittura danese, nella quale si rievoca attraverso una quarantina di opere quell’atmosfera misteriosa e poetica che nasce dall’universo dell’artista. Vilhelm Hammershøi ottenne molti riconoscimenti in vita, segno di apprezzamento e stima da parte dei suoi connazionali, ma resta tuttora poco conosciuto fuori dalla Danimarca. La mostra parigina offre l’opportunità di ripercorrere il suo viaggio artistico, dai primi ritratti ai nudi, passando attraverso i paesaggi e la sua affascinante serie di interni. Un modo anche per riandare a quei processi inconsci che Freud stava scoprendo e per entrare in quel mondo borghese nordico di cui Ibsen in quegli stessi anni descriveva le contraddizioni. Spiega Jean-Loup Champion, cocuratore della mostra insieme a Pierre Curie: «Hammershøi non conosceva Freud, mentre l’u niverso delle opere di Ibsen, celebri in quel momento in tutta Europa, non è estraneo a ciò che la sua pittura ci trasmette oggi. Inoltre in molte delle sue opere, con i personaggi vestiti di nero, si può ritrovare l’atmosfera luterana della Danimarca, evocata nel celebre film di Gabriel Axel Il pranzo di Babette».


Interno (1899 circa), Londra, Tate.

Taciturno, timido, probabilmente introverso, di certo caratterialmente poco socievole, Hammershøi non viveva, però, isolato dal mondo. Non solo parte cipò alle vita attiva di Copenaghen, città dove era nato (1864), ma dedicò ai viaggi buona parte della sua breve vita (morì nel 1916 a cinquantuno anni). Fu molte volte in Olanda, Belgio, Germania, Italia, Inghilterra. E soprattutto a Parigi, dove l’impressionismo ormai dilagava lasciando la sua impronta anche sulle nuove generazioni. Ma Hammershøi non ne fu mai coinvolto. «Vedeva bene quello che succedeva nel mondo e aveva capito l’arte della sua epoca, ma senza dubbio non l’ha amata», racconta Jean-Loup Champion. «Quando si installa a Parigi, al momento dell’Esposizione universale del 1889, dove erano in mostra quattro dei suoi dipinti, e poi ancora nel 1891- 1892, lui sostiene di interessarsi solo all’arte antica e non visita che il Louvre. Non ha mai parlato dell’impressionismo, movimento che non ha visibilmente avuto alcuna influenza su di lui. In una lettera a sua madre critica l’arte dei Nabis, ma non dà alcun dettaglio », continua il cocuratore.


Riposo (1905), Parigi, Musée d’Orsay.

Raggio di sole nel soggiorno III (1903), Stoccolma, Nationalmuseum;


Interno, Strandgade 30 (1904), Parigi, Musée d’Orsay.

Enigmatico, infatti, Hammershøi non lo era solo nei suoi quadri, ma anche nei giudizi sulla pittura altrui, di cui non si trova traccia neanche nell’epistolario con i familiari durante i lunghi periodi di viaggio. Non sembra che avesse mai cercato di costruirsi una rete di rapporti internazionali con i suoi colleghi artisti, anche se, ovviamente, ebbe modo di vedere le loro opere. Unica eccezione, il pittore americano James Abbott McNeill Whistler, che alla fine dell’Ottocento viveva in Inghilterra. Hammershøi provò ad andare da lui, ma questa volta alla timidezza si aggiunse la sfortuna: Whistler era partito e l’incontro non avvenne mai. 

In realtà il pittore danese frequentava un numero piuttosto ristretto di persone ed era molto legato alla sua famiglia: Anna, la sorella che spesso usa come modella per i suoi quadri; Svend, il fratello artista con cui può confrontarsi, e la madre Frederikke, donna dalla personalità molto forte, la prima a credere nel suo talento. La mostra del Jacquemart- André ci introduce nel suo entourage familiare, allargato a quelli che furono i suoi amici d’arte. Champion ce ne parla così: «Peter Ilsted, suo cognato, e Carl Holsøe, conosciuti entrambi all’Accademia reale delle Belle arti, hanno dipinto per tutta la vita, come lui, interni popolati da personaggi femminili visti da dietro e mi è sembrato importante confrontare le loro opere con quelle dell’immenso artista che è Hammershøi, per indicare somiglianze e differenze e così dimostrare l’importanza e l’originalità del mondo di Hammershøi che oggi tanto ci affascina». 

In Tre giovani donne, uno dei dipinti esposti, si riconoscono la moglie Ida (al centro) con la sorella Anna nell’atto di leggere un libro e Ingeborg Ilsted, moglie dell’amico e cognato Peter, fratello di Ida. Tutte e tre sono sedute, ma non hanno contatti tra loro: ognuna è immersa nel suo mondo interiore. Insieme, ma ugualmente sole nell’universalità del silenzio. Un silenzio che si propaga anche nelle città e nei paesaggi, sempre inesorabilmente deserti, anche quando nella realtà sono affollati e pieni di vita. Così Chiesa di San Pietro, Copenaghen, è solo un monumento, un ricordo del passato, un eroe eterno che non è associato a nessun elemento della moderna vita della città. Come ci dice Jean-Loup Champion: «Hammershøi ha la tendenza a eliminare tutti gli elementi che sono di troppo ai suoi occhi, qualsiasi aspetto pittoresco, per mantenere solamente la geometria e l’essenza». In molti se ne sono chiesti il motivo. Una delle risposte affonda le sue ragioni nelle fragilità del pittore, nel suo non sentirsi mai a suo agio nel mondo che cambiava e da cui si difendeva inserendo nei suoi quadri quell’armonia e quella coerenza che non trovava intorno a sé. Allora quei dipinti diventano fortificazioni o santuari, capaci di tenere a bada il mondo esterno. Non è un caso, d’altronde, che Hammershøi elimini i “fronzoli” e rappresenti solo tutto ciò che è stabile, che non cambia, e quindi dà sicurezza. Un’àncora per lui più che un messaggio per gli altri. Ma quell’atmosfera di solitudine che emana dalle sue immagini quasi monocrome richiama anche una società perbenista, attenta più alle regole che ai sentimenti, repressiva e ossessiva, di cui l’uomo non è più artefice, ma vittima. In quegli stessi anni e un po’ dopo, in un paese oltreoceano, Edward Hopper, un altro figlio della borghesia, dipingerà il silenzio della rumorosa società americana con più colori, ma con la stessa freddezza sintetica, regalandoci uguali inquietudini. Popoli diversi, identica solitudine.


Un silenzio che si propaga
anche nelle città e nei paesaggi


Nudo femminile (1910), Copenaghen, David Collection.

Paesaggio da Virum, vicino a Frederiksdal, estate (1888).


Tre giovani donne (1895), Ribe, Ribe Kunstmuseum.

Hammershøi, le maître de la peinture danoise

Parigi, Musée Jacquemart-André
a cura di Jean-Loup Champion e Pierre Curie
dal 14 marzo al 22 luglio
orario 10-18, lunedì 10-20.30
catalogo Culturespaces - Fonds Mercator
www.musee-jacquemart-andre.com

ART E DOSSIER N. 363
ART E DOSSIER N. 363
MARZO 2019
In questo numero: Expat: artisti senza patria. Anguissola, una cremonese in Sicilia. Cassatt, dalla Pennsylvania a Parigi. Ribera, uno 'Spagnoletto' a Napoli. In mostra: Hokney e Van Gogh ad Amsterdam. Futuruins a Venezia. Hammershoi a Parigi. Boldini a Ferrara. Hollar a Vinci.Direttore: Philippe Daverio