Letture iconologiche
La tempesta di Giorgione: un’interpretazione

IL PITTORE
E LA ZINGARA

Tra le molte interpretazioni della Tempesta di Giorgione, ne proponiamo qui una che recupera l’antica identificazione della figura femminile con quella di una zingara e la collega da un lato a una leggenda rom, dall’altro a un ulteriore, singolare e drammatico dipinto dello stesso artista.


Bruno Morelli

Nella Tempesta di Giorgione (1507-1508; Venezia, Gallerie dell’Accademia) è raffigurata una maternità. La donna è la zingara di cui lo stesso “Zorzi”, il pittore, si innamorò perdutamente, dipingendola più volte, fino alla sua morte. Una tela enigmatica - come del resto quasi tutte le opere del maestro veneto del Cinquecento - che forse nasconde qualcosa.
La donna ci guarda, come volesse mormorare qualcosa. Su un lato un aitante soldato esibisce il suo magnifico vestito mentre ammira l’amata. Le figure si collocano in un’ambientazione campestre, lontano dalla confusione cittadina, al di fuori della società convenzionale. Si lasciano alle spalle la città, mentre le vestigia di una colonna decretano una cultura al tramonto. Un temporale sta per scatenarsi su di loro. Il fragile ponte offre una possibilità superando un fiume che al tempo stesso separa e collega. Forma di continuità, di unificazione, sorta di aiuto alle difficoltà della vita. L’acqua scorre lenta e silenziosa.

La madre, solitaria e pensosa, allatta il figlio incurante della propria nudità e della presenza dell’uomo. Rivolge a noi la sua attenzione. I due personaggi appaiono come divisi da qualcosa, da un evento. Intorno, una fitta vegetazione costituisce il paradiso perduto che anticipa un dramma. La quiete prima della tempesta.

Il pittore, fuori scena, tenta una ricomposizione “panica” dell’insostenibile scissione, ricorre cioè all’ordine della natura. Cosa vuole comunicare l’artista con questi strani indizi? Si tratta forse della negazione di un sentimento tra i giovani? O l’allegoria di una triste storia d’amore? Il dipinto ci arriva da lontano e i dubbi si accavallano ogni qualvolta si tenti di leggerne l’intensa e sofisticata simbologia.

Conservare e fissare nel tempo la storia di un amore complicato


Un’antica leggenda potrebbe chiarire alcuni enigmi, anche se l’opera sembra resistere come un forziere a ogni tentativo di essere violata. Il pittore sembra tutelare anfratti oscuri, impenetrabili, ignoti persino a lui stesso, perché a parlare, in fondo, è il suo inconscio.

Comune ai gruppi rom dell’Italia centromeridionale, tramandato per via orale nei secoli, il racconto è noto come la Storia di Genoeffa, la zingara della quale si innamora un giovane di stirpe nobile.

Narra di un rapporto tormentato, contrastato per via delle differenti classi sociali a cui appartengono, fino a spingere il giovane a nascondere nel bosco l’oggetto della “vergogna”. Ormai incinta, la ragazza è prossima a dare alla luce un figlio che dà inequivocabile concretezza all’inaccettabile unione. Il giovane conduce la donna nel fitto di una foresta dove di tanto in tanto si reca a farle visita; poi, col tempo, finisce per dimenticarla. Un giorno però, durante una battuta di caccia, il giovanotto viene attratto dal vagito di un neonato. Avvicinatosi, scopre che la ragazza da lui amata aveva appena partorito; e miracolosamente era sopravvissuta al freddo e ai pericoli del bosco. La leggenda continua ma non ha un lieto fine; l’uomo abbandona la madre portando via con sé il bambino.

Ma fermiamoci a riflettere su un dettaglio del racconto, forse il più indicativo: il personaggio a destra del quadro, ovvero la donna col bambino. Risulta assai insolito, in effetti, il suo modo di allattare il neonato. Il quale non giace sul grembo materno ma è a terra come se la madre non potesse tenerlo in braccio, per qualche ragione. La donna è seduta su un lenzuolo che a mala pena le copre le spalle, spoglia di tutti i vestiti. Una puerpera non allatta immediatamente il piccolo tenendolo sul ventre, perché indolenzita dalle doglie; allatta stando su un fianco, più o meno come è riprodotto nel quadro. La scena sembra davvero inusuale per un luogo all’aperto, niente fa supporre una stanzialità, sembra piuttosto una sistemazione precaria, di fortuna, quasi a mettere in luce un evento improvviso. Si tratta di un parto spontaneo, senza assistenza.

Il racconto, così, chiarirebbe i rapporti fra i personaggi, nonché il contesto in cui i fatti avvengono. A Venezia, a quei tempi, non era insolito creare rompicapo con le pitture. Gli artisti accettavano commissioni capricciose da benestanti che solevano elaborare specie di rebus visivi: opere d’interpretazione occulta, racconti erotici, e altro ancora il cui fine era selezionare una cerchia di pochi eletti. Quindi non sarebbe strano pensare di essere di fronte a un esempio simile, vale a dire al voler conservare e fissare nel tempo la storia di un amore complicato tra un eletto e una zingara, per giunta meretrice.


Giorgione, La tempesta (1507-1508), particolari, Venezia, Gallerie dell' Accademia.

L’interpretazione, infatti, non risulta infondata se teniamo conto di alcuni documenti. Una prima traccia ci proviene dal Cinquecento e riguarda la collocazione “zingaresca” dell’opera. Si tratta del noto taccuino di Marcantonio Michiel, cronista e nobile veneziano del tempo, che vede la tela nel 1530, vent’anni dopo la morte del maestro, nella casa del primo acquirente/ committente, Gabriele Vendramin, e così ne fa cenno: «El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingana [zingara] et soldato, fu de mano de Zorzi da Castelfranco ».Lionello Venturi, sin dal 1913, ebbe a dire che la descrizione del Michiel è la più autentica in quanto aderente allo spirito dell’opera.

Altro sostegno viene dalla storia di un amore realmente vissuto da Giorgione per una cortigiana della laguna, narrato dal Vasari: «Si innamorò di una madonna, et molto goderono l’uno e l’altra dei loro amori. Avvenne che l’anno 1511 ella infettò di peste, non ne sapendo però altro, e praticandovi Giorgione al solito, se li appiccò la peste di maniera, che in breve tempo nella età sua di trentaquattro anni, se ne passò a l’altra vita, non senza dolore infinito di molti suoi amici, che lo amavano per le sue virtù, e danno del mondo, che perse».

Una terza traccia ci viene offerta da Giorgione stesso con l’opera nota come Ritratto di cortigiana (1509 circa), oggi al Norton Simon Museum di Pasadena (California). Se accostiamo i due volti femminili della Cortigiana e della madre nella Tempesta scorgiamo una sconcertante somiglianza. Al medesimo modo coincidono due volti maschili, quello del soldato della Tempesta e un Autoritratto di Giorgione stesso (1509-1510; Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum). Occorre chiarire che del Ritratto di cortigiana si sa veramente poco.


Giorgione, La tempesta (1507-1508), particolari, Venezia, Gallerie dell'Accademia.

Di fattezze classiche, e delicata nei lineamenti, la testa gira di tre quarti lanciando uno sguardo di traverso


Una scheda di attribuzione redatta da Federico Zeri la inserisce tra le sibille delfiche, data la collana di ghirlande sulla fronte con appeso il ciondolo della verità. Si tratta di una sibilla-zingara, in verità: va ricordato che la “romnì”, la zingara, è sempre dotata di virtù divinatorie, anche se cortigiana. Nell’analisi di questo dipinto alcuni segnali chiari circoscrivono la donna in ambito etnico, cioè come appartenente al mondo rom, e consentono poi di risalire alle motivazioni che possono aver spinto l’artista a concepire l’opera.

Il Busto di cingana, come l’aveva ribattezzato Zeri, è un “cold case”, un caso non risolto. La donna è ritratta a mezzo busto e riempie quasi totalmente lo spazio; si presenta con un’aria di sfida. Il primo dato saliente del dipinto è la posa; sembra alludere a un fatto drammatico, che si rivela attraverso una serie di tracce a dir poco agghiaccianti. Si osservi bene il collo, il seno e poi la mano della ragazza che afferra lo scialle a righe tirandolo su come per celare la nudità di un corpo. Il gesto del braccio in realtà fa pensare anche ad altro; scrutando più a fondo, ci accorgiamo che sul suo collo cola del sangue.

Lunghe strisce di liquido rosso colano giù verso il petto, originate da fori appena visibili sotto i capelli. L’immagine non ci è nuova, sembra quasi il morso di un vampiro.

La novità di questo piccolo dipinto risiede proprio in ciò che la donna sta per svelare, come fosse uscita da un film dell’orrore. Sulla parte alta del collo, dove inizia il sanguinamento, i due buchi rimandano all’azione di una belva, forse umana? Superstizioni a parte, è più probabile che la donna sia stata oggetto di stupro, data la rischiosa attività che esercitava.


Giorgione, Ritratto di cortigiana (1509 circa), Pasadena (California), Norton Simon Museum.

L’autore sottolinea con cura l’appartenenza esotica della donna usando il simbolo caratteristico del tessuto rigato tipicamente rom, evidente sul coprispalle tenuto per avvolgersi. Anche Zeri non aveva dubbi sul marchio grafico di una casta tenuta sotto controllo sociale sin dal Medioevo, tanto da classificare l’opera, appunto, come «busto di cingana»(1). Di fattezze classiche, e delicata nei lineamenti, la testa gira di tre quarti lanciando uno sguardo di traverso, ammiccante e un po’ corrucciato, dritto al fruitore, cioè al testimone oculare di un reato commesso nel silenzio dell’omertà. Altera, con un’aria distaccata, guarda il pittore che immortalerà la scena. Vuole comunicare al mondo, all’amico-compagno Giorgio, qualcosa che la gente non sa? Grida la sua vendetta?

Noi oggi possiamo solo raccogliere una “denuncia contro ignoti” da spalmare nello spazio e nella storia. Ma perché l’artista dovrebbe tramandare il “reato” ai posteri? L’atto di per sé non avrebbe senso se un legame intimo, d’amore, non stesse lì a giustificare l’interesse del pittore in quanto ferito negli affetti, offeso nell’orgoglio.

In conclusione, possiamo azzardare l’ipotesi che il racconto di Genoeffa, la donna che amò Giorgione, nascosta al pubblico per pudore, ritrovata poi nella Tempesta sola e abbandonata con un bimbo di clandestina paternità, sia da ritenere una metafora della sua passione, nascosta al pubblico per pudore, nei confronti della bella cortigiana della laguna, di cui narra il Vasari. La Cortigiana potrebbe essere proprio lei, Genoeffa(2). L’opera, “tempestosamente” autobiografica di Giorgione, è davvero quella di un amore possibile umanamente ma di difficile consenso sociale, ovvero la manifestazione di un rapporto consumato in segretezza, lontano da occhi indiscreti e dal chiacchiericcio di ambienti altolocati dai quali dipendevano, purtroppo, le sue committenze.


Giorgione, Autoritratto (1510 circa), Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum.

(1) La tempesta è uno dei dipinti più misteriosi di Giorgione. Le interpretazioni di soggetto e personaggi sono molte: Adamo ed Eva, Fortezza e Carità, la famiglia del pittore, Giasone e Demetra, Giove e Io, semplicemente un paesaggio con figure... E molti anche gli studiosi che vi si sono applicati, da Wind a Hartlaub, a Calvesi, Settis, Nepi Scirè, Aikema, Gentili. Alcuni mostrano certezze, altri meno e altri ancora, forse con saggezza, attendono prove certe per accreditare definitivamente un’interpretazione.

(2) «A quei tempi, infatti, la presenza rom in quelle regioni era molto radicata. Arrivati nella Serenissima dai territori bizantini alla fine del XIII° secolo, furono deportati come schiavi alle galere, tanto che poi furono usati nell’offensiva contro l’avanzata Turca», da B. Morelli, Athinganos, zingari. Arte e baratto, Roma 2017.

ART E DOSSIER N. 361
ART E DOSSIER N. 361
GENNAIO 2019
In questo numero: La Zingara infelice. Una lettura per la Tempesta di Giorgione. In mostra: Cai Guo-Qiang e Urgessa a Firenze, Renzo Piano a Londra, Gio Ponti a Parigi, Klee a Milano, Lotto nelle Marche. Europa di contrasti. Poveri e girovaghi nell'arte olandese del XVII secolo. Il linguaggio internazionale degli scalpellini medievali.Direttore: Philippe Daverio