La pagina nera

L’AFFRESCO SARÀ VILE,
MA PERDERLO È INCIVILE

Montefusco, in provincia di Avellino, è un luogo emblematico sia della ricchezza del “museo diffuso” che caratterizza il territorio italiano, sia dello stato di abbandono in cui troppo spesso è lasciato il patrimonio.


di Fabio Isman

L'unicità del patrimonio storico e artistico italiano non risiede (soltanto) nella quantità, o nell’abbondanza dei capolavori. Non è vero, come si ostinano a ripetere tantissimi stolti, che «possediamo il tot per cento » (spesso, quote incredibili: perfino i sei decimi, o più) «dei beni culturali che esistono » in Europa, se non addirittura al mondo: nel nostro paese non abbiamo inventari completi, né tantomeno ce ne sono per il continente; e paragonare percentualmente due entità ignote, dovremmo saperlo fin dalla scuola media, è esercizio tra i più vani e, se posso, imbecilli. L’autentica unicità del nostro patrimonio è d’essere disseminato d avvero ovunque; e che, sui siti, la vita sia sempre continuata. Per cui, ogni borgo italiano possiede oggi qualcosa di cui andare fiero: una traccia del passato, qualche reperto che lo riconduce alle radici.

Prendiamo il caso di Montefusco. Tantissimi ne ignorano perfino l’esistenza. È un piccolo comune, appena milletrecento abitanti, a cavallo tra le province di Avellino e di Benevento, a settecento metri d’altezza; forse la Fulsulae citata da Tito Livio, ma con tracce di presenza umana fin dal neolitico.

Ha vissuto l’epoca dei longobardi, dei normanni e degli svevi; sotto gli angioini, diventa la capitale del Principato Ultra, controllando anche le intere province di Benevento e Avellino; perde importanza dal Settecento, e ancor più nel secolo successivo: nel 1806, la capitale del principato si trasferisce ad Avellino. Al massimo, qualcuno ne ricorda il nome per via del carcere borbonico, di cui diremo, ricordato come “lo Spielberg dell’Irpinia”. Tuttavia, ancora all’inizio del Novecento vi abitavano cinquemila persone.

Una memoria della passata grandezza risiede sottoterra, ed è l’oratorio di San Giacomo, nelle viscere della chiesa e abbazia di Santa Maria della Piazza, probabilmente il primo luogo di culto edificato per i civili, perché esterno al castello. Era la cripta dell’edificio soprastante, tra le più antiche chiese del luogo, forse del 1190, di cui ora resta quasi soltanto l’abside, con pochi lacerti di pitture.


Senza manutenzione e restauri gli affreschi stanno per svanire


L’oratorio si è però salvato, e mostra ancora affreschi assai interessanti, in grande quantità, dipinti in due riprese da mani purtroppo ignote: nel XIII e XVII secolo. Affreschi che, purtroppo, stanno per sparire: privi di manutenzioni e restauri, i loro colori, ancora abbastanza vividi, sono destinati a una fine sicura. Il Fai, Fondo ambiente italiano, ha inserito l’oratorio tra i “Luoghi del cuore”; ma, purtroppo, non ha raccolto che 503 voti, e non è andato oltre il 226° posto in graduatoria. Certamente, per il fatto di essere sconosciuto: questo luogo dell’Italia “minore” va forse svelato, per poter essere poi salvato; è un triste destino, comune a tante altre “piccole bellezze” del paese. Allora, assumiamolo come un esempio, tutto da raccontare.


Alcune immagini dell’oratorio di San Giacomo a Montefusco con dettagli degli affreschi secenteschi e una cella del carcere borbonico.

«In origine, la cripta era un piccolo cimitero», dice la storica dell’arte Rossella Mercurio; ma nel 1652, è fondata la congrega di San Giacomo, cui viene concessa: una cappella dove svolgere gli esercizi spirituali. Dagli atti che si sono conservati, sappiamo che padre spirituale ne era l’abate della chiesa soprastante: i confratelli gli corrispondevano «otto ducati e tre libbre » all’anno; in cambio, potevano utilizzare anche le campane. E a quell’epoca si deve il secondo ciclo degli affreschi: di quelli più antichi, infatti, l’origine si perde, appunto, nella notte dei secoli. Il luogo godeva di un ingresso proprio, e aveva un’immagine del santo dipinta sull’architrave. Un acquasantiera all’ingresso, e lungo le pareti dei sedili a spalliera, in noce; un altare in pietra sul fondo, e un paliotto pure di legno dipinto; una cancellata, sempre lignea, separava l’area dell’altare, dove c’era una statua di san Giacomo apostolo. Al centro del pavimento, una botola portava a un angusto luogo di sepoltura, con sedici sedute e la scritta «Pro Confratribus». Nella cripta furono allora aperte le finestre sul lato orientale.

Tra i dipinti più antichi e significativi, una Santa Caterina d’Alessandria con la ruota aculeata, il suo strumento di tortura; è in mezzo alla parete di fronte all’entrata. Ci sono poi teste di santi, in tondi e lunette; e altri a figura intera sotto le finestre. Il singolare soffitto, con una sequenza di volte a crociera terminanti in una a botte, è affrescato con Storie del Vecchio e del Nuovo testamento, come l’Ultima cena, una Madonna con Bambino, un Sant’Antonio: una prospettiva assai suggestiva e profonda. Un’iscrizione identifica alcune tra le pitture più recenti e ancora leggibili: San Pietro battezza i primi cristiani; il Martirio di san Giacomo; lo Sposalizio della Vergine; la Crocifissione; l’Annunciazione. Ma dopo più di due secoli, la congrega di Giacomo Apostolo si disgrega, per mancanza di clero e di mezzi; e dopo l’Unità d’Italia, la cripta è incamerata dallo Stato. Oggi è l’anticamera della rovina, dice Raffaele Grimaldi, un giornalista della vicina Mercato San Severino assai attento al paesaggio delle sue zone: «A causa dell’incuria e del tempo, i colori e la voce di questi affreschi stanno sparendo per sempre».


Della prigione, nei due piani seminterrati del castello di origine longobarda, si è invece occupato lo storico Edoardo Spagnuolo(*). Anche se «nessun “patriota” è morto nelle carceri borboniche di Montefusco », e spiega che «mai nel Regno delle Due Sicilie si raggiunse l’efferatezza dei sabaudi». «Epidemie e violenze hanno fatto strage di “briganti”» nelle loro prigioni; e racconta, nei dettagli, «il drammatico trattamento riservato a tanti poveri disgraziati rinchiusi nel carcere dopo il 1860», sottolineando che le «sofferenze degli umili e dei deboli non hanno mai trovato ascolto presso l’ampollosità delle celebrazioni risorgimentali». Si rifà ai documenti rintracciati ad Avellino, nell’Archivio di Stato, più che alle Memorie di Sigismondo Castromediano, patriota, archeologo e letterato (1811-1895), «che costituiscono l’unica fonte finora utilizzata per conoscere le vicende» di quella galera. Il barone pugliese, aderente alla Giovane Italia, nel 1848 è accusato dai borbonici di cospirazione e sommossa; condannato a trent’anni, ne trascorre dieci dietro le sbarre; Ferdinando II gli concede poi di emigrare; va in Gran Bretagna e, al ritorno, è deputato nel primo Parlamento italiano.

Quel carcere esiste ancora, e al contrario dell’oratorio è stato restaurato; le celle sono intatte, e si può ancora capire quanto fosse tetro.


Ci sono passati tanti nomi famosi, tra cui Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini. Funzionò fino al 1923, e, cinque anni dopo, divenne monumento nazionale; oggi è un museo, a lungo diretto da Emilia Dente. Era un «bagno penale di prima classe». Le punizioni dei prigionieri erano esemplari. Colpiti sulle natiche con una corda detta “mattascione”, o legati da catene, per giorni, a un “puntone”: un grosso anello infisso nel suolo. Un detto locale spiega bene quale fosse la situazione; recita: «Chi entra a Montefusco e poi ne esce, può dire che sulla Terra un’altra volta nasce». Negli ampi corridoi, tutta l’angoscia è servita: le inferriate, «tenebrose porte di ferro, catene e pesanti imposte di legno», come ha scritto qualcuno; le celle molto più che disadorne: l’anticamera dell’inferno; mentre dai pannelli che spiegano, si sa quanto accadeva tra queste mura.

Qui finivano coloro cui andava, tutto sommato, bene: Montefusco era sede di tribunale, e rapine, atti di brigantaggio, omicidi, violenze carnali, incendi, incesti erano puniti con l’impiccagione. Né si stava troppo meglio dopo l’Unità: solo dal 22 febbraio al 28 aprile del 1860, per limitarci a un esempio, «149 malati di febbre tifoidea: morti 31; in cura 76; guariti 42». Ecco: perché un luogo che ancora conserva (ma per quanto?) affreschi assai interessanti (e forse, tutti ancora da studiare), deve mai restare noto alla storia, e nelle storie, soltanto per questo suo carcere immondo?


(*) E. Spagnuolo, L’inferno del regime carcerario sabaudo dopo il 1860, una strage nel carcere di Montefusco, Napoli 2004, p. 84.

ART E DOSSIER N. 361
ART E DOSSIER N. 361
GENNAIO 2019
In questo numero: La Zingara infelice. Una lettura per la Tempesta di Giorgione. In mostra: Cai Guo-Qiang e Urgessa a Firenze, Renzo Piano a Londra, Gio Ponti a Parigi, Klee a Milano, Lotto nelle Marche. Europa di contrasti. Poveri e girovaghi nell'arte olandese del XVII secolo. Il linguaggio internazionale degli scalpellini medievali.Direttore: Philippe Daverio