Grandi mostre. 4 
L’Eterno e il Tempo.
Tra Michelangelo e Caravaggio a Forlì

LA FEDE, IL PENSIERO,LA TECNICA

Il Cinquecento fu un secolo di reali o di apparenti certezze?
Da questo spunto prende le mosse il progetto espositivo ai Musei San Domenico che, con uno sguardo inedito, indaga, come ci racconta qui una dei curatori, la relazione tra Dio e l’uomo in un’epoca in cui la Chiesa dava segni evidenti di cambiamento.

Paola Refice

Nulla da dire: di mostre, in Italia se ne vedono molte, secondo alcuni troppe. Proprio per questo, perché funzionino e - non da ultimo - perché non si getti alle ortiche quel tanto di etica rimasta a presidiare i discussi baluardi della cultura, le mostre devono avere un senso. 

Perché ciò accada - concordiamo - occorre che una buona idea di fondo sia coltivata con tutte le necessarie attenzioni a un fine: che il pubblico possa trovarsi a vivere un’esperienza estetica coinvolgente, percorrendo agevolmente un discorso articolato in termini diversi (più immediati? Più appaganti?) rispetto a una lezione frontale, o alla lettura di un manuale, o ai contenuti presenti in un sito, o a una serie di saggi. 

Il proposito da cui è nata la mostra ai Musei San Domenico di Forlì (L’Eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio, dal 10 febbraio al 17 giugno), talmente arduo da rasentare l’immodestia, è quello di indagare, attraverso lo sterminato mondo delle immagini, il rapporto tra il cielo e la terra, tra l’infinito e l’umano, e infine tra l’Eterno e il Tempo in quel secolo di apparenti certezze che fu il Cinquecento. 

Gli storici hanno da tempo contestato, con motivazioni convincenti, il pregiudizio che la Chiesa cattolica dell’epoca non fosse portatrice che di scelte e di iconografie reazionarie, nate per contrastare una Riforma protestante, aliena minaccia ai propri dogmi e simboli; e che le sublimi, complesse esperienze dei grandi maestri manifestassero i sintomi di imbarazzanti contaminazioni con tendenze eterodosse. Certo, mai la critica ottocentesca avrebbe auspicato il rogo per Michelangelo; e che a Caravaggio convenisse il ruolo dell’artista maledetto rimaneva una questione di “genio” e di costume. 


La rivoluzione del modello
classico, l’esaltazione del corpo
tra sacro e profano


È nel secolo scorso, dagli studi di Hubert Jedin e poi di Paolo Prodi e di altri, che è emersa l’opportunità di riconoscere, all’interno della Chiesa, intense volontà di riforma; già percepibili ben prima della mitica soglia dell’età moderna. 

Allo stesso modo gli storici dell’arte, per primo Federico Zeri, hanno individuato, vari decenni prima del Concilio di Trento, le radici del cambiamento. La produzione dell’immagine, e i suoi effetti, si adeguano a una ricerca di significato che precorre di almeno un secolo le problematiche “barocche”, e che si fatica a trattenere negli spazi formali della Maniera. Spetta a Luciano Berti aver obiettato che «l’esistenza di un rapporto Primo Manierismo-Riforma […] è tesi che non dovrebbe incontrare difficoltà d’accettazione, solo che vi si apponga l’avvertenza di non intendere di pretenderne però, assurdamente, delle conseguenze deterministiche, strette, letterali, come l’adesione davvero di quegli artisti al protestantesimo, il senso precisamente luterano della loro iconografia, il rigetto della cultura italiana, etc.»: e non siamo, con Berti, che nel 1966.


Caravaggio, La Madonna dei pellegrini (1604-1606), Roma, basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio.


Michelangelo, Cristo risorto (1514-1516), Bassano Romano (Viterbo), chiesa di San Vincenzo Martire.