TEMPLI DI DEVOZIONE
E DI POTERE

I primi esempi di templi sia scavati nelle colline rocciose, sia edificati con la pietra sono di impianto generale modesto, anche se la scultura è subito eccellente; presto però entrambe le tipologie volgono verso una complessità maggiore.

nel frattempo emerge un’ulteriore varietà, che conta un numero di esempi limitato ma di grande bellezza, e che consiste nel ricavare dalla roccia edifici templari perfettamente tridimensionali. Queste tre categorie di monumenti si succedono o si affiancano per alcuni secoli, con il patrocinio delle dinastie sotto il cui dominio il territorio indiano si frammenta. In generale, i vari esordi locali sono costituiti da opere ricavate dalla viva roccia, e non da monumenti strutturali, che presentano evidentemente problemi diversi e forse all’inizio sentiti di difficile soluzione. Nel trattare la pietra gli indiani si dimostrano dunque, prima che costruttori, eccellenti scultori, e in un certo senso l’edificio templare indiano classico, con la sua ricca tessitura di immagini divine e di elementi architettonico-decorativi, non perderà mai completamente l’aspetto di una grande scultura.

L’esordio dei santuari hindu in grotta avviene nei primi anni del V secolo a Udayagiri nel Madhya Pradesh, a poca distanza da Sanchi, dove iscrizioni inquadrano il luogo in contesto Gupta. Un vertice straordinario è raggiunto nel VI secolo con il santuario di Shiva a Elephanta, un isolotto al largo di Mumbai. In questa grotta dalle proporzioni e dai particolari impeccabili, le cui pareti interne sono scandite da grandi pannelli scolpiti che inscenano diversi momenti del mito del dio, campeggia una spettacolare, emozionante sua immagine a tre volti, ciascuno espressivo di un suo aspetto - meditante, terribile e femminile: si tratta, in termini ideali, di un immenso mukhalinga, ovvero di Shiva che, da totalmente trascendente come lo evoca il linga geometrico, comincia a manifestarsi e a prendere forma fra gli uomini.
Grandi laboratori artistici a questo punto si affermano nel Sud. Ricordiamo che le regioni più meridionali dell’India parlano fino a oggi, diversamente dal resto del subcontinente, lingue di famiglia non indoeuropea, e che la cultura originaria dell’estremo Sud, espressa da un grande corpus letterario in lingua tamil classica, era ben diversa rispetto a quella elaborata in sanscrito nel settentrione; ma via via calano anche qui gli dèi e i miti dell’induismo.


Tempio shivaita del Lingaraja, cioè del Re dei linga, veduta parziale (XI secolo e successivi); Bhubaneswar (Odisha).

Sadashiva (“Shiva eterno”) a tre volti, tempio in grotta di Shiva (VI secolo); Elephanta (Mumbai).


Gruppo di cinque templi monolitici, cosiddetti ratha – visti da nord –, convenzionalmente chiamati con i nomi dei personaggi principali del Mahabharata; da sinistra: Draupadi Ratha, Arjuna Ratha, Bhima Ratha, Dharmaraja Ratha, Nakula-Sahadeva Ratha (arte Pallava, VII secolo); Mahabalipuram (Tamil Nadu).

Si tratta di un cruciale processo di diffusione, assimilazione e accomodamento, che rientra in quella grande dinamica cui è generalmente dato il nome di “sanscritizzazione”, e che funziona anche come legittimazione delle dinastie regnanti in un contesto transregionale. Decisiva per tutto lo sviluppo artistico del meridione è la dinastia Pallava del Tamil Nadu; e il luogo per eccellenza contrassegnato, nel VII secolo e poco oltre, dal patrocinio artistico di questi sovrani è l’attuale villaggio di Mahabalipuram (o Mamallapuram), antico porto del regno e oggi un autentico museo a cielo aperto. Qui la prima matrice dei monumenti sono state le colline rocciose che sorgono immediatamente a ridosso della riva del mare. Oltre che una decina di tempietti in grotta, non tutti terminati, noti come mandapa (“padiglioni”), si incontrano qui i più antichi esempi di templi monolitici tridimensionali: nove piccoli santuari, anche questi non tutti ultimati e dalle forme sperimentali, che sono definiti comunemente ratha (“carri”), e dei quali particolarmente famoso è un gruppo di cinque, accompagnato da grandi sculture di animali.


Grande rilievo raffigurante l’ascesi di Arjuna, personaggio del Mahabharata, oppure il mito della discesa dal cielo della Ganga, il fiume Gange, o ancora una sintesi dei due miti (arte Pallava, metà del VII secolo circa); Mahabalipuram (Tamil Nadu).

Sculture del tempio del Kailasanatha, cioè di Shiva “Signore del monte Kailasa” (arte Pallava, inizio dell’VIII secolo); Kanchipuram (Tamil Nadu).


Interno del tempio in grotta noto come Ravala Phadi, con rilievo raffigurante la danza di Shiva (arte dei Primi Chalukya Occidentali, VI secolo); Aihole (Karnataka).

Il grande amore per la rappresentazione del mondo animale che caratterizza in generale l’arte indiana raggiunge presso i Pallava forse il suo culmine; e una foresta montuosa popolata da elefanti, scimmie, antilopi, oche e così via, oltre che da un gran numero di esseri ibridi e sovrannaturali, è inscenata a Mahabalipuram da una delle opere più famose di tutta l’arte dell’India. Si tratta di un imponente rilievo, all’incirca 12 metri per 25, che è fra l’altro replicato altrove nella località da un esempio minore. Potrebbe raffigurare un episodio del Mahabharata, cioè l’ascesi dell’eroe Arjuna per ottenere un’arma prodigiosa dal dio Shiva; oppure l’ascesi di un altro personaggio mitico, Bhagiratha, allo scopo di far scendere la dea Ganga, ossia il Gange, dal cielo sulla terra, per purificare le ceneri dei suoi antenati; oppure ancora, com’è stato proposto, si tratterebbe di un ingegnoso doppio senso, in cui allo stesso tempo sono raccontati i diversi miti. La scultura di Mahabalipuram è sobria ed elegantissima, con i suoi corpi affusolati e le iconografie in bilico fra norma significante e un’originalità profonda. Il primo tempio strutturale costruito qui è il cosiddetto Shore Temple, appunto in riva al mare; nella capitale Kanchipuram l’evoluzione verso forme templari ricche e compiute è testimoniata, in particolare, dal tempio del Kailasanatha (inizio dell’VIII secolo), cioè di Shiva “Signore del Kailasa”, il monte su cui il dio ama dimorare assorto nell’ascesi.

Soffitto del sabhamandapa (XII secolo circa), uno dei padiglioni antistanti la cella del tempio jaina Vimala Vasahi; Monte Abu (Rajasthan).


Tempio di Kandariya Mahadeva, cioè del “Grande dio (Shiva) della grotta”, visto da sud (arte Chandella, inizio dell’XI secolo); Khajuraho (Madhya Pradesh).


Tempio in grotta numero 21, noto come Rameshvara (VI secolo circa), facciata con immagine della dea fluviale Yamuna; Ellora (Maharashtra).

Tempio monolitico del Kailasanatha, cioè di Shiva “Signore del monte Kailasa”, visto dall’alto (arte Rashtrakuta, VIII secolo); Ellora (Maharashtra).

L’evoluzione da santuario in grotta a tempio strutturale, dalle forme inizialmente sperimentali e man mano sempre più consolidate, si può osservare anche presso l’altra grande dinastia dell’India meridionale del periodo, cioè i Chalukya, o meglio i Primi Chalukya Occidentali, i cui centri principali furono Badami, Aihole e Pattadakal, nell’odierno Karnataka, e che con i Pallava sono in perenne guerra, ma anche, com’è evidente, si scambiano influssi nell’arte. Nel frattempo, un poco più a nord, l’architettura in grotta conosce la sua apoteosi a Ellora, non lontano dal sito monastico di Ajanta, dove, in un periodo grossomodo databile fra il VI secolo e forse il X, lungo il fianco di un rilievo roccioso si susseguono un totale di trentaquattro scavi, nell’ordine buddhisti, hindu e jaina: con, al centro, quello che è il capolavoro assoluto dell’architettura scolpita indiana, lo spettacolare tempio shivaita chiamato anche questo del Kailasanatha. Alto all’incirca trenta metri e monolitico in tutto il suo articolato e preciso disegno, è una delle opere più straordinarie dell’arte di ogni tempo e luogo. La montagna sulla quale dimora il dio è qui riprodotta, come in un gioco di specchi, cesellando appunto una montagna.
Un’iscrizione su tavola di rame rinvenuta a Baroda (Vadodara), dell’inizio del IX secolo, ne parla come opera patrocinata dal potente re Krishna I (regno 757-773) della dinastia Rashtrakuta; alla sua vista perfino gli esseri celesti sarebbero rimasti stupefatti, e lo stesso l’architetto si sarebbe domandato “ma come ho fatto?”.

Rani-ki-Vav, “Pozzo della regina” (seconda metà dell’XI secolo); Patan (Gujarat).


Tempio vishnuita di Lakshmana, particolare delle sculture esterne (arte Chandella, prima metà del X secolo); Khajuraho (Madhya Pradesh).

Padiglione e gradinate della vasca del tempio di Surya, il Sole (1026 circa, ed epoche successive); Modhera (Gujarat).

In quest’epoca comunque le tecniche si sono affinate, le forme si sono assestate, e i templi edificati con la pietra diventano sempre più numerosi, elaborati e maestosi: l’apogeo si colloca intorno all’anno Mille. Ora, è un dato di fatto, l’attività costruttiva volge in vari contesti verso la grandiosità; sembra di assistere a una sorta di competizione fra i sovrani delle dinastie che governano le diverse regioni del subcontinente, e che sono in larga misura i patroni di questi edifici, per esprimere il loro potere, la loro ricchezza e il favore goduto da parte degli dèi, dal quale ricavano legittimazione dinanzi ai sudditi e nei confronti dei regni perennemente rivali. In questo periodo sorgono - o comunque se ne avvia la costruzione - i massimi templi di Khajuraho nel Madhya Pradesh, di Bhubaneswar nell’Odisha, del Gujarat, della dinastia Chola del Tamil Nadu, e i santuari jaina di Monte Abu nel Rajasthan, questi ultimi inaugurati da ricchi ministri, mentre a un’epoca un poco più tarda apparterranno quelli degli Hoysala del Karnataka meridionale.

Il corpo principale di questo grande santuario è formato dall’edificio della cella, con la sua torreggiante sovrastruttura, e da tre padiglioni che lo precedono sullo stesso asse: nella nomenclatura dell’Odisha, essi sono definiti, partendo dal più esterno, “sala delle offerte”, “palazzo delle danze”, e “che delizia il mondo”.


Tempio shivaita del Lingaraja, cioè del “Re dei linga”, veduta parziale (XI secolo e successivi); Bhubaneswar (Odisha).

Il tempio hindu è la dimora della divinità: è il palazzo celeste in cui risiede, e nel quale gli uomini vanno a visitarla per godere di una “visione” (darshana) reciproca e tributarle onore con preghiere e offerte, la pratica che fino a oggi si chiama puja. Anche nel radunarsi di immense folle in giorni speciali, si tratta comunque di una dimensione di culto individuale, e ciò già rende ragione di certe caratteristiche degli edifici; difatti, calibrato sul rapporto personale dio-fedele, il tempio hindu classico prevede per lo più spazi interni limitati, sempre più angusti man mano che il visitatore si avvicina alla presenza divina, cioè alla cella dove è custodita l’immagine della divinità. D’altro canto, le pratiche costruttive non contemplano archi e cupole, elementi destinati a diffondersi in India a partire, all’incirca, dall’anno 1200, con l’avvento dei nuovi signori islamici e grazie alla loro eredità culturale; tecnicamente, ciò condiziona a priori la possibilità di concepire ambienti di troppo ampio respiro. Per garantire stabilità all’edificio sono dunque necessarie pareti molto massicce, con aperture, finestre o verande, di misura ridotta, e colonne interne di sostegno.
Tre sono gli stili di base del tempio indiano classico, la cui differenza più vistosa risiede nella forma della sovrastruttura della cella: di base curvilinea nello stile del Nord, cosiddetto nagara (“cittadino”), rappresentato per esempio a Khajuraho o in Odisha; piramidale nello stile dravida del Sud, come nel Tamil Nadu; e intermedio, vesara (alla lettera “mulo”), termine di solito applicato ai - più tardi - templi Hoysala del Karnataka. Nell’India settentrionale una lunga consuetudine vuole che la porta del tempio, o della cella, sia affiancata dalle immagini delle dee Ganga e Yamuna, personificazioni dei grandi fiumi già al cuore dell’impero Gupta, e che significano, in primo luogo, acqua di purificazione per il devoto che accede alla visione divina. Alla base di tutti gli stili si trova un principio di replica, in cui i medesimi elementi architettonici sono continuamente ripetuti a comporre il corpo dell’edificio; il quale sembra risultare da un processo di emanazione, di irradiamento a partire dal suo centro, la cella nascosta nel suo interno.


Una ruota del carro del Sole, particolare della scultura esterna del tempio di Surya, il Sole (XIII secolo); Konarak (Odisha).

Tempio di Brihadishvara (il “Grande Signore”, cioè Shiva), visto da sud-ovest (arte Chola, 1004-1010 circa); Tanjavur (Tamil Nadu).

La parte essenziale del tempio è appunto la cella, il garbhagriha (“casa dell’embrione”). Si tratta di un piccolo ambiente per lo più a pianta quadrata e con un’unica porta che si apre sul medesimo asse dell’ingresso dell’edificio, attraverso la quale si scorge l’immagine (murti, archa, bera) della divinità alla quale il tempio è consacrato, di solito una stele, una statua o un linga. Potentemente evocativo, il nome sanscrito esprime come in questa camera, che gli spazi angusti e ombrosi contribuiscono a rendere densa di mistero, sia contenuto il germe di tutto l’esistente, che ogni divinità rappresenta per sua stessa natura. Se il tempio risulta almeno da una certa ambizione, la cella sarà preceduta da un mandapa (“padiglione” o “sala”), un’unità architettonica più ampia, generalmente dotata di colonne e sculture, e se è molto importante da diverse sale di vario scopo e dimensione. Segnatamente nel tempio nagara la sovrastruttura che si innalza sopra la cella è chiamata shikhara (“cima di montagna”); un monte immenso, il Meru, è secondo il mito hindu al centro del mondo, e in un certo senso ogni tempio riproduce questo centro, dalla cui cavità nascosta - la cella - il germe divino, appunto, si irradia.


La dea Sarasvati (arte Chola, 1004-1010 circa), dal tempio di Brihadishvara; Tanjavur (Tamil Nadu).


Shiva e Parvati incoronano il devoto Chandesha (arte Chola, prima metà dell’XI secolo); tempio di Gangaikondacholapuram (Tamil Nadu).


Shiva Nataraja, “Re della danza” (arte Chola, XI secolo); Parigi, Musée Guimet.

Consideriamo alcuni dei templi maggiori innalzati in questo periodo culminante. Nella Khajuraho capitale dei re Chandella, già feudatari dei grandi sovrani Pratihara, sono costruite decine di santuari, alcuni dei quali jaina; il più maestoso è il Kandariya Mahadeva, cioè del “Grande dio (Shiva) della grotta”, attribuito all’epoca del potente re Vidyadhara (regno 1004-1029 circa). Il tempio sorge su un alto podio, e la sua elevazione si compone di un solido basamento, di una porzione centrale di muri con balconcini e fasce di figure a rilievo profondo, e di sovrastrutture ascendenti di enorme complessità, secondo il principio della ripetizione degli elementi: lo shikhara che si eleva sopra la cella è formato da un corpo centrale sul quale sono addossate ottantaquattro sue repliche minori. Il programma iconografico delle pareti è ricchissimo, e comprende centinaia di immagini: divinità, surasundari (“bellezze divine”), cioè ninfe di intenso fascino e sensualità, scene erotiche, animali fantastici e così via. La scultura Chandella sa raggiungere vertici di squisitezza estrema, e per molti versi ineguagliata; nel Kandariya Mahadeva essa si armonizza nel modo più compiuto con lo stile architettonico locale, condensato e compatto. Qui più che mai l’edificio sacro, ancorato al suolo dalle linee orizzontali del basamento e fiorente verso l’alto nel movimento dei muri e dei pinnacoli, offre l’illusione di una magnifica opera non costruita, bensì interamente scolpita.

Al patrocinio del re Bhima I della dinastia Solanki (o Chaulukya) si deve il celebre tempio del Sole che sorge a Modhera, in Gujarat, databile nel 1026 e anche questo di eleganza eccezionale. Dalla planimetria estremamente articolata, questo edificio sacro possiede due padiglioni, il primo una struttura aperta e distaccata, e ritenuto un’aggiunta successiva; lo shikhara è in rovina. Si affaccia a una grande vasca, un accessorio comune nei templi indiani, che qui però raggiunge il culmine della monumentalità; e in particolare per questa vasca il luogo è rinomato. A sua volta, la regina Udayamati, sposa di Bhima I, volle far costruire nella capitale Patan un immenso pozzo a gradinate, la cosiddetta Rani-ki-Vav (“Pozzo della regina”). In origine a sette piani sotterranei, si tratta dell’esempio più straordinario di una categoria di monumenti che può vantare, in particolare qui nell’India nord-occidentale, diverse realizzazioni di grande bellezza. Questi pozzi avevano, naturalmente, lo scopo di fornire acqua e ristoro con la loro fresca ombra; sono comunque percorsi da scultura religiosa, simile a quella che si incontra sui templi.
Bhubaneswar, la capitale anche dell’odierno Odisha, è un’autentica città di templi: domina sopra tutti il cosiddetto Lingaraja (“Re dei linga”). Il suo nucleo più antico può collocarsi verso la metà dell’XI secolo, ma è stato poi lungamente ampliato, e si presenta oggi come un complesso di santuari compresi in un’area cintata che misura circa 160 x140 metri.


Ritratto idealizzato della regina Sembiyan Mahadevi come Parvati, consorte di Shiva (arte Chola, 990 circa), dal Tamil Nadu; Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.


Una madanika (“donna inebriante”) del tempio di Chennakeshava (arte Hoysala, dedicato nel 1117); Belur (Karnataka).

Possiede uno shikhara, dalla forma “ad alveare” caratteristica dell’Odisha, che supera i 50 metri di altezza. Sempre in Odisha, ma nella città costiera di Puri, un altro tempio simile e grandioso è quello vishnuita di Jagannatha (il “Signore del mondo”), iniziato nel XII secolo; sia questo, sia il Lingaraja sono tuttora al centro di un culto molto vivo, che a Puri comprende una celeberrima processione annuale. In parte in rovina, ma comunque maestoso e splendido, è invece il canto del cigno dell’architettura templare della regione, il tempio del Sole di Konarak, che il re Nrisimhadeva (regno 1238-1264) della dinastia dei cosiddetti Ganga Orientali volle costruire in forme che evocassero il carro celeste del dio.

Dopo templi di dimensioni contenute, ma dalla scultura raffinatissima, l’arte del Tamil Nadu volge verso il gigantismo con il tempio di Brihadishvara, cioè di Shiva “Grande Signore”, patrocinato nella sua capitale Tanjavur dal grande sovrano Rajaraja della dinastia Chola (regno 985-1014), il quale volle così celebrare le molte conquiste e proclamare la propria gloria. Il tempio, all’epoca della sua costruzione (circa 1004-1010) il più imponente di tutta l’India e fino a oggi frequentatissimo centro di culto, si colloca in un vasto cortile quadrangolare cinto da mura (prakara), al quale si accede attraverso portali monumentali (gopura): sono questi elementi che, da epoca Pallava in poi, diventano sempre più caratteristici dell’architettura templare del Sud. Le sue misure sono rigorosamente simmetriche, e forse per questo, nonostante il gigantismo, l’insieme appare pieno di armonia. La cinta di mura, al perimetro esterno, è lunga circa 241 metri e larga 121; l’area interna si può dividere dunque, in sostanza, in due quadrati. Di questi il primo oltre l’ingresso ospita, al centro, il padiglione del Nandin, il toro sacro di Shiva, mentre al centro del successivo sorge l’edificio della cella con la sua sovrastruttura (nel lessico architettonico dell’India meridionale, il cosiddetto vimana). Il lato di quest’ultimo, com’è usuale a pianta quadrata, misura alla base circa 30 metri, mentre la sua elevazione, dalle maestose linee piramidali, ammonta grossomodo al doppio: la larghezza della corte duplica dunque l’altezza del vimana, mentre la sua lunghezza è pari a quattro volte tanto.

A sua volta, il figlio e successore di Rajaraja, Rajendra (regno 1014-1044), volle eguagliare l’impresa paterna costruendo un tempio simile nella nuova città da lui fondata, che prese il nome di Gangaikondacholapuram, la “Città del Chola che ha conquistato il Gange”, perché nelle sue spedizioni militari, grazie alle quali il regno Chola raggiunge la massima espansione, Rajendra arriva a nord fino al grande fiume sacro; il tempio, noto anch’esso con il nome di Brihadishvara, sorge oggi solitario nella città scomparsa. È importante ricordare che oltre alle immagini “inamovibili” (achala) degli dèi collocate nelle celle dei templi, la pratica devozionale hindu contempla anche le immagini chala (“movibili”), che si possono portare in processione: anche per questo uso, nel Sud dell’India tuttora molto vivo, in ambito Chola si sviluppa una meravigliosa statuaria in una lega simile al bronzo, che raffigura le divinità e i santi vishnuiti e shivaiti della tradizione meridionale, e che ha uno dei vertici in una splendida iconografia dello Shiva Nataraja (“Re della danza”). Grande patrona di questa raffigurazione e in generale dell’arte templare è, nel X secolo, Sembiyan Mahadevi, una regina Chola dalla personalità straordinaria. Uno stile molto diverso, estremamente ornato, anche grazie alle risorse offerte da una steatite facile da intagliare, caratterizza invece i santuari patrocinati dai sovrani Hoysala del Karnataka meridionale: qui si incontrano vimana a pianta stellata e padiglioni che introducono a più celle. I monumenti maggiori sono il tempio di Chennakeshava (il “Bel Keshava”, Vishnu) a Belur, inaugurato nel 1117, e di Hoysaleshvara (“Signore degli Hoysala”, Shiva) a Halebid, della metà del XII secolo, una struttura interamente doppia, ma l’eccellenza di quest’arte si può forse osservare al meglio nel piccolo tempio vishnuita di Somnathpur, della seconda metà del XIII secolo, un gioiello perfettamente conservato.


Veduta parziale dall’alto del tempio di Shiva Nataraja, “Re della danza” (dal XII secolo circa); Chidambaram (Tamil Nadu).

Quanto alle vicende successive, l’estremo meridione, che resta solo parzialmente coinvolto dalle conquiste islamiche, e segnatamente le aree dell’odierno Tamil Nadu, conoscono a partire dal XII-XIII secolo e fino a oggi un’evoluzione speciale nell’architettura templare: le cinte di mura si moltiplicano, con gopura che svettano sempre più in alto ai punti cardinali di ogni cinta, e nelle aree interne si aggiungono vasche per le abluzioni e le grandi sale “delle cento colonne” o “delle mille colonne”. Spesso come risultato di un accrescimento progressivo, gli esiti più spettacolari di questa tipologia, che sa tradursi in vere e proprie città-tempio, si avranno a Chidambaram, Madurai, Srirangam e Rameshvaram. Nella diffusione di questo modello ha una parte speciale il grande regno di Vijayanagara (1336-1565), retto da sovrani hindu, che peraltro nella loro capitale adotteranno nell’architettura palaziale anche certe forme islamiche coeve; il luogo in cui questa capitale sorgeva è oggi il villaggio di Hampi (Karnataka), dove resti monumentali e paesaggio formano un insieme di incredibile suggestione, esito tardo di un’arte che con la natura ha da sempre intessuto un discorso di reinterpretazione e di armonia.


Piccolo santuario di Garuda, il “veicolo” del dio Vishnu, scolpito in forma di carro, nel tempio di Vitthala (XVI secolo); antica città di Vijayanagara, Hampi (Karnakata).

ARTE INDIANA
ARTE INDIANA
Cinzia Pieruccini
L’India è un Paese dalla lunghissima civiltà e dalla poderosa identità culturale, che un tempo coinvolgeva territori ancora più vasti del pur immenso Stato odierno. Il suo ricco patrimonio artistico esercita su di noi un fascino straordinario. Questo dossier offre un panorama della sua fase più antica, dalla remota civiltà sorta nella Valle dell’Indo alle massime creazioni artistiche ispirate alle religioni del subcontinente indiano (buddhismo, jainismo e induismo), fino agli esempi più spettacolari della grande architettura templare.