GRANDI STUPA
E MONASTERI NELLA ROCCIA

Secondo la leggenda, Ashoka avrebbe innalzato un numero straordinario di stupa, il monumento più caratteristico del buddhismo.

Lo stupa nasce essenzialmente come un tumulo destinato a celare, all’interno della sua solida calotta, le ceneri del Buddha, e accoglierà anche reliquie di venerabili monaci. Nelle sue parti e nell’insieme giunge tuttavia a costituire un’enunciazione del messaggio buddhista e un’evocazione dell’essenza stessa della buddhità, cioè di quella pace suprema che è la condizione di Illuminato; parallelamente, esso si carica di una simbologia cosmica, andando a comporre con le sue forme architettoniche, dalla solida terra che è il suo basamento fino al pinnacolo che esprime i mondi celesti, una sorta di diagramma di tutto l’esistente, del quale la buddhità costituisce appunto l’autentica, ineffabile natura.
Fra gli esempi di stupa più antichi e splendidi ci sono noti solo da resti lacunosi quelli di Bharhut nel Madhya Pradesh e di Amaravati, più a sud nell’Andhra Pradesh; mentre ben conservati sono i tre che si trovano sulla collina di Sanchi, di nuovo nel Madhya Pradesh. In questa tipologia, il corpo semisferico del tumulo (chiamato anda, “uovo”) è circondato da una cancellata (vedika) che delimita un corridoio per il rito onorifico buddhista - e successivamente anche hindu - della cosiddetta circumambulazione rituale, la pradakshina, da svolgersi camminando tutt’intorno in senso orario; per accedere al corridoio, nella cancellata si aprono portali monumentali, i torana. La decorazione scolpita si esprime in vario modo su questi elementi, ma può estendersi, come ad Amaravati, anche sul corpo del tumulo. Un balconcino (harmika) sovrasta la calotta, e al di sopra spunta un palo (yashti) che culmina con uno o più parasoli, simboli in primo luogo di sovranità.

Grande Stupa (o Stupa numero 1) (III secolo a.e.c. - inizio del I secolo e.c.), fronte nord; Sanchi (Madhya Pradesh).


Rilievo raffigurante il Vessantara Jataka, racconto della penultima “nascita” del futuro Illuminato, particolare della facciata interna del portale nord del Grande Stupa (fine del I secolo a.e.c. - inizio del I secolo e.c.); Sanchi (Madhya Pradesh).


La yakshi Sudarshana (arte Shunga, 100 a.e.c.circa), particolare, da Bharhut (Madhya Pradesh); Kolkata, Indian Museum.

Lo stupa di Bharhut aveva probabilmente un diametro di oltre 20 metri. Fu fondato in epoca Maurya, mentre la cancellata, di arenaria rosso scuro, fu aggiunta verso il 100 a.e.c., durante il regno degli Shunga; una porzione di quest’ultima, insieme a un torana, si trovano ricostruiti all’Indian Museum di Kolkata. Arcaicità ed eleganza estrema convivono nella sua scultura, e soprattutto nelle grandi figure di divinità della fertilità, in particolare femminili, le cosiddette yaskhi o yakshini, scolpite sui pilastri della cancellata, che rappresentano una amichevole e strategica armonizzazione del buddhismo con culti preesistenti e diffusi a livello popolare. Quanto ad Amaravati, l’“Immortale”, il luogo ha fornito i resti di quello che è stato probabilmente lo stupa più grandioso di tutta la tradizione indiana. Attraverso vari ampliamenti, raggiunse l’aspetto definitivo intorno al II-III secolo, sotto i re Satavahana e poi Ikshvaku; aveva un diametro di circa 50 metri ed era rivestito di lastre di calcare bianco, che doveva scintillare splendidamente sotto il sole. Qui la decorazione scolpita è rigogliosa e di eleganza estrema; la affollano personaggi dai corpi allungati e snelli, pervasi di vitalità e di movimento. Una parte dei reperti di questo stupa è stata riassemblata British Museum; questi materiali furono spediti a Londra per iniziativa di Walter Elliot, che giunse ad Amaravati nel 1845 e intese così sottrarli al saccheggio.
Dei tre stupa della collina di Sanchi il maggiore, il magnifico Stupa numero 1 o Grande Stupa, è il monumento che di quest’architettura restituisce oggi l’immagine più integra. Fondato presumibilmente all’epoca di Ashoka, la sua struttura fu completata all’inizio del I secolo e.c., durante il regno dei Satavahana o Andhra, signori del Deccan. Possiede l’imponente diametro di circa 36 metri, e la pradakshina si può compiere anche sul corpo del tumulo stesso, che è avvolto da una seconda cancellata cui si accede attraverso scalinate. La decorazione scolpita si concentra sui quattro magnifici torana posti ai punti cardinali, risultato dell’ultima fase costruttiva. Qui compaiono cavalieri, animali spesso ibridi, tralci di loto e divinità popolari, come le figure femminili nella postura della cosiddetta shalabhanjika (“colei che spezza l’albero di shala”), cioè ninfe della fertilità abbracciate ad alberi; emerge chiara l’importanza - destinata a pervadere per sempre l’arte indiana - per il concetto di buon auspicio, che le immagini di questo repertorio, evocando ricchezza e rigoglio, irradiano sul monumento e sui suoi frequentatori.


Ninfa abbracciata all’albero (shalabhanjika), portale est del Grande Stupa (fine del I secolo a.e.c. - inizio del I secolo e.c.); Sanchi (Madhya Pradesh). 

Ma, su questi torana, come nella scultura degli altri stupa antichi, sono della massima importanza soprattutto le composizioni che con varie modalità narrative illustrano episodi della vita di Shakyamuni, il Buddha storico, o di alcune delle sue vite precedenti, a volte in forma animale, altrimenti ben note grazie alla vasta letteratura dei Jataka (le “Nascite”). Questo stupa è attraversato da più di seicento iscrizioni, dalle quali si ricava come ogni singolo elemento scolpito fosse il dono di un membro della comunità buddhista, religioso o laico; in quasi la metà dei casi la committenza è femminile.

Queste elaborate costruzioni erano parte integrante di insediamenti che comprendevano anche santuari e residenze per religiosi. L’istituzione monastica emerge subito nel buddhismo, fatto che comporta la necessità di strutture dedicate. Di queste non si conserva molto; grazie a una peculiare tipologia di monumenti è tuttavia possibile visualizzarne almeno in parte le forme. A partire all’incirca dai secoli II-I a.e.c. nel Deccan occidentale, nell’attuale Maharashtra, un grande numero di complessi monastici di varia ampiezza e complessità sono ricavati nel fianco delle caratteristiche colline rocciose della regione. Non si tratta dunque di veri e propri edifici, bensì di grotte scolpite: in un certo senso, l’interpretazione più rigorosa dell’uso della pietra per sfidare il tempo.


Adorazione delle reliquie del Buddha (II-III secolo), da Amaravati (Andhra Pradesh); Londra, British Museum.


Il personaggio centrale è un principe naga. Fino a oggi i naga, propriamente i cobra, sono in India oggetto di venerazione. Il buddhismo fa propri anche culti popolari, trasformandone le divinità in protettori della Legge dell’Illuminato.
Nell’arte i naga sono di solito ritratti in modo semiantropomorfo, e quando sono da considerare principi si assiste, come qui, a una moltiplicazione delle teste serpentine in un grande cappuccio.


Lastra di rivestimento del basamento dello stupa di Amaravati (III secolo), da Amaravati (Andhra Pradesh); Londra, British Museum.


Addentrandosi nelle colline, gli scavi riproducono le facciate e gli interni delle costruzioni strutturali, e gli ambienti appartengono a due categorie. La sala di culto, destinata alla preghiera, ha per lo più pianta absidata ed è divisa in navate da colonne; è questo il cosiddetto chaityagriha, “casa del chaitya”, dove chaitya è sinonimo di stupa, perché uno stupa – in questo caso, come tutto il resto, di solida roccia – rappresenta il punto focale sul fondo della grotta. Affiancano queste sale, in computo maggiore, i cosiddetti vihara (“monasteri”, nel senso di singole unità residenziali), di norma scavi a pianta quadrangolare lungo il cui perimetro interno si aprono le celle per i monaci, e che negli esempi più compiuti si avvalgono di portici e colonnati centrali. Di questi insiemi il sito di Bhaja (I secolo a.e.c.) offre un esempio antico, mentre il chaityagriha di Karla (o Karli, Karle; I secolo) si distingue per maestosità; le località di questo tipo sono numerose, ciascuna con caratteristiche peculiari, e spesso si ampliano e arricchiscono nel tempo. Il vertice assoluto è raggiunto nel complesso di Ajanta, uno dei luoghi più spettacolari di tutta l’arte dell’India.

Il sito di Bhaja in Maharashtra (inizio del I secolo a.e.c.).


Interno del chaityagriha (dal 50-70 e.c.); Karla (Maharashtra).

Il sito di Ajanta consiste di una collina a forma di mezzaluna affacciata, in posizione alta e panoramica, sul corso di un torrente chiamato Waghora. Del tutto dimenticato nei secoli, un giorno di fine aprile del 1819 un ufficiale britannico di nome John Smith, della divisione di Madras, vi capitò per caso durante una battuta di caccia alla tigre. Le grotte sono ventinove, non tutte terminate, e sono identificate con un numero a partire dall’estremità orientale, che costituisce la via di accesso. Gli scavi conobbero una fase antica, più severa e databile fra circa il 100 a.e.c. e il 150 e.c., ma il periodo della grande fioritura è successivo, ed è oggi da studi cospicui collocato nella seconda metà del V secolo, sotto il regno dei locali sovrani Vakataka. A questa fase appartengono i magnifici chaityagriha numero 19 e 26 e i vihara più spettacolari, che assumono qui essi stessi il ruolo, oltre che di residenza monastica, di luoghi di culto. Ma oltre che per la magnifica scultura, e ricordiamo che si tratta di opere soltanto di scultura, dal momento che ogni dettaglio anche apparentemente architettonico è in verità monolitico e ricavato secondo calcoli precisi dalla viva roccia, Ajanta è un luogo straordinario perché sulle pareti degli interni si è conservata, su vasta scala, anche la altrimenti rarissima pittura dell’India antica; a restituirla sono, in particolare, i vihara numero 1 e 17.


Complesso buddhista di Ajanta (100 a.e.c. circa - V secolo e.c.), veduta generale da est; Ajanta (Maharashtra).


Facciata del chaityagriha numero 19 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo); Ajanta (Maharashtra).

In generale, le raffigurazioni inscenano Jataka o episodi legati alla vita del Buddha, secondo un’ispirazione che si può correlare a varie fonti letterarie, oppure immagini singole o ripetute; a ciò si aggiunge un repertorio ornamentale-simbolico composto da esseri celesti, animali, fiori, fregi e così via, che si esprime con particolare magnificenza sui soffitti. I dipinti di Ajanta sono composizioni continue e fluide, affollate di personaggi ritratti con un disinvolto naturalismo, volentieri secondo una visione di tre quarti; la luce, mai direzionale, è distribuita per conferire volume. Non si tratta di affreschi, come spesso queste opere sono erroneamente chiamate, ma di pittura a secco. La pietra era coperta con fango e fibre vegetali, e uno strato sottile di intonaco era applicato come rifinitura.


Scultura esterna del chaityagriha numero 19 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo); Ajanta (Maharashtra).


Coppia di sovrani naga (divinità serpentine), facciata del chaityagriha numero 19 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo); Ajanta (Maharashtra).


Chaityagriha numero 26 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo), interno; Ajanta (Maharashtra).


Quindi si tracciavano i contorni delle figure e le si completava con il colore; la maggior parte dei pigmenti proveniva da terre locali, mentre per il blu era usato il lapislazzulo, di costosa importazione. Qualche interrogativo sorge a proposito sia della realizzazione, sia della fruizione di questi dipinti così estesi e minuziosi, se si considera la scarsità di luce naturale che riesce a penetrare in queste grotte; è davvero difficile che le antiche lampade a olio ne consentissero una visione d’insieme ai monaci che qui risiedevano o agli eventuali pellegrini di passaggio. Ma certamente, in questo mondo dipinto dai contorni insieme tenui e brillanti, ai monaci era possibile assaporare una promessa di felicità superiore.


Morte del Buddha, ovvero il suo nirvana supremo (parinirvana), interno del chaityagriha numero 26 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo); Ajanta (Maharashtra).


Storia del giovane Udayin, parete del portico del vihara numero 17 (periodo Vakataka, seconda metà del V secolo); Ajanta (Maharashtra).

ARTE INDIANA
ARTE INDIANA
Cinzia Pieruccini
L’India è un Paese dalla lunghissima civiltà e dalla poderosa identità culturale, che un tempo coinvolgeva territori ancora più vasti del pur immenso Stato odierno. Il suo ricco patrimonio artistico esercita su di noi un fascino straordinario. Questo dossier offre un panorama della sua fase più antica, dalla remota civiltà sorta nella Valle dell’Indo alle massime creazioni artistiche ispirate alle religioni del subcontinente indiano (buddhismo, jainismo e induismo), fino agli esempi più spettacolari della grande architettura templare.