L’IMPRESA FINALE:
L’ILLUSTRAZIONE DELLA
DIVINA COMMEDIA

Beninteso il nostro artista prosegue nel suo compito di illustratore di opere che sente congeniali, come i Pensieri notturni (Night Thoughts) di Edward Young, o i Poems di Thomas Gray, accanto al Paradiso perduto di Milton, cui si è già accennato.

Ma il suo massimo impegno, negli ultimi anni di vita, è stato di illustrare la Divina commedia del nostro Dante, su committenza ricevuta da un altro dei suoi rari ma entusiasti e attivi ammiratori, John Linnen. In proposito è opportuno fare una precisazione sul metodo di lavoro di Blake, che non procedeva affrontando direttamente la lastra di rame per incidervi i solchi sullo strato di cera di cui era cosparsa, per venire poi all’immersione nell’acido, all’inchiostrazione e al passaggio sotto il torchio, nel numero di esemplari richiesti da eventuali compratori. Prima, egli si avvaleva di disegni preparatori, che molte volte sono andati perduti. Nel caso della Divina commedia, abbiamo invece un centinaio di disegni, uno per ogni canto del poema, dopodiché doveva iniziare il compito propriamente incisorio. Questo però si è fermato al numero di appena sette tavole condotte a termine prima della scomparsa dell’esecutore, ma per fortuna ci sono rimasti i disegni accuratamente tracciati, e un esame dei più rilevanti tra loro ci consente un perfetto riassunto finale dell’arte blakeana. Cominciamo per esempio dalla tavola dedicata a Minosse, che come ben si sa sulla soglia dell’inferno giudica e destina i dannati ai vari cerchi e gironi del loro castigo. Per la sua stessa natura di duro e implacabile giudice, ovviamente l’artista gli concede le sembianze di Dio padre, o di Urizen, con la solita contrazione che abbiamo anche definito collasso, propria di ogni figura umana nell’universo del nostro artista. E non manca la relativa emissione di onde energetiche, anche se nel caso non sembrerebbero trovare giustificazione, in quanto Minosse è solo un personaggio avvilente, negativo, ma il sistema blakeano esige che a ogni contrazione delle masse faccia seguito uno scoccare di energie, in questo caso sotto forma di lingue sghembe, a piramide appuntita e dardeggiante. E non trova neppure giustificazione la corona di testine quasi angeliche di cui è gratificato il personaggio infernale, si tratta quasi di una licenza poetica, l’artista si sente autorizzato, per così dire, a metterci la sua firma, ad allontanarsi da un ossequio stretto al testo che pure sta illustrando.

Quanto ai corpi dei dannati, anche loro risultano da liberi montaggi di componenti, del tutto esenti dall’obbligo di rispettare un corretto manuale anatomico. Dovremo attendere l’arrivo di un fondatore del contemporaneo quale Cézanne per ritrovare un analogo procedere a scaglie, a dadi, a sfaccettature. Beninteso, anche i poveri dannati, come vuole il codice blakeano, sono compensati delle loro contrazioni anatomiche dal fatto di poter scagliare nello spazio delle lingue di fuoco, il che è anche un compenso alla loro stessa condizione di dannati.

Una delle tavole più forti e riuscite è quella dedicata alla palude stigia dove giacciono gli iracondi e gli accidiosi, un tema che consente all’artista di ricorrere più volte alla sua tipologia di sagome umane accorciate, contratte, ovvero “collassate” su se stesse, in definitiva altrettante ripetizioni dell’immagine del Dio biblico, o di Urizen, con le barbe piegate di fianco per dare il senso di un vento cosmico che soffia da una parte e dall’altra. L’immagine di Urizen conviene perfettamente alla natura degli iracondi puniti in quel cerchio infernale, con le loro braccia quasi mozze onde dare più rilievo ai pugni contratti, nocchiuti, gonfi di minaccia. Invece, com’è giusto, gli accidiosi giacciono al suolo, simili a delle bambole che un’autorità proterva si sia compiaciuta di smontare, o come un fanciullo ugualmente di cattivo umore si sia divertito a distruggere, abbandonandone al suolo i frammenti divelti.

Il tutto, qui e altrove, è immerso in un flusso di onde che, più che a sorgenti realistiche, fanno pensare al soffiare di un etere leggero e costante, magari scaturente proprio da tanta contrazione di muscoli.


Minosse (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.

Capaneo, il bestemmiatore (1824-1827); Melbourne, National Gallery of Victoria.

Gerione trasporta Dante e Virgilio fino a Malebolge (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Il serpente attacca Buoso Donati (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Londra, Tate Britain.

Ma per avere una esibizione trionfale di una muscolatura poderosa, quasi in omaggio ravvicinato a Michelangelo, bisogna rivolgersi alla tavola dedicata al gigante Capaneo che è una curiosa soluzione intermedia tra le due divinità cui è affidato tutto il sistema blakeano. Capaneo è insignito di una testa giovanile, beneaugurante, mentre il corpo esibisce una serie di robuste escrescenze muscolari, più pertinenti all’immagine minacciosa di Urizen, o del Dio Padre. E forse mai come in questo caso emerge il fenomeno che fa seguito a tanta contrazione muscolare, ovvero l’emissione di lingue energetiche, che qui prendono la forma di fulmini saettanti, pronti a fendere lo spazio. Non è tutto, perché il capo del gigante ha come una corona fatta di emissioni più delicate, simili a una raggiera di luci guizzanti e appuntite. E come se questo non bastasse, anche il giaciglio su cui il torso di Capaneo sorge sembra consistere in tanti tizzoni ardenti, seppure ispirati alla solita contraddizione tra il cielo e l’inferno, tra il fuoco e il gelo, come fossero i blocchetti di ghiaccio sgorgati fuori da qualche frigorifero dei nostri giorni. Dante e Virgilio assumono un ruolo di visitatori passivi, stupiti, ammirati, standosene ritti, immobili, quasi chiamandosi fuori dallo spettacolo cui assistono. Un simile abile gioco di contrasti è ovviamente stimolato dalle creazioni mostruose di cui la Divina commedia, e dentro di essa l’Inferno, sono prodighi.


Lucifero (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Dante sul punto di entrare nel fuoco (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Anteo depone Dante e Virgilio nell’ultimo cerchio dell’inferno (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.

E così, al poderoso, ma in definitiva quasi sereno Capaneo fa seguito Gerione, anche lui dotato di doppia natura, il volto è di aspetto angelico, degno cioè di Orc o Los, cui però viene affibbiato un corpo di lurido, vischioso rettile. Sembra quasi che Blake, non contento di andare a frugare tra le ombre di un lontano passato, nella sua furia iconoclasta rivolta contro le immagini “ben fatte” della modernità post-rinascimentale, voglia andare a saccheggiare anche i depositi della paleontologia, dove magari sono conservati, inglobati nella profondità dei giacimenti fossili, scheletri e altri residui di creature di epoche remote, purché in ogni caso sia rispettato il criterio dominante di una composizione a scaglie, a elementi separati, che oltretutto via via rimpiccioliscono, quando ci si sposta verso la coda, pronta ad attorcigliarsi su se stessa. Sono anche come i grani di un rosario, percorso non certo a scopo edificante, bensì per sperimentare un orrore crescente. C’è comunque, in Blake, una evidente preferenza per la morfologia del curvo, sia che con essa egli intenda esprimere il carattere arcano, etereo dei moti ondosi, dell’acqua, della luce, di ogni possibile riferimento all’energia elettrica, o che invece intenda compiere fino in fondo una discesa agli inferi, ai primordi del mondo, quando quel medesimo moto curvilineo si addiceva al pullulare di rettili. Non per nulla proprio uno di questi domina, con le sue spire, questa volta di piccolo calibro, quanto mai inarcate e guizzanti, nella tavola dedicata a Buoso Donati, assalito dall’animale, mentre i due viandanti privilegiati si ritraggono anch’essi spaventati, inorriditi da quella manifestazione infernale.

L’imponenza che già abbiamo visto in Capaneo ritorna, accresciuta, a rendere monumentale un altro gigante, Anteo, incaricato di trasportare Virgilio e Dante nel più profondo dell’inferno. Questa volta non si può esitare, occorre pur dire che di quell’essere mostruoso l’invenzione blakeana ha deciso di fare qualcosa di positivo, quasi un alter ego di Sol o Orc, con un volto che sembra essere ripreso dal David michelangiolesco.


Dante adora Cristo (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.

Dante e Beatrice nella costellazione dei Gemelli (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Oxford, Ashmolean Museum.


L’essenza divina da cui derivano le nove sfere (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Oxford, Ashmolean Museum.

E anche l’esibizione dei panetti di muscoli è del tutto conforme alla tipologia del Buonarroti, salvo l’intervento di un montaggio irregolare. I muscoli, gonfi, compiaciuti del loro eccesso, vengono senza dubbio da quella fonte, ma al solito il nostro artista ne effettua una ricomposizione aberrante, a ruota libera, compiaciuta di fare sfoggio del trionfo muscolare, incurante di ogni possibile rispetto di corrette proporzioni anatomiche, cui invece andava l’attento ossequio michelangiolesco. Inutile dire che la coppia dei nostri viandanti in missione divina risulta al confronto esile, sono appena due piccoli nani, degni di Lilliput, che una mano di Anteo deposita al suolo, come un gigante si potrebbe disfare di insetti importuni, pur con qualche riguardo verso la loro debole e indifesa esistenza.

Infine, Blake è pur costretto a portarci in presenza di Lucifero, l’esito ultimo del viaggio agli Inferi, ma qui la fantasia non gli porge risorse degne dell’occasione. Il culmine del male è solo un Urizen che ci appare perfino perplesso, quasi insicuro dei propri mezzi, costretto a triplicare il proprio capo per divorare i tre massimi peccatori dell’umanità secondo la concezione dantesca (Giuda, Bruto, Cassio). Ad alleggerire, a rendere esitante e perplessa questa apparizione, in luogo di farne il punto più oscuro di tutta la creazione, conta anche il fatto che il fenomeno di glaciazione giunge all’ultimo stadio, e dunque un bianco smorto, cadaverico si impadronisce della scena, come se davvero fossimo in presenza di un ghiacciaio che cela nelle crepe i corpi dei dannati, così come succede anche oggi quando un ghiacciaio sputa fuori una qualche salma, al pari di un cibo liofilizzato.


La punizione dei ladri (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Londra, Tate Britain.

Probabilmente al momento di concepire il suo iniziale Matrimonio del cielo e dell’inferno Blake aveva già in mente il copione fornitogli dal poema dantesco, e dunque era inevitabile che in seguito si desse a rappresentarlo con le sue invenzioni grafiche. Del resto, lo si è visto sopra nella lettura delle sue stampe non ancora legate a quell’impegno generale, esse ci sono apparse divise proprio in due, un primo tempo “infernale”, dominato dal regno del Padre e delle sue tenebre, quindi un afflusso di luce che ha schiarito, sbiancato i corpi. E dunque, nell’affrontare la cantica finale, il Paradiso, l’artista è autorizzato ad abbandonare il modello muscoloso ricavato da Michelangelo, può affidarsi a una tipologia di figure allungate, affusolate, pronte a prolungarsi, quasi fossero dei ceri, chiamati a culminare in fiamme, e a consumarsi in quello sprigionamento di energie. Potremmo anche dire che se nella prima cantica prevale un ideale mascolino, quale si conviene ai dannati che ne sono in massima parte i protagonisti, ora il modello di riferimento diviene Beatrice, pronta a moltiplicarsi in una serie di figure di giovinette come lei leggiadre, delicate, con pepli fluenti. Come ingresso a questa nuova morfologia possiamo menzionare la tavola dedicata a Dante sul punto di entrare nel fuoco, dove invero riesce molto difficile distinguere la figura del poeta, ben deciso a fare un passo indietro, a lasciare il primo piano a una folla di delicate figure muliebri, pronte del resto a sacrificarsi, a esalare in puntute lingue di fuoco, che però non hanno assolutamente l’aria di comminare loro una punizione, ma al contrario tendono a sublimarle, a innalzarle a un grado ultimo di beatificazione. Questo è anche il momento giusto di svolgere una glorificazione assoluta del Figlio, di Cristo, cui infatti è dedicata una tavola, dove la sacra immagine di Orc o Los domina assoluta, posta sull’asse mediano della composizione, ma nello stesso tempo alleggerita, svuotata di ogni possibile residuo di materia, resa simile a una icona, di quelle che si dicono “acheropite”, cioè dipinte quasi senza intervento della mano dell’artista, che le appesantirebbe.


Il papa simoniaco (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Londra, Tate Britain.

Se si vuole, qui Blake sfiora addirittura il livello ingenuo del confezionatore di “santini”, di un madonnaro, che tenta di compensare l’ingenuità stilistica di quanto viene proponendo con ricorso a un supplemento di fede e devozione. Oltretutto in questo caso l’apparizione radiosa del Dio Figlio non è chiamata a sostenere una battaglia contro le tenebre, dato che l’intera scena è dominata, quasi “bruciata” da un’onda straripante di luce che attenua ogni lineamento, quasi riducendolo al silenzio e all’assenza.

Da notare che infine l’artista considera giunto il momento di innalzare Dante e Beatrice a quel medesimo grado di beatitudine, c’è una tavola in cui entrambi vengono effigiati con la stessa grazia e leggerezza accordate, nel disegno precedente, addirittura a Cristo (Dante e Beatrice nella costellazione dei Gemelli). Ora anch’essi se ne stanno al centro della composizione, e meritano ciascuno di avere la propria raggiera, una sfera di emanazione del carisma finalmente ottenuto. Nell’occasione l’artista attinge ai suoi colori anch’essi più tenui e volatili, un azzurro pallido, un giallo fosforescente.


La selva dei suicidi con le Arpie (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Londra, Tate Britain.

Cerbero (seconda versione) (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Il cerchio dei lussuriosi: Francesca da Rimini (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery.

E finalmente siamo all’ultimo atto, alla presenza stessa di Dio, questa volta si tratta proprio di Dio Padre, ma ora la sua immagine ha subito un processo di sbiancatura, non c’è più nella sacra icona la sussistenza di alcuna traccia di invecchiamento. È un Dio che oltretutto si mostra al colmo dei suoi attributi, capace di emanare da sé le ombre esili, tracciate a fior di matita, delle varie gerarchie angeliche, peraltro equiparate, presentate in una serie di volti sorridenti, a un passo dal dileguare, dal disperdersi in una luminosità che si diffonde dappertutto, investita più del compito di cancellare che di cavar fuori (L’essenza divina da cui derivano le nove sfere). Tanto che, in un estremo tentativo di continuare a esistere, quelle presenze diafane, a un passo dall’invisibile, decidono di calarsi in simboli grafici, in segni cabalistici. Siamo di fronte a una delle più coraggiose, coerenti, ispirate rappresentazioni del Tutto mistico. In definitiva, Blake è risultato perfettamente degno di accompagnare il viaggio dantesco, transitando anche lui dall’inferno dei suoi primi tempi fino a una “full immersion” nel cielo, nel paradiso.


L’iscrizione sulla porta dell’inferno (1824-1827), dal ciclo di illustrazioni per la Divina commedia di Dante; Londra, Tate Britain.

BLAKE
BLAKE
Renato Barilli
La parola d’ordine, nella produzione e nel pensiero di William Blake (Londra 1757-1827), è “immaginazione”. Attorno a questo concetto costruisce la sua fama di poeta e pittore, e anche di stravagante, mistico cultore della Bibbia come dell’assoluta libertà creativa. Un artista fuori dal coro; vicino, certo, alla sensibilità romantica, ma alla perenne ricerca di quelle che lui stesso definisce “le porte della percezione”, con una definizione la cui fortuna arriverà fino alle esperienze con gli allucinogeni di Huxley e a quelle di un’intera generazione di rocker. Coltiva la sua arte visionaria da autodidatta. Insofferente a ogni accademia, aderisce a tutti i movimenti di ribellione: una figura divisiva e affascinante.