ANACRONISMI.ARCIMBOLDO NOSTRO
CONTEMPORANEO?

Cosa è antico e cosa contemporaneo? Secondo Giorgio Agamben chi è troppo aderente al proprio tempo non è davvero contemporaneo:

«Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa». Essere contemporanei significa aderire al proprio tempo attraverso una sfasatura o una sconnessione, attraverso l’intempestivo, come hanno intuito Friedrich Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali (1873-1876) e Roland Barthes? Dentro un flusso temporale - che non è continuo, evolutivo e lineare ma discontinuo e intermittente - Walter Benjamin lascia intendere che le immagini del passato giungano alla leggibilità solo in un determinato momento della loro storia. Ma quale è questo determinato momento nel corso del tempo? Le immagini del passato possono divenire influenti per una persona che abiterà e vivrà il futuro, influenzare la sua formazione e le sue scelte.


René Magritte, Il doppio segreto (1927); Parigi, Centre Georges Pompidou - Musée National d’Art Moderne.


Giotto, Morte di san Francesco, particolare, dal ciclo Storie di san Francesco (1296-1304); Assisi, San Francesco, basilica superiore.

Cosa intendiamo quando diciamo che un’opera tocca argomenti e corde veramente contemporanei? Vuol dire che sentiamo quelle opere veramente aderenti al tempo che noi stiamo vivendo, che sentiamo attuali e che rendono palpabili meccanismi di “ciò che è in atto”? 

O invece hanno una forza non totalmente comprensibile, un potenziale possibile, una proiezione profetica, qualcosa che è rivolto verso il futuro, che ci attrae come un magnete in modo naturale? 

Accade spesso che davanti a un’opera del passato si senta un’aderenza molto forte, tanto da ritenerla allo stesso livello di opere della nostra contemporaneità, in quanto rilascia temi e questioni prese in considerazione nel tempo che stiamo vivendo ora e che sono universali anche per il tempo futuro. Se consideriamo il significato del termine latino, contemporaneo si intende ciò che vive e si verifica nello stesso tempo, sia nella forma sia nella sostanza, sia nella storia sia nel pensiero filosofico. Rispetto a quale tempo noi siamo contemporanei? 

E se invece esistessero più tempi, fratture temporali e cesure profonde, come pensano molti astrofisici? Georges Didi-Huberman sostiene che «la storia dell’arte non può essere che anacronistica». È totalmente vero o solo parzialmente esatto? Se l’inattuale può essere considerato determinante per il contemporaneo, l’artista come può interagire con questa possibilità? Sembrerebbe indispensabile dividere e interpolare il proprio tempo, e metterlo in relazione con altri tempi e dimensioni, scavando nel passato per giungere nel futuro, e spingersi oltre il presente per comprendere anche ciò che è già accaduto e che non abbiamo vissuto personalmente. 

Cerchiamo di individuare uno sviluppo delle intuizioni di Arcimboldo, inteso come precursore inconsapevole di certe idee che avrebbero interessato gli astrattisti, i surrealisti nei primi decenni del Novecento, e altri artisti del XX e XXI secolo, partendo però da ulteriori significati che sono derivati dall’erosione dei segni che esprimono una cultura precedente.


Andrea Mantegna, Camera degli sposi (1465-1474), oculo della volta, particolare; Mantova, Palazzo ducale, castello di San Giorgio.


Luca Signorelli, Stendardo della Crocifissione (1502-1505); Sansepolcro (Arezzo), Sant’Antonio abate.

Non ci interessano gli omaggi dichiarati degli artisti nati dopo Arcimboldo, ma quelle opere che in qualche modo indagano le stesse suggestioni e le sviluppano ulteriormente. Alcuni esempi sono riscontrabili in opere di Magritte, Dalí, Bellmer, Duchamp, Picasso, dove gli artisti indagano le presenze del non conscio, delle altre dimensioni, della pareidolia, dei paesaggi antropomorfici e delle Teste composte, adattandole allo spirito della loro contemporaneità. René Magritte, in Il doppio segreto (1927), disvela cosa si muove e pulsa dentro le teste e i corpi umani, una realtà ancora più misteriosa: particelle, atomi, forme di vita microscopiche, flussi, sottili bagliori, che appartengono alla sfera dell’invisibile e dell’inconscio. Il segreto è “doppio”, offre molteplici interpretazioni a chi sta cercando di comprendere la natura umana e il mondo. Lo strappo dell’identità disvela una realtà che appartiene a quella di un automa o apre all’oltreindividuale, aderente a un sistema più complesso. 

Prima delle nature morte reversibili e delle Teste composte, nella storia dell’arte vi sono alcune opere con immagini derivate dalla illusione pareidolitica, ovvero da quel processo psichico consistente nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, che porta a immagini illusorie dotate di una nitidezza materiale. Per esempio, volti di profilo si intravedono nelle nuvole presenti in dipinti di Giotto, Andrea Mantegna e Luca Signorelli(13), e teste rocciose in opere di Albrecht Dürer e Bernardo Zenale(14). Il Paesaggio antropomorfico (1570 circa) di un autore anonimo fiammingo, ora conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique di Bruxelles, è riconducibile al contempo alle immagini arcimboldesche e ai paesaggi che hanno intrigato Salvador Dalí, quando stava elaborando Viso paranoico (1934-1935).


Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù (1502), particolare; Parigi, Musée du Louvre.


Bernardo Zenale, Deposizione di Cristo (1509), particolare; Brescia, San Giovanni evangelista.

(13) Si vedano: Giotto, Morte di san Francesco d’Assisi (1296-1304), Assisi, San Francesco, basilica superiore; Andrea Mantegna, oculo della volta della Camera degli sposi (1465-1474), Mantova, Palazzo ducale, castello di San Giorgio; Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i Vizi dal giardino della Virtù (1502), Parigi, Musée du Louvre; Luca Signorelli, Stendardo della Crocifissione (1502-1505), Sansepolcro, chiesa di Sant’Antonio abate.
(14) Albrecht Dürer, Veduta della Val d’Arco (1495 circa), Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques; Bernardo Zenale, Deposizione di Cristo (1509), Brescia, chiesa di San Giovanni evangelista. Nella Veduta della Val d’Arco si può scorgere un volto di profilo nel monte roccioso sopra cui è stata edificata la chiesa del paese, e nella Deposizione di Cristo Zenale immagina una conformazione antropomorfa nella collina del Golgota e nella roccia vicino al sepolcro di Cristo.

Sculpture-morte (1959) di Marcel Duchamp rimanda anche alla rappresentazione di un volto umano, o almeno induce lo sguardo del fruitore a vedervi un effetto più sottile della pareidolia. Nella carta utilizzata come sfondo è indicato l’artigiano che ha realizzato queste verdure di marzapane: «pâtissier-confiseur Bonnevie, con sede a Perpignan». In questo caso il nome Bonnevie (“Buonavita”), maestro della natura morta, ispira Duchamp, che fa del gioco di parole uno dei fondamenti della sua arte, a innescare un rebus umoristico con un segreto nascosto, alla maniera dei giochi di parole di Brisset e Roussel. Assieme a Sculpture-morte, anche With My Tongue in My Cheek (1959), l’autoritratto disegnato di profilo e dotato di una guancia di gesso costituita dal calco della lingua(15), è da intendere come uno dei segni sarcastici della vita di Rrose Sélavy, che consegna a pezzi alcuni indizi del lavoro di elaborazione svolto in grande segreto, dal 1946, della sua futura grande opera Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage (1969). Lo scarto tra apparenza e apparizione entro due modalità di simulacri e il dominio speculativo dell’infrasottile sono qui all’opera, così come la reversibilità mortale dello sguardo per Duchamp. Mario Merz indaga il mistero dell’organico e dell’inorganico nei suoi tavoli a spirale, costituiti da lastre di vetro e tubolari di ferro, dove spiccano i colori e gli odori della frutta e della verdura, e scorre l’energia delle forze originarie, che ha a che fare con l’acqua, il fuoco dei fulmini, lo spirito dell’aria, le zolle di terra, che si modificano. Nelle sue opere si sente la stessa forza intuita da Arcimboldo, quella realtà soggetta a un dinamismo costante; le forme viventi continuano a esistere e a proliferare anche quando apparentemente paiono morte o scomparse, in una progressione trasmutativa continua, dove i materiali prelevati dal mondo naturale e dalla vita quotidiana entrano nel mistero dei numeri e degli spostamenti di senso: 

«Contare, fare la conta, incastrare numeri / l’uno dentro l’altro o l’uno nella massa degli / altri, incastrare il numero il frutto / l’oggetto nella massa degli altri. / La natura: spettacolare chiarezza e visione della / quantità, della validità irrimediabile della quantità / la vocazione a contare la frutta i pesci / tutto facendo qualcosa che essendo chiaro non è che / presente, bellissima visione della quantità come / incastro dei singoli frutti dei singoli esseri dei singoli numeri dei singoli frutti, ognuno / perfettamente colmo di sé, seme, frutto / diventato ritratto del numero delle cose»(16).

Se immaginiamo invece una marcescenza delle Teste composte e dei significati allusi nel Cinquecento da Arcimboldo, un collegamento e sviluppo si può trovare nelle composizioni “postrinascimentali” di Adrián Villar Rojas, dove massi e materiale organico fossilizzato costituiscono nature morte 2.0: animali, piante, minerali e reperti di un mondo oggettuale prodotto dall’uomo compongono un universo dalle sembianze distopiche, un mondo riletto come se l’uomo fosse destinato a un destino apocalittico.


Albrecht Dürer, Veduta della Val d’Arco (1495 circa); Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques.


Anonimo fiammingo, Paesaggio antropomorfico (1570 circa); Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique.

(15) “Con la lingua sulla guancia” è un’espressione inglese, che si riferisce al fatto di mordere la lingua, per non dire, e ridere interiormente del proprio interlocutore.
(16) Omaggio di Mario Merz ad Arcimboldo, in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 15 febbraio - 31 maggio1987), a cura di Y. David, p. 365.

Salvador Dalí, Viso paranoico (1934-1935).


Marcel Duchamp, Sculpture-morte (1959); Parigi, Centre Georges Pompidou - Musée National d’Art Moderne.


Marcel Duchamp, With My Tongue in My Cheek (1959); Parigi, Centre Georges Pompidou - Musée National d’Art Moderne.

Le opere di Arcimboldo sono collegabili a quelle di Villar Rojas anche attraverso la mediazione della Sculpture-morte (1959) di Duchamp e le implicazioni destrutturanti? Nell’installazione Rinascimento (2015) della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a Torino, la distesa di massi geologici pervasi da un odore nauseabondo calamitava l’attenzione degli spettatori, al contempo indotti al disgusto, allo straniamento, entro le composizioni naturalistiche - realizzate con zucche tagliate, pezzi di speck, teste di pesci, uccelli morti, materiali ferrosi di recupero, oggetti scartati, e altro ancora - e all’attrazione per le degenerazioni cromatiche, naturali e prodigiose, ricche di muffe dai vividi colori, dentro le striature dei fossili, che riconducono in uno spazio e un tempo immemorabili, dove il presente si stratifica in un processo di costante contaminazione con il passato più remoto. Villar Rojas intende evocare un grido d’allarme e di rottura, una presa di coscienza critica, presentimenti attraverso ammassi di segni di cui l’uomo è parte. Sonda l’estetica della sparizione, dove i materiali biodegradabili si mescolano e si attivano per dare vita a «sculture viventi», che rimarranno sulla terra mutando in una minuziosa sparizione al rallentatore. Ogni sua “Still life” rende fruibili i processi di mutamento, decadimento e rinascita cui è destinata ogni forma di vita. Le Teste composte di Arcimboldo sono riconducibili anche alla serie Sconosciuti (1994 e 2012-2013) di Paolo Gioli, dove per esempio un volto pare essersi trasmutato in forma umana costituita da strutture vegetali, da muschi e batteri, nello sfondo neutro di una oscurità atemporale. Le fotografie sono ottenute da un fondo di ritratti anonimi del secolo scorso, in cui l’artista trasfigura i volti con ritocchi e li fa emergere dal verso delle immagini originarie. Vi sarebbero molti altri esempi e collegamenti con interessanti opere contemporanee che possono essere intese come ulteriori sviluppi delle intuizioni di Arcimboldo, ma la brevità di questa ricognizione rimanda a un’altra occasione l’apertura a eventuali approfondimenti. 

Per concludere, vorrei porre anche l’attenzione sull’avanguardistica ricerca di Arcimboldo a proposito delle «musicali consonanze dentro i colori» e i suoi esperimenti sulle proporzioni cromatico-musicali, dove a ogni nota viene associato un determinato colore: «Del che io voglio, che ve ne faccia proua il da me rammemorato Arcimboldo, il quale ha trouato i tuoni, e i semituoni, e’l diatesseron, e’l diapente, e’l diapason, & tutte l’altre musicali consonanze dentro i colori, con quell’arte apunto, che Pitagora inuentò le medesime proportioni armoniche»(17). Arcimboldo è stato il primo a immaginare le potenzialità del paradossale e la musica dei colori, a ritrasporre i criteri armonici dalla scala cromatica pittorica a quella musicale, o viceversa. Queste suggestioni sono riscontrabili a livello concettuale in certe opere dei grandi astrattisti, i quali cercano l’essenza della loro ricerca nella musica, trovando analogie tra la musica pura e la pittura pura, con la consapevolezza che tale arte possa avere un’influenza direttamente sull’anima: Klee e Kupka sono attratti dalle composizioni di Johann Sebastian Bach e dalla musica barocca; Kandinskij si lascia condurre dalle opere di Richard Wagner e Arnold Schönberg; Mondrian si ispira anche al ritmo sincopato e all’equilibrio asimmetrico del jazz di quegli anni. Il rapporto tra note musicali e colori è indagato anche da John Baldessari, in Two Colorful Melodies (1977), che riflette sui significati associativi dei sistemi di linguaggio e di rappresentazione: nella prima parte l’artista americano colpisce una serie di note (sembrerebbe su un vibrafono dell’infanzia) mentre la telecamera si muove da un quadrato colorato all’altro; nella seconda “melodia” un bambino canta i nomi dei colori dei quadrati mentre la telecamera li inquadra.


Mario Merz, Tavolo a spirale in tubolare di ferro per festino di giornali datati il giorno del festino (1976); Wolfsburg, Kunstmuseum.


Adrián Villar Rojas, immagine della personale dell’artista, Rinascimento (Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 4 novembre 2015 - 28 febbraio 2016).


Adrián Villar Rojas, immagine della personale dell’artista, Rinascimento (Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 4 novembre 2015 - 28 febbraio 2016).

(17) G. Comanini, Il Figino overo del fine della Pittura, Mantova 1591, pp. 244-249. Per approfondimenti si vedano: J. Gage, Colour and Culture. Practice and Meaning from Antiquity to Abstraction, Londra 1993; P. Polpagni, Lo spettro “misolidio” di Newton. Il rapporto suono-colore nei secoli XVI-XVIII: un incontro tra pittura, scienza e musica, in Analecta Brixiana. Contributi dell’istituto di Filologia e storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a cura di A. Valvo, G. Manzoni, Milano 2004, pp. 255-270; M. Tiella, La ricostruzione dell’archicembalo di Nicola Vicentino (1555). Primi risultati della sperimentazione di uno strumento cromatico-enarmonico, in “Strumenti e musica”, XXXIII, 2, 1980, pp. 206-208; T. Tornitore, Musica per occhi, in Effetto Arcimboldo. Trasformazioni nel sedicesimo e nel ventesimo secolo, catalogo della mostra, cit., pp. 345-356.

L’arte contemporanea si differenzia da quella antica solo per la sua logica trasgressiva, messa in atto coraggiosamente dalle avanguardie, e per l’espressione dell’interiorità dell’artista? Ma in ogni tempo gli artisti hanno sempre espresso al contempo valori universali e le proiezioni della loro interiorità, per conoscere le verità nascoste e per interpretare quelle visibili. Per esempio, già molti fuoriclasse del Rinascimento hanno messo in gioco nelle loro ricerche e opere anche le mediazioni possibili tra l’artista e lo spettatore, favorendo in modo naturale il passaggio dallo “stile” al “genere”. L’artista contemporaneo, all’interno di un procedere e di un flusso discontinui, pone in relazione il proprio momento storico con altri tempi, cerca accessi che mettano in collegamento anche ciò che proviene dall’arcaico, dal primitivo, dalle tracce archeologiche, come se tutto dovesse ancora accadere, oltre ogni declinazione del tempo, nel mondo e nella coscienza. 

C’è una realtà provvisoria, dotata di accelerazioni e di rallentamenti, che scorre tra la progressione temporale e i salti atemporali, tra un’illusione e un’altra, tra una credenza e un moto a essa opposto. Il più delle volte, l’arte è reinvenzione del già detto, del già realizzato, è riproposizione dell’immaginato che verrà continuamente. Oppure è necessità di mettere continuamente in moto qualcosa, di qualsiasi natura o entità, o, come pensa Asger Jorn, è «l’invito a un dispendio di energia». Tutto è già stato detto e fatto, ma siamo ancora qui a chiedere di farci stupire con nuove opere e idee, con inedite interpretazioni interessanti e riletture, pur non avendo appreso e compreso completamente tutte le correnti e ricerche prodotte nel corso dei secoli e dei millenni precedenti al tempo che stiamo vivendo ora.


Adrián Villar Rojas, The Most Beautiful of All Mothers (2015), particolari dell’installazione alla 14. Biennale di Istanbul (5 settembre - 1° novembre 2015).


Paolo Gioli, Sconosciuti (1994 e 2012-2013).
Nella versione qui pubblicata (2012-2013) l’artista ha lavorato sull’idea della contro-identità, sulle immagini dei volti di sconosciuti, avute in dono da un vecchio studio che ha chiuso. È partito dal retro, dal lato nascosto, dal verso di lastre fotografiche nate per certificare documenti di identità. Ha realizzato macroriprese di riflessi presenti nei ritratti “modificati” su pellicola 35 mm. E poi ha fatto rinvenire fitti intrecci di tracce lasciate dal tempo o da manipolazioni. È stata un’operazione sulla decostruzione del volto, ma al contempo anche una costruzione di natura pittorica, partendo dai segni lasciati da fotografi che ritoccavano, sulla gelatina, e lasciavano ulteriori tracce sul retro della lastra.

ARCIMBOLDO
ARCIMBOLDO
Mauro Zanchi
A trentadue anni dalla pubblicazione del primo dossier Arcimboldi (ormai esauritissimo) abbiamo deciso di dedicare all’artista lombardo un dossier totalmente nuovo. Giuseppe Arcimboldo, detto Arcimboldi (Milano 1526-1593), colto rampollo di una famiglia aristocratica, lavora ai cartoni per le vetrate del duomo della sua città natale, poi a un affresco nel duomo di Monza e inizia a interessarsi di soggetti rari e bizzarri. Nel 1562 è chiamato a Vienna, dove lavora per il futuro imperatore Massimiliano I d’Asburgo, e poi a Praga, col suo successore Rodolfo II, cultore di alchimia e appassionato collezionista. Tra le poche opere di Arcimboldi giunte fino a noi spiccano le celeberrime “teste composte”, volti e ritratti allegorici costituiti da accostamenti di elementi vegetali, oggettuali, animali. Fu anche regista e organizzatore di apparati per feste e spettacoli. La sua cultura parte dall’immaginario mostruoso del Medioevo e dalle teste caricaturali di Leonardo, repertorio che trasferisce nel pieno del gusto manieristico europeo del Cinquecento