ADRIANOE L'URBE

Cominciamo il viaggio proprio dal Pantheon: un primitivo tempio era stato fatto costruire da Agrippa per conto di Augusto fra il 27 e il 25 a.C. in un’area del Campo Marzio

caratterizzata dalla presenza di numerosi monumenti realizzati o completati in quel medesimo periodo: fra gli altri il recinto elettorale, di forma assai allungata, dei Saepta Iulia; le terme e i giardini dello stesso Agrippa. 

Il Pantheon era un tipo di monumento ereditato dai sovrani ellenistici: era dedicato ai dodici dèi principali dell’Olimpo, più il re (nel mondo ellenistico, appunto) o l’imperatore (nel mondo romano). L’edificio del 27-25 aveva pianta rettangolare in senso est-ovest con l’ingresso che si apriva sul lato lungo meridionale; il Pantheon di Adriano (dopo un intervento di Domiziano noto dalle fonti, di cui però non si sono individuati resti apprezzabili) fu costruito fra 118 e 125 (come testimoniano i bolli sui mattoni) e ribaltò la situazione aprendo l’ingresso verso nord, dove fu aggiunto un pronao con facciata templare ottastila, quella ancora visibile, e soprattutto aggiungendo a sud la grande rotonda coperta dalla celebre cupola con apertura circolare centrale, cupola ottenuta con un’unica gettata di “opus coementicium” sopra una gigantesca centina in legno. All’interno, il tamburo di base è scandito da grandi esedre (alternativamente semicircolari e rettangolari) e da colonne in avancorpo, la cupola stessa da cinque ordini di cassettoni che si vanno man mano restringendo: l’impressione di trovarsi in uno spazio perfetto è confermata dalla constatazione che il diametro è uguale alla distanza della sommità della cupola dal pavimento: quarantatré metri. Ne risulta che siamo all’interno di una sfera contenuta in un corpo cilindrico.


Cupola del Pantheon (118-125 d.C.); Roma.

E il grande Apollodoro che parte ebbe? 

Nel 118 il tempio di Venere ancora non esisteva, e quindi non si era presentata l’occasione per esprimere il parere negativo di cui si è detto: quindi almeno le primissime fasi dei lavori furono probabilmente seguite proprio dal collaboratore prediletto di Traiano. In ogni caso Adriano, nell’iscrizione sotto il frontone, non menzionò né Apollodoro né se stesso ma colui che, per conto di Augusto, aveva realizzato la prima fase, Agrippa: «Marcus Agrippa Luci Filius consul tertiumfecit» (il terzo consolato corrispondeva al 27 a.C.). Era l’applicazione di un suo principio: non “firmare” mai le sue realizzazioni. 

È forse interessante considerare che all’epoca del suo completamento il pronao del tempio si affacciava su uno spazio porticato lungo e stretto dal quale la cupola e il tamburo quasi non si vedevano, mentre si vedono molto bene dalla piazza attuale, più ampia. 

Nel 119 muore Salonina Matidia, nipote di Traiano e madre di Vibia Sabina, moglie di Adriano: quest’ultimo ne proclama immediatamente la divinizzazione, spinto dal forte (e ostentato) legame con la famiglia del predecessore. Nel 120 le dedica un tempio in Campo Marzio, cui si aggiungono due basiliche, una dedicata alla stessa Matidia e una (a conferma di quel legame) a Plotina, di cui si diceva all’inizio: la situazione è forse raffigurata in una moneta di quell’anno, in cui compare una facciata templare fiancheggiata da due portici. Il tempio fu costruito immediatamente a nord-est del Pantheon, secondo un asse perpendicolare a quest’ultimo, sul cui allineamento, immediatamente più a est, Antonino Pio avrebbe poi fatto costruire l’Hadrianeum di cui pure si è detto. 

E si è detto anche del tempio dedicato nel 121 all’imperatore e a Plotina divinizzati (divinizzazione cui allude anche un’altra emissione monetale) e a Plotina divinizzati, in un’area immediatamente adiacente all’estremità nord-occidentale del grande Foro creato da Apollodoro, non lontano dalla Colonna Traiana (nel grande piedistallo della quale, come si era progettato fin dall’inizio, erano collocate le spoglie della coppia imperiale): sull’esistenza e sulla posizione di questo tempio si è molto discusso (lo studioso che più costantemente si è occupato del problema è stato Roberto Meneghini), ma ora le ultime indagini di Paola Baldassarri, unite a un attento riesame delle numerosissime ricerche condotte in precedenza da molti studiosi, sembrano suggerire una risposta definitiva. Siamo nel sottosuolo di palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma: sono stati individuati numerosi spezzoni di una serie di enormi colonne in granito grigio, serie di cui faceva parte anche quella oggi visibile in superficie al margine dell’area monumentale; e inoltre altri frammenti di vari marmi, fra cui molti di “marmor Numidicum”(detto anche “giallo antico”, proveniente dalle cave di Simitthu presso il confine fra le attuali Tunisia e Algeria), pertinenti in origine a colonne di misura leggermente inferiore, nonché resti di un podio sorretto da concamerazioni a crociera.


Aureo con Adriano sul recto e Traiano e Plotina divinizzati sul verso (128-138 d.C.); Londra, British Museum.


Progetto del tempio di Venere a Roma (121 d.C. circa).


Tempio di Venere e Roma (121-135 d.C.); Roma.

La situazione è molto delicata, dato che le strutture sotterranee del palazzo sono state costruite sopra i resti antichi, senza rimuoverli, creando perciò una certa confusione, ma la Baldassarri è in grado di proporre una nuova ricostruzione: tempio con otto colonne di granito grigio in facciata, su un’alta gradinata; colonnati sempre di granito grigio anche lungo i fianchi, ma non sul lato posteriore; all’interno della cella lo spazio si articola in tre navate, scandite da due file di colonne in giallo antico. L’asse dell’edificio è, in pratica, la prosecuzione di quello del Foro, in un’area che probabilmente era stata un cantiere di Apollodoro, e che in tal modo veniva riqualificata; lo sarebbe stata ancor di più, come vedremo, con la costruzione del non lontano Athenaeum. 

Quest’ipotesi è stata qui riportata in quanto suggestivamente formulata (riprendendo anche antiche indagini) da una notevole studiosa. Va però ricordato che, ancor più recentemente, Eugenio La Rocca e il già ricordato Meneghini hanno sostenuto che la presenza di un edificio di tale consistenza non è verificabile fino in fondo, introducendo inoltre il problema dell’arco celebrante la vittoria partica di Traiano: arco la cui costruzione fu completata malgrado i successivi eventi delle guerre d’Oriente fossero stati infausti, e che le fonti collocano proprio in quest’area. Ma, nell’ambito di una discussione che ancora non tende a chiudersi, Filippo Coarelli, nell’ultimissima edizione della sua guida Roma, pubblicata con Laterza, sembra tornare a dar ragione alla Baldassarri. 

Nello sesso anno in cui il tempio, quale che fosse la sua effettiva consistenza e ubicazione, fu comunque consacrato, e cioè nel 121, venne inaugurato anche il tempio di Venere e Roma, opera, come si è detto, dello stesso Adriano: verrà però consacrato solo nel 135. Era un edificio grandioso (145 x 100 metri, il più grande tempio di Roma antica, insieme con quello di Serapide che più tardi Caracalla fece costruire sulle pendici del Quirinale), che andava a sovrapporsi all’atrio della Domus Aurea di Nerone, dove era il Colosso di bronzo che raffigurava quell’imperatore: tale sovrapposizione faceva parte di un programma di sistematica eliminazione delle realizzazioni neroniane, già avviato dagli imperatori Flavii (Vespasiano, Tito e Domiziano). 

Il Colosso fu spostato verso l’Anfiteatro Flavio con l’impiego di ventiquattro elefanti, “adattandolo” a rappresentazione del dio Sole (in tale veste restò a lungo accanto all’Anfiteatro, di cui finì per determinare la denominazione popolare di Colosseo). 

L’edificio adrianeo era caratterizzato soprattutto dalle due celle contrapposte, quella dedicata a Roma rivolta verso il Foro romano, quella dedicata a Venere verso l’Anfiteatro: in origine le pareti di fondo delle celle stesse, che si toccavano fra loro, non erano absidate (lo divennero in occasione di un restauro di Massenzio nel 307, ed è la fase oggi visibile). Forse fu proprio questa grande rilevanza ad attirare quelle che, secondo Cassio Dione, furono le critiche di Apollodoro, il quale però apparentemente avrebbe preferito una monumentalità ancor maggiore: «Il tempio avrebbe dovuto essere costruito su alto podio, per poter essere meglio visibile dalla via sacra; sotto le volte del podio avrebbero poi potuto trovare posto le macchine utilizzate per i giochi nel vicino Colosseo». Critiche che certamente non meritavano la condanna a morte (che in effetti forse non vi fu), ma che altrettanto certamente, almeno in apparenza, non erano un granché. Probabilmente la scarsa altezza del podio dava fastidio all’“archistar” di Traiano perché era una caratteristica costruttiva dei templi greci, gradita invece all’imperatore amante della cultura ellenica. 

Nel 134 fu inaugurato il Mausoleo, in un’area appartenente agli Horti Vaticani e, in particolare, negli Horti Domitiae, subito al di là del Tevere: fu anche costruito un ponte, il pons Aelius(dal nome dell’imperatore Publio Elio Adriano), che in parte sopravvive nell’odierno ponte Sant’Angelo. L’imperatore, morto a Baia nel 138, fu però inizialmente sepolto a Pozzuoli, perché i lavori furono realmente ultimati solo nel 139 a opera di Antonino Pio, che del resto anche lui sarebbe stato collocato qui, come tutti gli imperatori successivi fino a Caracalla (188-217). 

Come è arcinoto, il Mausoleo fu poi trasformato in Castel Sant’Angelo: in una lunga serie di riadattamenti, costruzioni e ricostruzioni, fu usato come fortezza già in età tardoantica in occasione degli assedi dei Visigoti, ma fu poi del tutto riplasmato in vari interventi dei papi Alessandro VI Borgia nel Quattrocento, Paolo III nel Cinquecento, Urbano VIII nel Seicento. Il monumento poggiava su un grande podio a pianta quadrata, oggi nascosto dalle fortificazioni papali: all’interno una serie di concamerazioni convergevano a raggiera verso il tamburo cilindrico centrale.


Castel Sant’Angelo, resti delle mura dell’originale mausoleo di Adriano (134 d.C.); Roma.


Castel Sant’Angelo e il ponte Sant’Angelo, già pons Aelius (134 d.C.); Roma.


Qui, attraverso un ingresso collocato tre metri sotto quello attuale, si entrava attraverso un vestibolo che a sua volta immetteva in una rampa elicoidale: questa, salendo attraverso la massiccia struttura, conduceva alla camera sepolcrale. Sopra tale camera se ne elevavano altre due, o forse tre, fino a un piano che sorreggeva una quadriga trionfale: all’esterno il dislivello fra questa e la sommità del tamburo era dissimulato da una copertura troncoconica dotata di un giardino pensile riccamente alberato, ispirato probabilmente al mausoleo di Augusto che a sua volta si rifaceva a illustri esempi più antichi. 

All’interno del monumento le sculture erano numerosissime, anche se nessuna è stata rinvenuta nella sua posizione originaria e molte sono state ritrovate avventurosamente. La causa va ricercata nei numerosi sconvolgimenti causati dalle tante ristrutturazioni, ma qualche volta anche da fatti più drammatici, come quando, in occasione di assedi, i difensori scagliavano statue come proiettili. Alcune di esse erano rimaste nei fossati: uno scavo condotto fra 1624 e 1628 da Urbano VIII Barberini consentì di rinvenire il celebre Satiro dormiente, o appunto Fauno Barberini che all’inizio dell’Ottocento fu acquistato da Ludwig di Baviera per la Glyptothek di Monaco. È un originale del 220 circa a.C.: come molte opere di età ellenistica, e forse in contrasto con la compostezza che si potrebbe pensare adatta a una riutilizzazione in un sepolcro imperiale, questa statua maggiore del vero esprime un tema un po’ forte e “sopra le righe”. Raffigura un satiro, espressione della forza selvaggia della natura, che a gambe aperte, flesso all’indietro, dorme a bocca semiaperta in preda all’ubriachezza. 

Fra le numerose altre sculture possiamo ricordare le immagini maggiori del vero dei due primi “occupanti”: Adriano stesso, in un busto colossale che oggi è esposto nella Rotonda dei Musei vaticani, e Antonino Pio, in un busto pure colossale che invece è conservato nel Museo nazionale del Castello stesso. Il ritratto di Adriano sembra confrontabile con uno rinvenuto nella Villa di Tivoli, di cui si è parlato all’inizio: gli specialisti lo definiscono «Chiaramonti 392», e presenta un aspetto ancora giovanile. Significativo che sia stato scelto proprio questo per il sepolcro. La chioma di Adriano, qui come altrove, è del tipo “in gradus” (a gradini, o forse meglio a onde, che era stata adottata la prima volta da Nerone); la fronte è coronata da ciocche pettinate in avanti lunghe e molto ondulate: quelle alle estremità appaiono arrotolate su se stesse.

Il ritratto di Antonino mostra, nella resa di chioma e barba, perizia quasi calligrafica, mentre per l’esecuzione delle ciocche intorno alla fronte si introduce in maniera molto cauta l’uso del trapano. 

Bisogna almeno accennare agli importanti interventi di sia pur parziale ristrutturazione nei Fori imperiali, nel Foro romano, nel Palatino, negli Orti sallustiani; l’ultimo edificio che, invece, prendiamo più approfonditamente in considerazione nell’Urbe è anche l’ultimo che Adriano vi fece costruire (inaugurato nel 135), nonché l’ultimo che è stato scoperto. È l’Athenaeum, monumento di cui parlano le fonti ma di cui fino al 2008 non si erano rinvenuti i resti: in quell’anno si avviarono gli scavi connessi con i lavori per la linea C della metropolitana, e si cominciarono a mettere in luce consistenti murature. 

Siamo in piazza Madonna di Loreto, a poca distanza dalla Colonna Traiana e dal già ricordato palazzo Valentini che “nasconde” (ma ormai non troppo) i resti del tempio di Traiano e Plotina. Si sono rinvenute tre grandi aule separate da corridoi, caratterizzate dalla presenza di gradinate addossate ai lati lunghi a mo’ di tribune e originariamente coperte da volte a botte. Si tratta certamente di strutture connesse con la vita culturale: lezioni, discussioni filosofiche (il II secolo è quello della seconda sofistica), audizioni di poeti, e forse vi è un nesso con le non lontane biblioteche del Foro Traiano. Si aggiunge così un altro tassello alla comprensione di uno spazio interessante di cui si è parlato a proposito del tempio sotto palazzo Valentini: un tassello non banale in quanto il “corridoio di raccordo“ su cui si affacciano le aule ha un andamento curvilineo, che offre una certa idea della conformazione di insieme dello spazio stesso, e dà in qualche modo ragione a vecchie ipotesi ricostruttive secondo cui era proprio un portico semicircolare a racchiudere l’area sacra. Si può anche ricordare che un Athenaeum fu istituito da Adriano anche ad Atene, in particolare presso la biblioteca da lui costruita, anche se per la verità non c’è una rispondenza architettonica precisa. 

Prima di lasciare Roma dobbiamo dar conto di un monumento molto noto che forse ha avuto una fase adrianea, forse no. Si tratta dell’Arco di Costantino, in cui sono inseriti otto “tondi” che mostrano, con modi classicheggianti ma (come ha osservato Filippo Coarelli) non immuni da inquietudini romantiche, scene di caccia a varie fiere e di sacrifici a vari dèi che hanno per protagonista lo stesso Adriano; è anche presente Antinoo. Nell’arco, si sa, sono pure inseriti rilievi dell’epoca di Traiano e di Marco Aurelio, e si pensa comunemente che siano stati scelti dallo stesso Costantino prelevandoli da monumenti, forse in disuso, relativi ad alcuni fra i suoi più illustri predecessori. Un gruppo di studiosi, verso la fine del secolo scorso, concluse, dopo attente analisi, che andavano attribuiti all’età di Adriano non solo i tondi, ma anche una prima fase costruttiva del monumento. L’ipotesi, per quanto presentata in pubblicazioni assai rigorose, non è stata però accolta da unanimi consensi.


Fauno Barberini (220 a.C. circa), dal mausoleo di Adriano; Monaco di Baviera, Glyptothek.


Busto di Adriano, del tipo «Chiaramonti 392» (138 d.C. circa), dal mausoleo di Adriano; Roma, Musei vaticani, Museo pio clementino, Sala della rotonda.

Arco di Costantino (315 d.C.); Roma.

Resti dell’Athenaeum (135 d.C.), scoperti nel 2008; Roma. uno dei corridoi.
Una delle aule.
Fra un’aula e l’altra era un corridoio, che a sua volta confluiva in un corridoio più ampio, dall’andamento curvilineo, il quale fungeva da raccordo e al tempo stesso descriveva un ampio semicerchio attorno allo spazio già in precedenza occupato (sembra) dal tempio dei divi Traiano e Plotina.


Pur in una situazione apparentemente confusa, si vede una delle due gradinate-tribune per gli uditori, e si intravvede sul lato opposto l’altra.

L'ETÀ DI ADRIANO
L'ETÀ DI ADRIANO
Sergio Rinaldi Tufi