DAL QUADRO
ALLO SPAZIO

Nel 1963 Kounellis interrompe la produzione di tele con le lettere, e realizza alcune marine dai colori tenui, sobrie ed essenziali, che espone l’anno successivo alla Galleria La Tartaruga, dove nel 1966 presenterà un’altra personale, Nove quadri e una scultura.

Ma nonostante il successo, per l’artista è difficile vendere perché a Roma c’è pochissimo mercato, a differenza di Milano o Torino. «C’era un’energia enorme, ma senza possibilità di soldi. Per i pittori a Roma esisteva solo una grande solitudine».

Così, quando ritiene che i suoi quadri siano diventati uno stile, smette e cambia completamente registro e linguaggio. Interrompe la collaborazione con La Tartaruga e inizia a lavorare con un’altra galleria, L’Attico, dove nel marzo 1967 presenta Il Giardino-I Giochi, una mostra in due tempi introdotta da Alberto Boatto, dove l’artista riunisce una serie di elementi che costituiranno i fondamenti della sua ricerca successiva, legata al movimento dell’Arte povera, definito criticamente da Germano Celant nello stesso anno. Abbandonata la pittura su tela, la grammatica di Kounellis si impadronisce dello spazio, articolato secondo una sorta di reinterpretazione della natura. Tre grandi tele bianche ospitano rose di stoffa, anch’esse bianche o nere, appuntate con automatici: la più grande, lunga cinque metri, è accompagnata ai lati da ventiquattro gabbiette con canarini vivi. «L’effetto è quello di penetrare in un giardino congelato da un sogno in vena di allegorie, di stilizzazione e di purismo», scrive Boatto.


Senza titolo (1967); Roma, studio dell’artista.


Senza titolo (1967), installazione; Roma, Galleria L’Attico.

Pochi mesi dopo l’artista torna a esporre nella stessa galleria, con un ambiente che riunisce diversi elementi: un pappagallo vivo su un trespolo attaccato a una lastra di ferro, una “cotoniera” con una matassa di cotone circondata da quattro lastre di ferro e infine un’installazione composta da otto contenitori rettangolari riempiti di terra, ognuno con cinque cactus di specie diverse. Una sorta di paesaggio dove arte e natura si fondono per creare un nuovo linguaggio, un territorio dove l’arte si unisce alla vita. «Kounellis con i lavori del 1967 che comportano l’uso di materiali elementari come cotone, pappagalli, canarini, lane, fiori e carbone, passa da un linguaggio scritto a un linguaggio fisico», spiega Celant, «dall’operazione mentale all’incontro concreto e naturale, dal “detto” al “non detto”». Si tratta di un’interazione tra elementi inorganici, che l’artista chiama «struttura» con altri elementi organici, definiti «sensibilità»: l’opera scaturisce dalla tensione tra la struttura e la sensibilità.

Secondo Thomas McEvilley queste opere «sono trasposizioni di dipinti - la cornice/struttura che contiene l’immagine/ sensibilità - in qualcosa di diverso che non è più la pittura: sono un trampolino di lancio che permette al lavoro di Kounellis di entrare nella pienezza dello spazio». Nel maggio 1967 l’artista partecipa alla collettiva Lo spazio degli elementi: fuoco immagine acqua terra alla Galleria L’Attico, dove presenta uno dei suoi lavori più iconici: una lastra di ferro tagliata a forma di margherita, con al centro un beccuccio collegato con un tubo a una bombola di gas, che emette una lunga fiamma. È la prima apparizione del fuoco, uno degli elementi più presenti nel lavoro di quegli anni, che nel pensiero dell’artista assume significati simbolici molto precisi. «Il problema del fuoco è un problema particolare. Il mio interesse per questo elemento non risiede soltanto nel fuoco come problema », spiega, «ma anche nei riferimenti con le leggende medievali. Il fuoco nelle leggende medievali si identifica con il castigo e la purificazione».


Senza titolo (1967); Roma, Galleria L’Attico.

Senza titolo (1967); Roma, Galleria L’Attico.


Senza titolo (1967); Roma, Galleria L’Attico.


Senza titolo (1967); Roma, Galleria L’Attico.

Il 1968 è un anno di svolta per l’artista: nelle tre mostre personali (Galleria Jolas, Milano, Galleria Carello, Napoli e Galleria Gian Enzo Sperone, Torino) espone una serie di nuovi lavori, che definiscono e annunciano gli sviluppi della sua ricerca, in totale sintonia con la teoria poverista di Celant. Entrano in gioco nuovi materiali, come i sacchi di juta (un evidente riferimento ad Alberto Burri), il carbone, le reti metalliche e la lana grezza, avvolta a bastoni verticali, che ricorda il cotone utilizzato da Piero Manzoni nei suoi Achrome. «Nel modo in cui Kounellis contamina l’arte e la vita, l’artificiale e il naturale, il vivo e l’inerte, tutti i termini tendono a rimanere dissociati […]. È dunque possibile vedere l’arcaismo-esotismo di Kounellis come esperienza di un nuovo senso di solitudine: dopo quello sociologico, un déracinement terrestre», scrive Tommaso Trini a proposito della mostra milanese da Jolas. In questo stesso anno l’artista comincia la sua relazione con il teatro, successiva all’incontro con il regista Carlo Quartucci, per il quale realizza le scene dello spettacolo I testimoni dell’autore polacco Tadeusz Róz˙ewicz al Teatro stabile di Torino: un’attività che l’artista proseguirà per tutta la sua vita.


Senza titolo (1971); Roma, studio dell’artista.


Senza titolo (1967); Roma, Galleria L’Attico.
Il 1967 è l’anno nel quale Jannis Kounellis definisce il suo nuovo linguaggio artistico, non più legato alla pittura ma alla natura. Dopo aver abbandonato La Tartaruga di Plinio de Martiis, espone all’Attico di Fabio Sargentini una serie di sculture con elementi naturali: dodici gabbie con canarini, un pappagallo, una serie di cactus, una “cotoniera”, una “carboniera”. Alcuni di questi ritornano in talune opere successive, come lettere di un nuovo alfabeto di un’arte che conquista lo spazio.

Sulla scena sono presenti sacchi di terra e carbone, che gli attori portano sulle spalle, oltre a una grande voliera e diverse gabbie di uccelli. «I miei materiali non si integrano, rivendicano uno spazio proprio e, allo stesso tempo, creano uno spazio complesso che tende non tanto a far dimenticare la finzione del luogo teatrale quanto a rimettere in questione, a provocare, a rendere evidenti le costrizioni che essa implica». L’11 settembre 1968 muore per un incidente stradale Pino Pascali, e Kounellis che dedica all’amico prematuramente scomparso il testo Per Pascali, pubblicato sulla rivista “Qui Arte Contemporanea” (n. 5, marzo 1969), dove sottolinea la «capacità di evocare» dopo aver elencato i suoi amori: «Pollock, il mare (la pesca subacquea), i giochi (i giocattoli), Rauschenberg, Jasper Johns, le armi, gli attrezzi da lavoro, Oldenburg, Scarpitta, l’America: della fantasia, dell’infanzia, della possibilità vitale…, di certi film…, e le ragazze…».


L’artista nel suo studio, Roma 1969.

KOUNELLIS
KOUNELLIS
Ludovico Pratesi
Jannis Kounellis (Pireo 1936-Roma 2017) si trasferisce dalla Grecia a Roma non ancora ventenne. Alla fine degli anni Sessanta lega il suo lavoro creativo e il suo nome all’Arte povera, con l’uso di materiali presi dalla quotidianità e un coinvolgimento del pubblico in allestimenti sempre più allusivi allo scontro fra vita reale e contesto socioeconomico. Le sue installazioni si concentrano sempre più sulla critica al sistema globale di produzione/fruizione dell'arte; si popolano di animali - vivi, macellati, imbalsamati -, di materiali come pietre, mattoni, ferro, carbone, legno. Partecipa alla Biennale di Venezia per la prima volta nel 1972. A partire dagli anni Ottanta realizzerà grandi installazioni in Messico, in Argentina, a Roma, a Firenze, a Palermo.